La Via degli Inferi

La scossa di terremoto, per la zona, fu inusualmente molto forte.
Dopo qualche settimana, un gruppo di gitanti scoprì, lungo il sentiero sud che costeggia il Lago di Calatorrione, una vasta galleria che si addentrava nella roccia. La sottile paratia di arenaria che bloccava l’apertura si era sbriciolata mostrando per la prima volta quel varco.
I vacanzieri si erano inoltrati curiosi guidati dalla luce del sole, fino a quando era stato possibile, e poi dalla luce dei loro telefonini quando il buio si era fatto impenetrabile. E fu quello il momento in cui capirono che qualcosa di strano si stava mostrando ai loro occhi. Avevano incontrato delle strane persone. Uomini, donne, ma anche bambini che in un primo momento li avevano guardati immobili, emaciati, allibiti nel vederli per poi scivolare verso le profondità della montagna inoltrandosi in altri cunicoli e altri corridoi che si ramificavano infiniti davanti a loro.
Quando i gitanti erano tornati a casa, raccontando l’accaduto, non erano stati creduti anche perché le foto, scattate con il cellulare, erano completamente scure. Riferirono anche del senso di profonda angoscia che avevano provato a visitare quei luoghi dichiarando che non avrebbero mai più riprovato a fare un’esperienza simile.
Fu così che, ben presto, si sparse la voce che era stata scoperta quella che fu ribattezzata dai media come la “Via degli Inferi”, quella che gli antichi nei loro testi avevano celebrato come l’entrata al Regno dei Morti, collocandola peraltro proprio in quell’area anche se a poco meno di un centinaio di chilometri di distanza da lì.
Si introdussero dopo qualche giorno, per la stessa apertura, altri curiosi, i quali riferirono al loro ritorno che, a protezione delle persone apparentemente inermi e spaurite che si potevano incontrare, erano accorsi altri soggetti dall’aspetto spaventoso che avevano urlato ai visitatori brevi frasi in una lingua del tutto sconosciuta. Ma poiché, dopo un primo momento di sgomento, gli stessi visitatori non si erano dati per vinti, avevano potuto avvedersi che chi aveva urlato loro contro stava raccogliendo tutta quella gente dall’aspetto smunto, come un gruppo ben addestrato di cani pastore, giusto per accompagnarla più in basso, in ulteriori cunicoli più profondi, protetti da un’oscurità totale.
Anche questi curiosi, quando tornarono presso le proprie abitazioni, non furono creduti. Le riprese da loro effettuate, pur questa volta con apparecchi professionali, non avevano di nuovo documentato nulla.
Fu organizzata nel giro di pochi mesi, una spedizione scientifica. Parteciparono una manciata di scienziati ma con attrezzatura molto sofisticata, persino con bombole di ossigeno e tute speciali termiche, visto che era stato detto che la temperatura là sotto, man mano che si scendeva, aumentava notevolmente.
Diversamente dalle prime esperienze riferite, alla spedizione ci vollero diversi giorni prima di incontrare qualcuno, così come fu poi relazionato. Chiunque abitava quei posti si stava spostando al centro e in basso della montagna.
Dopo circa una settimana, il gruppo era finalmente giunto a un’ampia sala scavata interamente nella pietra viva; da una specie di pozzo che si apriva sul pavimento furono intraviste delle luci che, se investite a loro volta dai fasci luminosi delle potenti torce degli scienziati, sparivano. Gli scienziati si accontentarono allora di rimanere al buio limitandosi a rivolgere la voce verso quelle fonti luminose accorgendosi però, solo dopo un po’, che si trattavano in realtà di sguardi umani. Qualcuno nel buio di quei luoghi li scrutava in preda a viva inquietudine. Nonostante i numerosi tentativi non fu possibile però per gli scienziati instaurare alcun tipo di comunicazione, udendosi infatti dal profondo della terra solo mormorii, fruscii e suoni indistinti.
Nel viaggio di ritorno, dei cinque scienziati, tre si ammalarono gravemente di una affezione misteriosa, uno addirittura impazzì. Il quinto, il prof. Arthur J. Sørensen, della Regia Accademia danese, l’unico apparentemente in piena salute, iniziò un ciclo di conferenze per divulgare quanto avevo visto e i risultati che aveva raccolto. Secondo lui, il varco denominato “B-U403K”, costituiva una scoperta di eccezionale valore scientifico e andava approfondita. Era necessario quindi finanziare una seconda spedizione oltre che interdire l’accesso al varco a tutte le persone improvvisate che, alla ricerca di sensazioni forti, continuavano a entrarvi a rischio della vita.
Nonostante l’opposizione del Vaticano, le prese di posizione degli immancabili negazionisti e le critiche irridenti di chi sosteneva che si trattava solo di una astuta manovra pubblicitaria per la imminente edificazione, nei pressi del Lago, di un lussuoso resort che sarebbe stato denominato “El Diablo”, il prof. Sørensen ottenne gli sponsor sufficienti.
Quando oramai tutto era pronto, una scossa di terremoto ancora più forte della precedente fece crollare la galleria di accesso per chilometri.
Per qualche tempo si provò a scavare ma poi l’impresa fu abbandonata per gli eccessivi costi.
Trascorsero ancora alcuni anni fino a quando nessuno ne parlò più.

