Quella mattina io e Browser stavamo attraversando piazzetta di Lughi insieme. Lui camminava poco dietro di me, come fa sempre. Il viso era imbronciato, la sua testa era probabilmente ai suoi computer lasciati soli nella sua casa-laboratorio, mentre i passetti erano corti e svelti nonostante lui sia mastodontico e possa fare passi da gigante; ne risulta che quell’andatura lo fa sembrare un grizzly in equilibrio precario sulle zampe posteriori.
«Vuoi un quotidiano?» gli chiesi fermandomi all’edicola in centro della piazzetta. Lui tirò su con il naso, poi mi disse che sarebbe andato a prendersi uno di quei giornali che vendono gratis al mattino vicino al ‘Bar del Cinghiale’. Lo vidi infatti, subito dopo, caracollare arcigno verso il locale dove Oreste stava facendo le pulizia, sbilanciando le spalle prima da una parte e poi dall’altra; si avvicinò deciso ad un ragazzo basso, riccioluto, dalla carnagione olivastra e senza troppi complimenti si prese il giornale. Lo piegò in due e, nel ritornare da me, se lo incastrò sotto l’ascella. Senza dire nient’altro proseguimmo. Io andavo al lavoro e lui, da quello che ero riuscito a capire, da ‘Gi per riparargli un modem. Facemmo ancora qualche passo insieme poi lui disincastrò il giornale e lo aprì.
«Ma porc…»
«Cosa c’è, Browser?»
La testata del quotidiano diceva ‘Fuori Binario, la voce dei senzatetto’.
«Ma questo non è il solito giornale!» fece lui guardandomi severo.
«Eh no…» feci io ridendo. «È che ti sei avvicinato al ragazzo con quella faccia trucida come se volessi picchiarlo; lui, che probabilmente è un extracomunitario forse pure clandestino, ti ha visto grosso come un vagone e si è lasciato prendere il giornale.»
Browser era confuso. Si voltò persino indietro per vedere se riusciva a scorgerlo.
«Bene, amico mio, io vado… prima che arrestino anche me.»
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Suonerie
Mi trovavo in un angolo della piazzetta di Lughi a parlare con ‘Gi, quando si sentirono, in rapida successione, tre sonori e potenti rutti.
«Hai mangiato pesante?» gli chiesi meravigliato.
«Macché» fece lui grattandosi la testa. «È che qualche buontempone mi ha trasmesso un virus via cellulare. Ha sostituito la suoneria con quella che hai appena sentito.»
«Un bel problema!»
«Già. E anche se rimetto le cose a posto, ogni volta che riaccendo il telefonino, esce fuori nuovamente questo sgradevole suono.»
Poi ‘Gi, stufo di sentir rutti, rispose al telefono.
«Forse ti converrebbe cambiar scheda» gli suggerii io quando riattaccò.
«Ci ho pensato anch’io. È che il mio cellulare è quello della ditta e mi mette male informare tutti i clienti.»
Qualche giorno più tardi lo rividi. Era tutto contento.
«Sono stato da Browser ed è riuscito ad eliminare il virus dal cellulare: è fenomenale quel ragazzo!»
«Sì, nel suo campo è bravissimo. Sono proprio contento.»
«Dai telefonami che ti faccio sentire» fece ‘Gi entusiasta come un bambino.
Per farlo contento composi il suo numero. E subito il suono polifonico di un’arpa irlandese si diffuse tutto attorno.
«Eh? Che ne pensi?»
«Beh… se ti piace il genere…» gli risposi io solo per farlo arrabbiare un po’. Ma lui subito tagliò corto:
«Adesso scusa, ma è arrivato l’avvocato che stavo aspettando, un mio cliente. Ci vediamo più tardi.»
Lo salutai per andarmi a prendere un caffè. Feci solo alcuni passi quando udii la più lunga e vibrante pernacchia che io avessi mai sentito. Era indiscutibilmente il cellulare di ‘Gi. Mi girai e vidi che il mio amico mentre stava stringendo la mano al cliente, ma stava anche con l’altra coprendosi il volto per la vergogna. Cercai di non incrociare il suo sguardo per non peggiorare la situazione e me ne andai.
C’è un uomo sul tetto
«Cosa sono questi rumori?»
«Oh niente» disse ‘Gi facendomi accomodare in cucina «c’è un uomo sul tetto.»
«Stai facendo dei lavori?»
«Macché, è proprio un uomo che vive sul tetto.»
