Un treno carico di stelle (seconda e ultima parte)

[RIASSUNTO della puntata precedente: i passeggeri di un treno di lusso 
sono in viaggio tra paesi europei ed esotici; sembra un viaggio noioso 
e costoso, quando...] --> leggi la puntata precedente Un treno carico 
di stelle (prima parte)

Di lì a pochi minuti il treno si fermò di nuovo. Lo fece dando l’impressione che da quel posto non si sarebbe più mosso. Forse per il rumore che aveva fatto nell’arrestarsi, forse per il tipo di frenata.
Molti dei 233 passeggeri cercarono di aprire le porte. Ma erano sigillate con una chiusura centralizzata. L’idea che si era diffusa era che fosse meglio lasciare il treno il più presto possibile, non essendo più percepito come sicuro: qualunque cosa potesse accadere e ovunque i passeggeri si trovassero in quel momento occorreva andarsene. I viaggiatori, come fossero stati un unico animale da preda, avevano fiutato infatti il pericolo. Si pensò quindi che sarebbe stato più sicuro, anche a quell’ora, raggiungere la stazione ferroviaria più vicina o raggiungere una strada per chiedere un passaggio e tornare così in qualche modo a casa. Dopo tutto, pensavano, sarebbero stati protetti dalle norme internazionali e dal passaporto straniero.
Cercarono di entrare anche nella cabina del macchinista per ottenere lo sblocco delle porte, ma era chiusa dall’interno. Uno dei due australiani sparò diverse pallottole della sua 45 contro la serratura per poterne avere ragione, ma non ci fu nulla da fare.
Poi d’un tratto, nella cupa oscurità, si videro dei bagliori lontani come lame di una sofisticata arma sconosciuta; diventavano sempre più vicini fino a diventare abbaglianti. Ben presto non fu più possibile vedere nulla al di là dei finestroni sgranati sulla campagna come enormi occhi ciechi. Qualcuno stava puntando dei potenti proiettori al led contro il convoglio. Erano stati scovati, loro erano lì, e ora forse poteva accadere solo il peggio. Si sentiva infatti parlare una lingua incomprensibile. Qualcuno impartiva ordini secchi, concitati. C’era tramestio, vibrazioni, rumori di cingoli.
Oliver si accorse che a quella luce gli occupanti apparivano pallidi e tesi e la maggior parte di loro era terrorizzata. Si guardavano l’un l’altro come per trovare una spiegazione plausibile per quello che stava loro accadendo; si interrogavano soprattutto su una possibile via di fuga. Non c’era modo però di andarsene, né di comunicare con l’esterno e comprendere quali fossero le reali intenzioni degli insorti, se poi lo erano davvero.
Le due sorelle si misero all’improvviso a urlare dai vetri in direzione delle persone sopraggiunte gridando che loro erano solo turisti e che non costituivano una minaccia. Battevano le mani sui finestroni e gridavano a squarciagola ottenendo solo l’effetto sinistro che le loro voci rimbombassero insicure e disperate all’interno del vagone. Poi rimasero in silenzio percependo tutta loro impotenza.
In quel mentre, iniziò, molto vicino al convoglio, il crepitio assordante delle armi automatiche. C’erano anche colpi di fucile e scoppi di bombe e di mortaio. Tutti gli occupanti si stesero immediatamente sul fondo. Tranne i due australiani che si misero a sbirciare fuori cercando di venirne a capo. Poi ci furono altre esplosioni, urla agghiaccianti, strepiti, boati. Gli spostamenti d’aria facevano vacillare il vagone facendo sentire gli occupanti in balia di una forza oscura e soverchiante. Ben presto però si accorsero anche che, nonostante i vagoni fossero sotto quelle luci abbacinanti e che ci fosse tutto quello strepito e confusione, non un colpo d’arma da fuoco li stava colpendo. Era in atto una battaglia, era certo, ma loro non costituivano il bersaglio. Non si capiva bene chi stesse combattendo chi, ma di fatto il treno si trovava in mezzo ai belligeranti.