La gita in barca

Il remo si tuffava in modo ritmico nell’acqua trasparente senza fare alcun rumore. Il solco lasciato sulla superficie del lago era solo una increspatura delicata e morbida, una ruga sottile sul viso di una donna bellissima.
La voglia di andare su quel lago era diventata sempre più pressante negli ultimi mesi. Aveva urgente bisogno di ‘staccare’, di ritemprare le proprie forze, ma aveva sempre rimandato. Sino a quel giorno. Mettendo infatti i piedi per terra, quella mattina, anziché vestirsi per l’ufficio, aveva messo qualcosa di comodo ed era partito in gran fretta prima di poterci ripensare e trovare una scusa valida, tra le tante, per poter rinunciare. La giornata del resto prometteva un sole tiepido e un cielo cristallino e già alle 8 del mattino si capiva che la promessa sarebbe stata mantenuta.
Giunto all’imbarcadero, lo scafo, come se già sapesse per abitudine la giusta direzione, si posizionò con la prua verso il centro del lago, sicché bastarono poche spinte gentili per farlo scivolare lungo quel manto di argentea lucentezza.
Davanti a lui si stagliava imponente la catena montuosa ancora innevata; si sdoppiava magicamente nello specchio ingigantendo la profondità del paesaggio e lo spazio attorno a sé.
Uno stormo di canapiglie festose, con il loro buffo ventre bianco, rigò rapido il cielo alla sua sinistra senza curarsi di lui. Era del resto immerso nella natura, vestito del suo silenzio, come una foglia abbandonata dal ramo o una trota guizzante o uno dei miliardi di riflessi che si sprigionavano dalla superficie dell’acqua.
Dopo circa un’ora era oramai lontano dalla riva. Si fermò e socchiuse gli occhi. Provò a sentire i battiti del cuore. Gli parve persino che rallentassero. La sua vita frenetica era un evento remoto che apparteneva forse a qualcun altro o era di un altro tempo o di un’altra dimensione. Il suo respiro aveva trovato il modo per raccordarsi al vento che soffiava tenue quasi fosse il respiro impercettibile della terra.
Poi gli venne all’improvviso una gran fitta alla tempia.
Era un dolore lancinante che lo fece rabbrividire e scuotere di brividi. Da un punto profondo del suo cervello si era accesa una luce via via più intensa sino ad abbagliarlo completamente anche se continuava ad avere gli occhi chiusi. Rimase senza fiato mettendosi subito dopo ad ansimare come se qualcosa attorno a lui stesse risucchiando tutta l’aria del pianeta. Pochi attimi dopo, un’altra ondata di luce ancora più violenta, come un flash in piena notte, quasi lo tramortì obbligandolo a distendersi sul fondo della barca alla ricerca di un poco di sollievo. Se ne stette un po’ così, attonito, sentendosi un pezzo informe di carne.
Poi, attraverso quel bagliore che non accennava a diminuire, gli fu chiaro il significato della vita, della sofferenza e della morte; il perché del bene e del male; delle ragioni dell’infinito, dell’esistenza di Dio; capi il perché degli aneliti dell’anima e qual è il fine ultimo del nostro esistere. Tutto finalmente aveva una sua collocazione, un suo senso, una sua direzione. Ed era un risposta semplice, quasi banale. Aprì gli occhi in preda a una viva agitazione. Cercò il telefonino. Doveva dirlo a qualcuno. A Martha, per esempio, alla sua compagna. Doveva rivelarlo a lei così come era stato rivelato a lui anche se non sapeva bene perché mai proprio a lui e perché mai proprio in quel momento.
Ma la luce nei suoi occhi era ancora così forte che, dopo aver recuperato a tentoni il suo zaino, il cellulare gli sgusciò di mano facendolo finire nelle acque immense del lago. Lo sentì affondare come un sasso, mentre le sue mani erano protese nell’acqua nel vano tentativo di riprenderlo.
Non è possibile!’ disse ad alta voce ‘non può star accadendo, non ora…
Poi si tirò su a sedere nello stordimento di quella luce; inciampò nel banco di legno andando a picchiare la testa contro lo scalmo del remo. Svenne.