Presi posto sulla sedia che il mio amico aveva scostato dal tavolo. Poi lui aprì il frigo e mi chiese con la sua solita cordiale ospitalità:
«Un goccio di pinot come aperitivo?»
«Perché no?»
Stetti ad osservarlo mentre versava quel liquido profumato. Considerai che era proprio speciale quel suo modo di fare che sapeva rendere importanti le cose più banali.
«Allora che ci fa un uomo sul tuo tetto, con questa pioggia, per giunta?»
«È una nuova mania che ci hanno attaccato quegli stralunati di Collefili. Si è sparsa la voce che avere un extracomunitario sul tetto porti fortuna. Gli indiani più dei senegalesi e i capoverdiani ancor più dei rumeni.»
«Ma stai scherzando vero?»
«Purtroppo no. Si costruiscono sul colmo rifugi di fortuna con frasche e lamiere; le addossano alla bell’e meglio ad un comignolo, giusto perché non vengano giù. Insomma, fanno un po’ come le cicogne e vivono in questo modo. C’è chi sostiene che, grazie al prezioso inquilino, ha vinto al superenalotto oppure è guarito da una qualche malattia. La gente ne va matta e fa a gara per averne uno per poi accudirlo passando sia da mangiare che da bere in cambio di un po’ di buona sorte.»
«E a te cosa ha portato di buono il tuo uomo sul tetto?»
«Niente. Mi ha solo rubato l’insalata e i pomodori nella serra. Ma questo è il meno. Ieri ha cominciato a picchiare come un forsennato sulle tegole. Mi ha urlato di abbassare il volume del televisore perché non riusciva a dormire.»
La multa
“Ieri, primo giorno di entrata in vigore del codice della strada, mi hanno subito fermato i vigili urbani…”
“Una bella iella ‘Gi.”
“Ne valeva la pena: era una vigilessa tutta rossa con una spruzzata di lettiggini sulle guance e due occhi color verde smeraldo da sogno…”
“Cosa avevi fatto?”
“Mi ero dimenticato la cintura… e pensa che voleva pure sequestrarmi la macchina perché non avevo esposto il contrassegno dell’assicurazione.”
“E tu?”
“Le ho chiesto come avrei potuto fare ad andarla a prendere quella sera, a casa sua, per andare a cenare fuori, se non avessi avuto la macchina…”
“E lei?”
“Sulle prime è rimasta sulle sue e poi ha cominciato a sorridere. Poi le ho detto che sarei andato a prendere il tagliando in ufficio e che se mi dava il suo numero di cellulare ci saremmo messi d’accordo sul luogo dove avremmo potuto vederci per mostrarglielo…”
“Sei tremendo…”
“Però lei, a quel punto mi ha riaccompagnato alla macchina e dopo avermi aperto la portiera, mi ci ha fatto accomodare dicendomi di andarmene fino a che ero ancora in tempo.”
“In tempo?”
“Sì, da quello che ho capito stava per arrivare il suo collega, un arrogante e scorbutico ometto che ha il record regionale di multe…”
“E poi che è successo?”
“Lei mi ha sorriso ancora… così le ho promesso che la prossima volta, se l’avessi vista, mi sarei fatto arrestare.”
Una sana dormita
Era stata una notte caldissima. Non ero riuscito pressoché a dormire. Per la prima volta il caldo era entrato prepotentemente in casa e si era impossessato delle stanze, delle lenzuola, del cuscino e dei fiori che se ne stavano allucinati e sbigottiti nel vaso ormai senz’acqua.
Andai in bagno, ciondolando. Ci ero arrivato spingendomi dallo stipite della camera da letto a quello della porta del bagno, come fossero delle liane. Mi sedetti sul bordo della vasca come per ricordarmi che mondo fosse quello e da che parte stesse ruotando. Facendo leva sul lavandino, mi guardai allo specchio notando, all’altezza della guancia destra, il segno lasciato di traverso dal lenzuolo. Rigirandomi nel letto, un lembo mi doveva essere rimasto sotto al viso imprimendo così il bordo zigrinato sulla pelle. Inutili i tentativi di levarlo. Sarebbe passato da sé, pensai.
Andai al lavoro e appena dopo pranzo incontrai ‘Gi.
“Sei proprio fortunato…”
“In che senso?”
“A poterti alzare così tardi la mattina: hai ancora il segno del lenzuolo sulla faccia!”