Fu quello il momento in cui si avvertì un tonfo.
Temettero tutti che qualcuno stesse cercando di forzare una porta per fare irruzione nel vagone. L’uomo che viaggiava con il figlio si piazzò appena dietro un ingresso. Brandiva un grosso coltello che luccicava ad ogni esplosione. Le due sorelle erano poco distanti. Si tenevano per mano incitando però con gli occhi l’uomo a fare qualcosa. Non sembrava tuttavia che il rumore provenisse davvero da quel punto. Pareva piuttosto che qualcosa avesse colpito un vetro.
Quando un proiettore che illuminava a giorno il convoglio cambiò angolazione fece intravvedere di cosa si trattava: era una mano mozzata rimasta appiccicata al finestrone e ora stava scendendo lentamente verso il basso lasciando una striscia di sangue sotto le dita e il palmo aperto. Ad Oliver parve di riconoscere tra quelle dita un anello che aveva notato fosse stato Abner a portare, ma non ne sarebbe stato poi così sicuro.
Le tre ‘dame’, questa volta, urlarono all’unisono spostandosi istintivamente dalla parte opposta del vagone. La donna misteriosa si era messa invece, stupita, a fissare la mano mozza; la seguiva con attenzione, incuriosita, mentre scendeva sbilenca sul vetro come fosse stato un raro esperimento scientifico, fino a quando non si staccò per cadere senza rumore tra i binari. Poi anche la donna cadde riversa da un lato. Un proiettile vagante, entrato nel vagone chissà come e chissà da dove, l’aveva appena attinta alla gola. Oliver si gettò su di lei per prenderla al volo e impedirle di battere la testa. L’appoggiò lentamente sul fondo dello scompartimento per poi vederla spirare tra le sue braccia affogata nel suo stesso sangue. ‘Che brutta morte!‘ ebbe solo modo di pensare, in quel momento.
«Dobbiamo uscire di qui…» fece il secondo australiano con uno sguardo che brillò nel buio «… o ci faremo ammazzare tutti.»
«Ce l’ha un’altra pistola da darmi?» chiese l’uomo anziano con la polo blu.
«Ci sono dei coltelli nella cucina del ristorante…» svelò l’uomo che viaggiava con il figlio mostrando il proprio di coltello.
In quell’istante, quasi fosse stata una risposta, con uno strattone che per poco non fece cadere i viaggiatori, il treno prese a muoversi di nuovo, ma con la stessa lentezza delle ultime ore.
In capo a una mezz’ora il convoglio si era lasciato dietro le luci fredde dei proiettori e i rumori della battaglia. Poi si arrestò di nuovo nella campagna infinita. Ora era il silenzio che la faceva da padrone ad avvolgere ogni cosa come un sudario. L’interno del vagone era nuovamente nell’oscurità più totale; si udivano qua e là dei pianti sommessi: difficile capire da chi provenissero.
Quindi, d’un tratto, si avvertirono degli scatti metallici. Era lo sblocco delle porte.
Subito tutti si precipitarono verso le uscite del treno e in pochi minuti i passeggeri furono sulla massicciata all’aria pulita e tersa della notte che pareva volerli mondare da ogni brutto ricordo.
Il cielo sopra di loro era ingombro di stelle. Oliver si guardò in giro. La massa scura del treno alle sue spalle era un animale preistorico appena addormentato. Gli arrivò un lontano rumore di risacca e il profumo del mare, quasi una promessa di salvezza ancora tutta da mantenere.
Poi, in un attimo, come topi usciti da un tombino allagato, i viaggiatori sparirono in tutte le direzioni. Incontro ciascuno al proprio destino.
(fine)