Che ci faccio oggi qui?’ si disse risvegliandosi dopo un buona mezz’ora. ‘A quest’ora dovrei essere al lavoro, non su questo lago… Devo avvertire che arrivo in ritardo. Ma dov’è il cellulare?

Ginger

I due anziani erano seduti sulla loro solita panchina vista lago. Un ampio cedro del Libano protendeva verso di loro i propri robusti rami gentili come a volerli proteggere. Accanto a ciascuno di loro una gabbietta dentro alla quale saltellava un usignolo cinguettante. Si ritrovavano sempre lì, nella tarda mattinata del sabato, per far prendere un po’ d’aria ai loro compagni piumati.
«Lo so che mi ripeto spesso, Fred, ma il tuo usignolo canta che è una meraviglia… fa gorgheggi che il mio non imparerebbe neppure se facesse mille corsi di canto… se ovviamente esistessero corsi di canto per usignoli…»
«Sì, hai proprio ragione, Stan…»
In quel mentre, un bambino su una carrozzina aveva fatto cadere a terra un guantino di lana; si spinse fin che poté per seguirlo con gli occhi, guardando anche la mamma senza dire però nulla. La donna, chiusa nella sua bolla di pensieri, non se ne era accorta, come i due amici del resto, che sembravano ipnotizzati dal luccichio del sole che aveva appena rilasciato della polvere d’oro sulla superficie dell’acqua.
«Ah… ho ragione, quindi…» gli disse l’altro un poco risentito «anche tu sei d’accordo sul fatto che il tuo usignolo canta molto meglio del mio…»
Fred si girò a osservarlo. Si capiva dal suo sguardo che erano molti i pensieri che gli stavano agitando la mente; ma poi decise di dar sfogo solo a uno di essi.
«No, dicevo, che hai ragione quando dici che ti ripeti spesso… Me lo fai notare quasi ogni volta che ci vediamo. ‘Ginger ha un piumaggio più bello del mio, canta meglio del mio, saltella come nessuno mai, ha l’occhio più vispo che si sia mai visto…’. Ginger mi è stata regalata da un mio vecchio commerciante di tè Gyokuro… viene dallo Kirishima nel sud del Giappone… È una usignola speciale.»
«Ginger? Tu ti chiami Fred e il tuo usignolo Ginger?» gli chiese Stan sbarrando gli occhi.
La domanda rimase sospesa nell’aria, come le due piccole nuvole che si stavano rincorrendo nel cielo in quel momento.
«Da quanto tempo ci conosciamo, Stan?» gli chiese sospirando.
«Praticamente da sempre…» rispose l’amico, contento di sapere la risposta.
«E da quanto tempo ho Ginger?»
«Da quando sei andato in pensione, pari a me… cioè quindici anni fa circa.»
«E ti accorgi solo ora che io mio chiamo Fred e la mia usignola Ginger? Perché Ginger è oltretutto una femmina, Stan, una F-E-M-M-I-N-A! Sennò si chiamerebbe Gingerino, il che sarebbe orribile.»
Stan aveva aperto la bocca giusto per ribattere, ma si era accorto di non avere a disposizione le parole giuste.
