Hanno scelto proprio te

Il ragazzo, benché saldamente legato per i polsi alla larga stufa di ghisa, non aveva rinunciato all’idea di liberarsi. Strattonava con forza le braccia dallo sportello massiccio come se non fossero sue e come se il dolore non gli azzannasse ogni volta la base del cervello facendogli cedere le gambe. Ma doveva fuggire da quella catapecchia, prima che fosse tardi. Doveva soprattutto approfittare del fatto che, nell’altra stanza, quei balordi stessero ancora litigando; le loro urla, miste a bestemmie e rumori di spintoni e schiaffi, filtravano dalle assi mal inchiodate della parete ed erano così forti da far tremare tutta la struttura. Lui lo sapeva che non riuscivano a decidere a chi di loro toccasse ucciderlo, ma si era reso anche conto che quell’incertezza non sarebbe durata a lungo. Qualcosa in quel sequestro da poveri diavoli non aveva funzionato. Dalle mezze parole masticate in quello strano dialetto, aveva compreso che i soldi non sarebbero stati mai pagati e che il più giovane di loro, quello che era andato all’appuntamento con i soldi, era stato attestato. Era questione di ore, dunque, e la polizia sarebbe arrivata anche lì. Lui era divenuto improvvisamente di troppo. Li aveva visti bene in faccia e, in quel preciso istante, aveva anche smesso di essere merce di scambio.
Poi, di colpo, il trambusto tacque. Il ragazzo trattenne il respiro, mentre provava ancora a tirare a sé con tutte le forze gli avambracci. Le dita stavano diventando viola e le vene si erano ingrossate gonfie di rabbia. Il cuore cominciò a pompare in maniera così tumultuosa da assordarlo e l’adrenalina dilatò le sue pupille come quelle di una faina braccata dai lupi. Sentì i passi avvicinarsi e subito un uomo spalancò la porta con un violento calcio assestato alla base appiattendola al muro da dove non ebbe più il coraggio di muoversi. Si portò a larghe falcate al tavolo, al centro della stanza, sedendosi pesantemente. La luce di sbieco dai campi bruciati di girasole, gli illuminava mezza faccia quel tanto che bastava per poter leggere tutta la tensione nei lineamenti.
«E così hanno scelto proprio te per fare il lavoro sporco» ringhiò il ragazzo con una voce inaspettatamente rauca. Il tono si era fatto impavido, rassegnato. Tutto il suo corpo era in ombra, ma la polvere che si alzava dal pavimento quando agitava le scarpe prendeva un biancore dorato che rimaneva sospesa a mezz’aria nella stanza. L’uomo girò appena lo sguardo in direzione del sequestrato, ma non rispose. Si limitò a sbuffare rumorosamente: davanti a sé aveva una pistola automatica completamente smontata, che prese ad assemblare con un certo nervosismo.
«Eppure mi eri sembrato il migliore fra loro» fece il ragazzo, cui si stava stringendo la gola per l’emozione. «In questi giorni mi hai anche aiutato qualche volta. Mi hai portato da bere quando avevo sete e da mangiare quando la fame non mi faceva più dormire.»
L’uomo non fiatava. Sembrava sordo o profondamente assorto nei suoi pensieri. Seguitava imperterrito a mettere insieme i pezzi dell’arma senza incertezze, con scatti improvvisi, ma sicuri. Si sarebbe detto che avrebbe saputo svolgere quell’operazione anche nella pancia della madre, tanto era connaturato al suo esistere.
«Mi eri sembrato quello che sapeva di avere una coscienza, devo essere sincero…» continuava ostinato il ragazzo con un tono che si era fatto mieloso e cantilenante «abbiamo parlato a lungo, mi ero persino illuso che fossimo diventati un po’ amici»; parlava a raffica il giovane senza mai perdere neppure un gesto del suo carnefice, le cui dita danzavano su quegli oggetti freddi e levigati a ricomporre la forma aggressiva e infida di una grossa calibro 45. «Cos’hai da spartire con quelli là? Tu sei diverso, ne sono sicuro. Fammi fuggire, saprò ricompensarti. Mio padre ha amici influenti. Farò di tutto perché tu esca fuori da questo pasticcio nei migliori dei modi. Ti prego, aiutami, ti supplico.»
L’uomo squadrò il ragazzo con odio, serrando i muscoli delle mascelle. I grossi baffi erano mobili e nascondevano del tutto il labbro superiore, come se vi fosse stata una imperfezione o un taglio da mascherare.
Poi, d’un tratto, l’arma fu ultimata in ogni sua parte. Anche la luce del sole sembrò attenuarsi a sottolineare quell’attimo di silenzio. L’uomo teneva le mani con le palme aperte sul tavolo attorno all’arma che aveva smesso di luccicare, come se da innocente sommatoria di pezzi finemente lavorati, fosse diventata strumento consapevole di morte. Quindi l’uomo, con uno gesto breve, ma plateale, innestò il caricatore già gravido di munizioni. Armò la pistola spostando indietro il carrello con un colpo secco che fece vibrare finanche la maniglia, cui il ragazzo era ancora legato. Quasi fosse stato un segnale, il ragazzo tacque. Il tempo era dunque scaduto. L’uomo con fare stanco scostò la sedia puntando le scarpe sull’assito. Le gambe della sedia strisciarono mandando un gemito isterico. Si alzò in piedi con la pistola nella mano sinistra abbandonata all’altezza della coscia. Il volto era reclinato verso il basso, ma gli occhi, rimasti visibili, si erano fatti torbidi, indecifrabili, come quelli di un pazzo. Fece due passi in direzione della sua preda accovacciata come uno straccio. La sentiva ansimare nel buio e mordersi le labbra. Alzò la pistola in direzione del punto dove pensava che ci sarebbero stati i capelli del giovane, che chiuse gli occhi strizzando le palpebre.
«Che tu sia maledetto» mormorò l’uomo con livore. Poi si portò la pistola alla tempia e si sparò.

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