dietro il racconto
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Un treno carico di stelle (prima parte)

Nelle ultime tre ore il treno aveva corso a velocità sostenuta una campagna desolata che ogni tanto era interrotta qua e là da paeselli insignificanti che non si faceva in tempo a intravvedere che già erano stati inghiottiti da un paesaggio monotono, tipico di quella parte del globo.
Ad Oliver era sembrata una buona idea regalarsi per il suo pensionamento quel viaggio tanto reclamizzato. Più di tremila chilometri di fascino e mistero tra paesi ricchi di storia. Così c’era scritto sulla brochure. Ma, a parte un paio di capitali degne di nota, l’unica cosa piena di fascino e mistero, convenne, era rappresentata da una donna di mezza età, molto piacente, che se ne stava sempre in disparte, su una poltroncina tutta sua a guardare, senza mai stancarsi, dal grande finestrone dello scompartimento. Anche i pasti li consumava nel sontuoso vagone ristorante sempre da sola, mangiando poco e lentamente, con triste svogliatezza. Aveva cercato di saperne di più su di lei ma inutilmente, così come avevano avuto scarso successo i suoi timidi tentativi di avvicinarla.
Nello scompartimento, oltre a lei, c’erano altre tre donne attempate (le “dame” come le aveva soprannominate Oliver) che non stavamo mai zitte; dal momento della colazione fino a quando non bevevano lo cherry della buonanotte era tutto un chiacchiericcio fitto fitto, frammentato da risate sonore e rapidi cambi acuti di tono.
Inoltre c’erano due uomini d’affari australiani, vestiti in modo impeccabile, che parlottavano tra loro sommessamente, fumando un sigaro perenne, senza neppure dare un’occhiata al mondo che sfilava loro accanto. Se si fossero trovati anche altrove, che so, all’ora di punta sulla metropolitana affollata di Sidney, per loro sarebbe stato lo stesso. Completavano la carrozza un padre quasi completamente calvo con il figlio piccolo, due sorelle gemelle e un uomo anziano distinto con una polo blu elettrico.
Insomma, un viaggio noioso. Costoso e noioso. Si disse Oliver, tra sé e sé.
Poi il treno perse slancio fino a fermarsi in aperta campagna, quasi avesse perso la voglia di proseguire.
Fino a quel momento il viaggio era stato rigorosamente rispettoso della tabella di marcia, nonostante l’enorme tragitto trascorso e i molti paesi stranieri attraversati. Sicché quella fermata colse tutti di sorpresa.
Dopo circa dieci minuti passò tra i vagoni Abner, il capotreno/leader group, che annunciò pomposamente, come il maggiordomo di un antico manor inglese, che erano in attesa di istruzioni da parte della Centrale operativa di Edimburgo; non c’era comunque nulla di cui preoccuparsi. Ben presto avrebbero ripreso il viaggio e recuperato il tempo perduto. Nel frattempo, per scusarsi del disagio, il Tour Operator offriva ai passeggeri una flûte di Krug per ingannare l’attesa.
Purtroppo, a quei dieci minuti se ne aggiunsero altri e altri ancora.
Dopo due ore in cui ormai regnava malumore e disappunto generali, Abner via interfono avvertì che la situazione era precipitata e che, ci tenne a precisarlo più volte, ciò non dipendeva dall’Organizzazione. Nel Paese in cui si trovavano si era verificato un colpo di Stato: proseguire poteva essere pericoloso essendo la campagna battuta da rivoluzionari armati.
I due australiani, all’annuncio, si erano a quel punto alzati. Entrambi avevano estratto dal panciotto un revolver. L’uomo più alto, con la barba curata, teneva in mano addirittura una Smith & Wesson cal. 45 a sei pollici, alla cui vista le tre dame si misero una mano davanti alla bocca per non gridare. La donna misteriosa invece continuava a guardare fuori dai vetri, completamente assorta nei suoi pensieri, come se non avvertisse alcun pericolo. Le due sorelle erano al loro posto, agitate, mentre l’uomo che viaggiava con il figlio, in preda anche lui a un evidente nervosismo, si era messo ad andare avanti e indietro per il vagone. Oliver  avrebbe voluto volentieri invitarlo a sedersi, ma lo sguardo allucinato dell’uomo lo dissuase.
Dopo il tramonto le luci all’interno del treno non furono accese. Era per motivi precauzionali, fu detto. Era una notte senza luna e il buio avrebbe protetto il convoglio che sarebbe diventato così invisibile.
Arrivò il momento della cena, ma nessuno volle mangiare, neppure i piatti freddi che il ristorante aveva appositamente preparato per gli ospiti; così come nessuno volle ritirarsi nel proprio scompartimento per la notte. Dormire non sarebbe stato possibile. Regnava infatti sgomento e preoccupazione anche solo per l’atmosfera cupa e tesa che si era venuta a creare. Persino le tre dame si erano azzittite del tutto.
Inaspettatamente, erano appena passate le due, il treno si rimise in movimento. Procedeva in modo cauto, quasi non volesse far rumore né dar conto al mondo della propria esistenza. La campagna era nera a ricordare il fondo di un pozzo e, ogni tanto, l’ombra furtiva di un albero che sfilava accanto al treno sembrava un fantasma che gridava loro di scappare.
Alle tre e un quarto, mentre il convoglio procedeva ancora a passo d’uomo, si sparse la voce che Abner era sparito. Non era più sul treno, questo era certo. Lo avevano cercato per ogni dove, senza alcun esito. Questo fatto, come se la misura fosse stata colma per tutti, scatenò il panico.