In quel momento arrivò Albert, il terzo amico. Era così alto che, nonostante fosse curvo di spalle, sovrastava gli altri due minacciosamente. Spingeva un’asta da fleboclisi davanti a sé solo che, anziché far penzolare un flacone di medicinale, c’era attaccata una gabbietta, anch’essa con dentro un usignolo. Albert abitava vicino al parco, diceva, e gli faceva fatica portarsi la gabbietta in mano; così aveva inventato quel sistema.
«Buongiorno, giovani…» esordì come se li avesse notati all’ultimo momento.
E poi, come d’abitudine, si mise goffamente sull’attenti aspettando che Fred gli dicesse di sedersi. Fred era stato il suo comandante in guerra, e quel legame, dopo tanti anni, per gioco o per rispetto, era rimasto tra loro irrisolto.
«Riposo, sergente, riposo…» gli disse Fred accondiscendente «siediti pure con noi.»
«Grazie» gli rispose lui tirandosi dietro rumorosamente l’asta della flebo. «Allora ne approfitto.»
E poi tutti e tre presero a guardare in silenzio il riverbero del sole sullo specchio immobile del lago. Le giornate si erano fatte più tiepide e i primi fiori stavano colorando i rami spogli dei mandorli.
«Chissà cosa pensano di noi…» fece a un certo punto Fred.
«Cosa pensano di noi, chi?» chiese Albert non smettendo di guardare il luccichio.
«I nostri usignoli. Cosa pensano del fatto che li teniamo in gabbia… che li portiamo un po’ fuori perché respirino l’aria fresca del mattino, perché capiscano che c’è tutto un mondo qui fuori, per poi impedir loro di godersi la libertà; e questo solo per l’egoismo di volerli sentir cantare.»
«Cosa pensano?» fece Stan stralunato. «Ma cos’hai oggi? Sei strano forte. Gli uccellini non pensano e poi senti come cantano!» e mise teatralmente il palmo della mano attorno all’orecchio.
«Che ne sai tu che è un canto di felicità?»
«Guarda che la tua, come del resto i nostri» osservò Albert fermando la gabbietta davanti a sé che si era messa a dondolare per la brezza «è nata in cattività e non saprà neppure cosa significhi volare….». E indicò Ginger con un mezzo sigaro spento che si mise tra le labbra.
«È arrivato il momento di scoprirlo» masticò Fred tra sé e sé; poi, d’un tratto, si alzò andando a posare repentinamente la sua gabbietta su un masso piatto di fronte. Aprì la porticina della voliera tornando subito dopo alla panchina proprio nel momento in cui i due amici esclamavano all’unisono un sonoro: ‘NOOOOOOO!!!’.
Ma poi i due rimasero immobili, come in una istantanea, con il braccio teso verso la piccola voliera come per ripararsi da chissà quale pericolo. Si ricomposero seri, lentamente, senza dire più nulla; tutto sommato erano curiosi di vedere cosa sarebbe successo.
Ginger si arruffò le ali, guardando prima lo sportellino aperto, poi i tre anziani davanti a sé e infine i due usignoli in gabbia. Ma non si mosse.
Albert aveva appena avuto il tempo di dire ‘VISTO?’ che Ginger saltò dalla mangiatoia fin davanti all’uscio della gabbietta. Quindi in un attimo spiccò il volo nell’aria tersa di quel sabato di marzo prendendo, senza il minimo ripensamento, la direzione del sole.
Ben presto fu solo un puntino.
Fred finalmente sorrise.