Continua la prossima domenica --> Un treno carico di stelle 
(seconda e ultima puntata)

La Sala degli Stucchi

«Sono il Comandante Nikolay Sapronov, Sua Altezza mi attende…» enunciò l’Ufficiale in modo stentoreo alle due guardie che, senza incontrare i suoi occhi, alzarono le due lance incrociate a bloccare la Sala degli Stucchi. Il suo sguardo era fiero, come di chi non vede l’ora di mettersi in gioco per il proprio popolo, una cicatrice sulla fronte come un accento per gli occhi penetranti.
Proprio il quel mentre la porta istoriata si dischiuse e ne uscì un uomo con gli occhiali, sulla sessantina, moderatamente abbronzato, vestito elegante e con modi garbati e sicuri di sé. Il Sovrano gli stringeva la mano in modo caloroso.
«Buongiorno Comandante…» disse il Re accorgendosi dell’Ufficiale. «Stavo proprio parlando di lei al Ministro plenipotenziario Josef Kohlheim e di come avete vinto nei giorni scorsi una battaglia importantissima…»
Il Comandante, vedendo un Ministro della Nazione con cui lo Stato era in guerra, si irrigidì. Nell’imbarazzo si limitò a rivolgersi con un inchino al solo Sovrano sussurrando: «Sire…»
«Ho sentito davvero parlare molto bene di Lei» si intromise invece Kohlheim non badando al gesto villano dell’Ufficiale e allungandogli una mano per farsela stringere. «Lei è sicuro di non avere sangue tedesco nelle vene…?»
Sapronov, non potendo più ignorare l’ospite, si voltò verso di lui e guardò incerto la sua mano tesa. Poi, vinta ogni titubanza, si convinse a stringergliela senza togliersi però il guanto.
«Che io sappia, no, lo escluderei… Signor Ministro» precisò accigliato.
«Lo scusi» disse il Re a Kohlheim. «Il Comandante a volte è così troppo serio da non riuscire ad apprezzare una buona battuta di spirito.»
E i due proseguirono a passeggiare nella vasta anticamera lasciandosi dietro Sapronov che non sapeva che fare. Nel dubbio rimase immobile, sull’attenti. Il Re e il Ministro parlarono ancora fitto fitto tra loro, allontanandosi ulteriormente; poi Kohlheim si accomiatò.
«Venga, venga… Comandante» disse il Re tornando indietro a larghe falcate e passando pressoché sui piedi sull’Ufficiale. «Ho saputo che nella battaglia ha anche riportato una ferita…»
«Una cosa da nulla» fece il Comandante schermendosi ed entrando nella Sala degli Stucchi sulla scia del Sovrano. Zoppicava, ma si vedeva che cercava di dissimularlo.
Il Re, prima di mettersi dietro alla scrivania, fece il gesto all’Ufficiale di accomodarsi; lui rimase però in piedi avendo visto che il suo interlocutore non si era ancora seduto a sua volta.
«Vi siete davvero fatti onore in battaglia…» osservò il Re squadrandolo da capo a piedi. «Riceverà una medaglia e una promozione per queste gesta… una difesa epica, un esempio fulgido per tutta la Nazione». Il Sovrano sospirò eccitato e finalmente si sedette. «Mi racconti.»
«È presto detto, Vostra Altezza: il Nemico era soverchiante. Nonostante questo, la mia divisione, che pur era stata decimata dagli attacchi nelle settimane precedenti, ha tenuto la posizione apicale sulla Rocca e la linea non ha ceduto. Stavamo per soccombere quando ha iniziato a piovere intensamente. I loro cannoni e la loro cavalleria sono rimasti impantanati nel fango. Abbiamo resistito fino all’ultimo uomo, come da Suoi precisi ordini, e abbiamo avuto inaspettatamente il sopravvento.»
«Non è stata solo un colpo di fortuna, Comandante, lo so bene. Non sia modesto. Piuttosto, la sua è stata una strategia da manuale… il suo piano di battaglia verrà un giorno studiato nelle Scuole militari di tutto il globo… È stato un capolavoro.»
«Dovere, Sire…»
«È grazie al valore suo e a quello dei suoi fidati uomini che il nome del nostro Paese brilla nel Firmamento ed è da tutti rispettato…»
«Grazie, Sire… Dovere, Sire…»
«Va bene…» disse quindi il Sovrano alzandosi.
Il Comandante fece un’espressione stupita. Era appena arrivato e il colloquio era già concluso.
«Le saranno assegnate ovviamente nuove divisioni e nuovi superiori incarichi…» fece il Sovrano avvicinandosi alla porta. L’Ufficiale, deluso, lo seguì.
«Sa, Sire…» volle dire ancora Sapronov visto che stava per andarsene «…la Regione che abbiamo difeso con così tanti morti e con così tanta abnegazione ha visto i miei natali. A pochi chilometri dalla Rocca, dove si è svolta l’ultima battaglia, vivono ancora i miei genitori e i miei migliori amici. Era un punto di orgoglio sconfiggere i tedeschi invasori.»
«Invasori?» domandò il Sovrano in modo retorico mentre il Comandante varcava la soglia della Sala. «Non sono più invasori. La guerra è finita. Ho appena firmato un armistizio con i tedeschi. Ora sono nostri alleati in un disegno molto più ampio a baluardo di ben altri nemici. E, grazie a Lei, a suggello della nostra nuova Intesa, ho potuto cedere agli Alleati proprio tutta la Regione che così brillantemente ha difeso.»
Il Comandante rimase immobile davanti a lui. Era pallido e inebetito.
«Grazie ancora» disse il Sovrano e chiuse la porta.

Ostia di fango

La battaglia era stata furibonda. Quando il nemico aveva rotto lo schieramento al centro le due ali di fanteria non erano state capaci a contenere lo slancio. Tutti i più valorosi soldati, tanti dei suoi amici, erano stati passati a fil di spada. Doughall era rimasto schiacciato dalle zampe di un cavallo, Irving non aveva visto la scure abbattersi sulla sua nuca, Ewan ed Anderson erano stati trafitti da una picca. Erano bastate poche ore per essere sopraffatti e adesso era quasi il tramonto e se ne erano andati via tutti. Vincitori e vinti.
Sul campo erano rimasti solo i morti. I morti e gli intrasportabili; quelli che non valeva neppure la pena di curare o di portar via. E poi, a dirla tutta, gli scampati erano fuggiti a rotta di collo per salvare la propria, di vita.
Ma, lui non si sentiva moribondo. Tutt’altro. Era ancora in forze ed era sicuro che se avesse voluto si sarebbe potuto anche alzare per andarsene con le proprie gambe. Se non fosse stato per quel dolore opprimente che aveva preso ostaggio del suo corpo.
E poi lui non voleva vedersele, le sue gambe. Non aveva il coraggio. E così si limitava solo a osservare la luna che era appena sorta. Una bella luna chiara e piena di luce che pareva volesse parlargli e infondergli fiducia.
Non si ricordava neppure cosa fosse successo. Tutto si era consumato in un attimo. Era in piedi che faceva roteare la spada e un secondo dopo era caduto a faccia in su. Qualcosa di pesante gli aveva bucato le spalle rompendo cotta e scapolare; le gambe gli avevano ceduto subito sentendo d’un tratto tutto il peso dell’armatura. Non era riuscito neppure a vedere in faccia chi lo aveva abbattuto così facilmente.
Forse tornano’ disse tra sé e sé pensando ai suoi commilitoni, seduti in cerchio meditabondi attorno a un fuoco di campo. ‘Non possono lasciarmi qui, non devo poi star così tanto male… Ma sì, riprenderanno fiato e poi, alle prime luci dell’alba, torneranno per portarci via.
Intanto i gemiti dei feriti si confondevano con i lamenti degli animali straziati; quando si accorse che uno dei pianti sommessi era il suo provò ad acquietarsi un poco, non era dignitoso dopotutto. Un fumo denso e acre saliva lento dai carri che ancora bruciavano ribaltati; prendeva alla gola e faceva lacrimare gli occhi.
Chissà Edna che starà facendo?’ mormorò sorprendendosi della sua stessa voce roca. ‘Forse a quest’ora cucinerà… o forse starà rassettando casa mentre guarda dalla finestra le ombre che si allungano sulla brughiera; starà aspettando notizie dell’esito della battaglia; si scosterà nervosa i capelli biondi interrogando inquieta le mille premonizioni nefaste del proprio cuore’,
Poi, dei rumori nuovi, tra la moltitudine di persone riverse tra le zolle.
Forse davvero sono di nuovo qui…
Ma voltandosi d’un lato si accorse che era solo un branco di cani randagi sbucati dal bosco come ladri. Erano stati richiamati dall’odore del sangue e stavano cercando di acquetare la loro perenne fame addentando i corpi inanimati. Il suo futuro.