Dolly varden (seconda parte)

Dolly varden

prosegue da --> Dolly varden (prima parte)

«Bravissimo Ziro… hai preso proprio una gran bella trota» gli disse il padre mentre si avvicinava.
Il bambino era soddisfatto. Aveva fatto una cosa da grandi e suo padre era fiero di lui.
«Ma guarda che bella!» fece ancora Ken mentre staccava il pesce dall’amo rimirando la cattura. Il contatto con l’aria gelida che aleggiava sul lago aveva già avuto la meglio e ormai la trota non si muoveva più.
«Ho… ho visto anche un’altra cosa, papà…» fece Ziro poco convinto.
«Cosa, Ziro?»
«Ho visto spuntare dal buco il muso di una foca.»
Il padre lo guardò incredulo. «Non ci sono foche nel lago Minchumina, Ziro, né in nessun altro lago dell’Alaska. La foca vive in mare.»
«Ti giuro, l’ho vista.»
«Non è possibile, non vivrebbe nell’acqua dolce, l’avrai scambiata semmai per una lontra o qualcosa di simile, non poteva essere una foca.»
«Ti assicuro, era una foca, papà, e andava dietro al mio pesce…» insistette il bambino agitandosi «perché non mi credi?»
Quando il figlio si comportava il quel modo, Ken non sapeva cosa fare. Si sentiva impotente, inutile. ‘Se ci fosse sua madre saprebbe di certo come calmarlo‘ pensò lui rattristandosi. E tra i due cadde il silenzio.
L’uomo catturò altri pesci che si stavano ammucchiando accanto al foro. Cominciava a essere una buona scorta. Poi il padre si alzò in piedi.
«Riprendila tu la lenza, Ziro. Vado a cercare quel matto di Scotty. Sono più di due ore che si è allontanato e non vorrei avesse fatto qualche brutto incontro.»
Il bambino agguantò la lenza piazzandosi al posto del padre che, prima di inoltrarsi nella boscaglia con il fucile, si voltò a osservarlo: ora appariva tranquillo e sicuro di sé, ne era felice.
Trascorsero alcuni minuti ed ecco che il bambino avvertì un’altra vibrazione tra le dita. Era un giorno fortunato, pensò Ziro, e si mise a tirare. Sembrava la stessa scena che gli era accaduta prima. E non aveva fatto in tempo ad issare la trota appena presa sul bordo del buco che si affacciò ancora il muso acerbo del piccolo di foca che aveva già visto. Solo che questa volta non si reimmerse subito. Se ne stette in superficie aiutandosi con le pinne anteriori. Ziro lo squadrò: non sapeva come comportarsi in una evenienza simile. Però era tanto carino e buffo. Si tolse allora un guanto e lo accarezzò sul muso mentre il piccolo di foca, per nulla spaventato, se ne rimaneva in quella posizione, in precario equilibrio, a prendere le coccole.
«Sembri affamata…» le disse dopo qualche secondo. Poi Ziro non resistette più e le allungò il pesce appena preso: in pochi attimi la foca lo divorò. Il bambino sorrise accarezzando ancora la bestiola che ora emetteva versi gutturali socchiudendo gli occhi; e le diede in aggiunta anche la prima dolly varden che aveva pescato. Anche quella, in un attimo, sparì nella bocca del piccolo che, dopo aver sgranocchiato ancora per un poco, eseguì una piroetta e si tuffò.
Ziro stava ancora sorridendo per quanto era successo quando, in rapida successione, uscirono dal buco altre tre piccole foche, probabilmente i fratellini della prima. Agilmente si protesero oltre l’orlo del foro afferrando tutte le altre trote catturate dal padre senza lasciarne neppure una. Appena tutto fu finito Ziro, che non era stato in grado di opporsi, stante la rapidità con cui la scena si era svolta, si rese conto del pasticcio che aveva combinato. All’improvviso aveva realizzato che il padre non gli avrebbe mai creduto e si sarebbe arrabbiato moltissimo con lui; probabilmente non l’avrebbe più portato con sé a pesca. Cercò di pensare velocemente a delle scuse plausibili. Avrebbe potuto dire che il ghiaccio aveva ceduto in quel punto e che le trote erano cadute nel lago; ma no, avrebbe dovuto allargare il buco e non sapeva come fare. Avrebbe potuto raccontare che qualche predatore era passato di lì e se le era portate via; già, ma in questo caso avrebbe potuto difendersi con il pugnale che il padre gli aveva regalato e che aveva alla cintola. Ecco sì, forse aveva trovato: poteva dire che essere stata la dispettosa Strega delle Foreste: era arrivata all’improvviso, l’aveva preso in giro e, sotto la minaccia di un incantesimo, aveva rubato tutto… Anche se da un po’ aveva il sospetto che quella della strega era tutta una balla raccontatagli dai grandi per farlo star buono.
Se ne stava disperato a rimuginare sul da farsi quando sentì degli spari e la voce concitata del padre che stava tornando indietro correndo e urlando. Si alzò in piedi per guardare meglio. Poi scorse il padre:
«Presto Ziro, corri, lascia tutti lì… vieni via… un orso ha sbranato Scotty e ci sta inseguendo… ho finito le munizioni… corri, corri!»