Poco distante da lui, un ragazzo con la divisa del nemico giaceva con gli occhi aperti e lo stava fissando. Se solo avesse potuto avrebbe allungato la mano per chiuderglieli e dargli pace. Quella divisa! L’aveva tanto odiata fino a qualche ora prima e adesso aveva perso qualunque significato.
Io e te ora siamo finalmente uguali’ gli disse dopo un po’ come se potesse sentirlo ‘l’unica differenza è che tu non soffri più’.
Poi all’improvviso la vista gli si annebbiò. Le forze lo stavano abbandonando.
Ricordò l’antica usanza di comunicarsi in limine vitae sul campo di battaglia, quando anche il cappellano era fuggito o rimasto ucciso.
Una zolla di terra come fosse un’ostia.
Girò il volto premendo la bocca verso la terra grigia. Ne bastava solo un po’, dicevano, era l’intenzione quello che contava. Fece diversi tentativi. Ogni gesto stava diventando sempre più penoso. Ma poi ci riuscì.
Non aveva neppure un cattivo sapore.
E iniziò a recitare l’ultima preghiera.

La postierla

«Non far passare nessuno da questa postierla, è chiaro soldato?»
«Sì, Signore!»
«È molto improbabile che la conoscano, ma tu proteggila ugualmente a costo della tua vita, è chiaro soldato?»
«Sì, Signore!»
«Se vedi arrivare qualcuno dall’erta, suona la tromba e noi accorreremo, mi sono spiegato soldato?»
«Sì, Signore!»
Samuele si stava chiedendo perché mai l’Ufficiale Sconciabudelle gli gridasse nell’orecchio in quel modo; l’avrebbe sentito benissimo anche se fosse rimasto in caserma. Assentì comunque con forza, caso mai ce ne fosse ancora bisogno.
In cielo si era intanto affacciata dalla collina una grassa luna piena cosicché, quando l’Ufficiale se ne andò via pomposamente, la campagna gli apparve ancor più desolata.
E ora eccolo lì, in cima a una salita che neppure i muli avrebbero scalato, a ridosso di un’apertura nelle mura sconosciuta al mondo intero e da dove un soldato sarebbe potuto entrare a mala pena solo di fianco, tanto era stretta. Una porticina massiccia, oltretutto, di cui non era in possesso neppure della chiave.
Se vedi arrivare qualcuno dall’erta, suona la tromba…’ faceva presto a dirlo lo Sconciabudelle! Non aveva mai preso in mano una tromba, lui. Non la sapeva suonare. Né qualcuno glielo aveva mai chiesto se l’avesse saputo fare. Certo, lui avrebbe potuto anche avvertire, ma lo avrebbero solo punito. Ne era sicuro. E poi gli Ufficiali non dovrebbero già sapere tutto?
Sospirò. Sarebbe passato anche quel turno. Anche se non aveva fatto in tempo a mangiare e la divisa era ancora quella ruvida invernale e avrebbe avuto senz’altro caldo.
Sconciabudelle!’ Aveva sentito che l’Ufficiale il suo soprannome se l’era guadagnato una volta che per rabbia aveva dato un pugno in pancia a un soldato che era finito per terra con tutte le budella sparpagliate nella polvere…

Con il passare delle ore si rilassò un poco.
Prese a seguire le evoluzioni di un falco che aveva scelto quel poggio come terreno di caccia. La ricerca del rapace era coscienziosa, a cerchi concentrici; prima sulla sua testa, poi un poco più a est, poi ancora più a sud e quindi ricominciava. Verso mezzogiorno era sparito. Gli augurò di aver trovato quello che cercava.
Poi si mise a pensare che, a quell’ora, poteva essere con Niccolò, al fiume, a pescar trote. A lui piaceva pescare le trote. Avevano da poco trovato un nuovo posticino ed erano grosse e saporite. Certo, se ora con lui ci fosse stato proprio un amico come Niccolò, il tempo sarebbe passato in un baleno, tra battute e risate. E poi non sentiva più la spalla. Il fucile che aveva in dotazione era pesante e troppo lungo per la sua statura. Quasi toccava terra con il calcio. Se solo avesse potuto appoggiarlo per cinque minuti! Sfortunato com’era, però, lo Sconciabudelle l’avrebbe sicuramente saputo e l’avrebbe orribilmente punito come sapeva fare lui.

Poi si accorse che il turno era cessato senza che si vedesse nessuno per il cambio. Non ci voleva pensare che si fossero dimenticati di lui. Ingannò il tempo mangiando qualcosa della sua razione. Gallette, gallette, gallette, con quella cosa grigia da spalmare sopra che nessuno aveva mai scoperto cosa fosse.
Cominciava ad essere davvero stanco, sfinito dal caldo e dalla fame. Da est stavano salendo le ombre della sera. Come avrebbe potuto andare via di lì se nessuno gli dava il cambio? Non era neppure pensabile.
E ora doveva fare anche pipì. Aveva urgente bisogno di fare pipì.
Cominciò a ballare sul posto. No, non avrebbe resistito. Forse dopo tutto, ci avrebbe messo qualche secondo; cosa sarebbe stato mai? Non c’era nessuno a vista d’occhio. Lo sapevano tutti che non sarebbe passato mai nessuno di lì. Stava solo facendo la guardia ai sassi e ai cipressi selvatici. E poi sarebbero bastati pochi attimi e si sarebbe liberato! No, non poteva farsela addosso.
E, quando ancora si stava imponendo che non poteva lasciare la posizione di guardia, il suo corpo agì in modo autonomo. Si girò verso la postierla e fece acqua. Aveva ragione. A sedici anni si riesce a far pipì anche in pochi secondi. Ma quando si girò c’era almeno una ventina di soldati nemici che stavano puntando il fucile verso di lui. Non li aveva sentiti arrivare ed era un mistero come avessero fatto a venir su da una salita simile senza farsi vedere o sentire e in così poco tempo. Aveva ancora la faccia stupefatta quando i soldati spararono all’unisono contro di lui come fosse stata una fucilazione, facendolo sbalzare all’indietro contro la postierla che si imbrattò di sangue.
In un attimo, il suo corpo fu gettato giù dalla discesa dai militari e la postierla abbattuta.
E l’esercito di liberazione dilagò in città.