Dolly varden (prima parte)

Il vento era finalmente calato ed era uscito un sole incerto. Insufficiente per far salire la temperatura già molto sotto lo zero.
Ken e il piccolo Ziro pensarono comunque che fosse un’ottima occasione per andare a pesca sul lago ghiacciato. Erano stanchi di mangiare la solita carne di alce e un po’ di pesce avrebbe contribuito a variare la dieta.
Partirono al mattino presto. Il sole era immobile sull’orizzonte e quando alla sera se ne sarebbero andati sarebbe stato ancora lì, nello stesso punto esatto, come in un fotogramma rotto. Ken trascinava l’avvitatore con cui avrebbe fatto il buco nello spesso strato di ghiaccio, mentre Ziro portava le lenze che seppur vecchie e sbiadite erano ancora tenaci e robuste. Scotty, l’indisciplinato vecchio malamute, li precedeva come sempre trotterellando sicuro di sé perché tanto sapeva dove si sarebbero diretti.
Una volta arrivati, ci volle quasi mezz’ora a Ken per praticare un foro che fosse sufficiente per far passare il pesce. I tentativi furono molteplici sia per lo spessore dello strato sia perché il buco si righiacciava facilmente. Intanto Ziro si era affrettato a costruire una sorta di riparo tutt’intorno con rami e foglie. Sarebbe stato più semplice ripararsi dalla brezza fredda che spirava a tratti sul lago e resistere così fino a sera.
Trascorse un paio di ore. La natura sembrava rattrappita in quella morsa di freddo e una nebbiolina eterea si aggirava furtiva sulla cima dei cedri come un fantasma inquieto. Ma fu solo quando Ken cambiò esca, una sorta di impasto con pane di mais, radice essiccata di fireweed e chissà cos’altro, che cominciò a prendere un pesce dopo l’altro. Non erano grandi quelle dolly varden, per via della stagione, ma era meglio di niente. La giornata comunque prometteva bene. L’uomo aveva una grande esperienza per quel tipo di cattura; teneva ben salda la lenza tra le punta delle dita, inginocchiato sull’orlo del foro, e bastava anche solo un leggero tentennamento della lenza per capire se aveva abboccato.
Ziro dal suo canto non perdeva d’occhio il padre: stava attendo ad ogni suo minimo gesto. Sapeva bene che un giorno la sua sopravvivenza avrebbe potuto dipendere proprio da quegli stessi gesti. Scotty invece era già sparito, probabilmente era in giro a dar fastidio ai nidi di edredone.
«Vieni, prosegui tu» disse a un tratto il padre alzandosi in piedi e tendendo la lenza a Ziro.
Il figlio, prima sbarrò gli occhi, poi si mise le mani dietro la schiena scuotendo la testa.
«Dai, prendi questa lenza, devi imparare, io vado a fumarmi una sigaretta… non posso farlo qui vicino ai pesci avvertono l’odore di fumo…» mentì.
Ziro chiese, anche se solo con l’espressione del volto, se dovesse davvero farlo. Il padre gli sorrise e gli mise ancora più vicino la lenza a toccargli il piumino consunto. Il bambino la afferrò e si inginocchiò vicino al foro, così come aveva visto fare tante altre volte.
«Bravo, così…» lo incoraggiò Ken spostandosi di diversi metri e sedendosi con la schiena a ridosso del tronco di un cedro giallo. Era fiero di lui, sarebbe presto diventato un uomo. Vide che era concentratissimo tanto che non appena sentì vibrare tra le mani la lenza reagì subito serrando forte. Il bambino sentì la trota all’amo che stava cercando di andare verso il profondo dello specchio acqua, ma non si fece prendere alla sprovvista: piantò i piedi e oppose resistenza.
«Papà, papà, ha abboccato, aiutami presto!»
«No, Ziro è tutto tuo, ha abboccato alla tua lenza e tu devi tirarlo a riva…»
«Ma no, papà… ti prego… non so come si fa…» supplicava lui tenendo la lenza con tutte le sue forze.
Il padre capì che quello era il giorno in cui suo figlio si sarebbe dovuto far valere misurandosi con il suo primo pesce; così non si mosse dal suo posto e finì di gustarsi la sigaretta.
Ziro protestò ancora ma poi, visto che il padre non si muoveva, si mise ancor più di impegno; dopo venti minuti il muso di una ragguardevole dolly varden si affacciò boccheggiando dal foro. Con un ulteriore sforzo Ziro diede un ultimo strattone e la trota scivolò di lato contro i rami del riparo. Quello fu anche l’attimo in cui il bambino vide spuntare dal foro anche il muso inconfondibile di una foca, di un cucciola di foca, per l’esattezza. I due si guardarono per un lungo interminabile momento in modo interrogativo. La foca, delusa di essersi vista scippare la preda, Ziro di vedere una foca in un lago. Pochi secondi dopo la foca si reimmerse sparendo nell’acqua gelida.

prosegue --> Dolly varden (seconda parte)