“Ma figurati ‘Gi, anzi, non ho chiuso occhio tutta la notte ed ho un sonno che mi accascerei sul marciapiede.”
Lo salutai, infastidito dal fatto che mi portassi ancora sul viso i segni della nottataccia. Decisi così di andare da Tito: volevo distrarmi leggendo le ultime novità su MacUser che, secondo i miei calcoli, doveva essere appena uscito. Tito appena mi vide, venne fuori dall’edicola e mi apostrofò:
“Eh.. ti va su bella a te! Hai dormito fino a cinque minuti fa vero?”
“No, Tito, non hai capito niente!” volevo anche aggiungere ‘come al tuo solito’ ma feci in modo che il mio malumore non mi condizionasse fino a tal punto.
“E’ da stamattina presto che cerco di far andar via questo segnaccio, Tito, ma non c’è niente da fare…”
“Seeeee, raccontalo a un altro.”
Per il nervoso presi il numero di MacUser che effettivamente era uscito e cominciai a leggerlo. Solo che anziché girare le pagine, le stavo accartocciando.
Nel pomeriggio mi imbattei in Tonio; ma anche in un compagno delle medie che non vedevo da una vita – e che potevo tranquillamente fare a meno di incontrare anche nella prossima, di vita – e in Paula, la segretaria peruviana di un amico commercialista. Tutti e tre non mancarono di prendermi in giro per quell’impronta zigrinata che aveva pensato bene di non lasciare il mio volto quasi fosse diventata una cicatrice. Ridendo, mi avevano dato nell’ordine: del poltrone, del dormiglione e del figlio di papà. Insomma quanto bastava per decidere di rientrare a casa non appena fosse stato possibile.
Appena varcai la soglia, tolsi subito dal letto il lenzuolo per lasciare solo la federa: non avrei voluto peggiorare, quella notte, la mia situazione di neo sfregiato. Poi mi sedetti sulla mia sedia a dondolo in legno di quercia regolando la vista su ‘infinito’. L’azzurro del cielo, come sempre, mi rasserenò. Avrei voluto anche dormire, ma ero sicuro che non ci sarei riuscito. Quindi preparai la cena. Per tirarmi su il morale buttai nell’acqua salata e bollente un po’ di tagliatelle fresche così gialle che sembravano allo zafferano. Mi feci un sughetto semplice, un pomodoro pelato San Marzano a pezzettoni in un soffrittino leggerissimo di scalogno e due foglie di basilico come guarnizione. Sopra, una spolverata di parmigiano reggiano con un’idea di pecorino romano e di fossa di Cartoceto.
Mangiai fuori, sulla terrazza, in compagnia dello stridio delle rondini. Mi sarebbe tornato anche il buon umore ce non fosse stato per il fatto che il mio segno da ‘ultimo dei Sioux’ fosse ancora, sconsideratamente, al suo posto. Non sapevo decidermi se fosse il caso o meno di preoccuparmi.
Dopo cena mi misi a leggere. Avevo comprato “La ragazza in blu” di Susan Vreeland e avevo proprio desiderio di iniziarlo. Il filo narrativo era avvincente e mi tenne incollato al testo per diverso tempo. Cercavo di non pensare più al segnaccio che però, ogni tanto, con la mano, andavo a ricercare sul viso, ritrovandolo immancabilmente.
Poi le palpebre cominciarono a farsi pesanti. Riposi il libro e mi preparai per la notte. Guardandomi ancora allo specchio, come per salutare la mia faccia, vidi però che il segno era andato via. Non ci volevo credere! Era sparito, dileguato, cancellato! Dopo ore di scoramento la mia faccia era pulita da ‘segni particolari’. Dovevo dirlo a qualcuno. Mi avevano martirizzato tutto il giorno e quello ora era il mio momento! Ma chi potevo scocciare a quell’ora così tarda? Non c’era probabilmente più nessuno che fosse sveglio alle due di notte.
‘Ma sì che ce n’era uno!’ mi dissi. Mi misi in macchina e andai a trovarlo. Suonai. Dalla telecamerina esterna puntata sul citofono mi vide tanto che sentii in quadrifonia, con sottofondo musicale:
“Ma sai che ora è?”
“Sono venuto a restituirti la tua visita notturna dell’altro giorno, Browser! Falla poco lunga!”
Mi fece entrare nel suo laboratorio monolocale comprensivo di bagno, salotto, cucina e camera da letto.
“Da quando c’è l’aria condizionata qui dentro?” gli chiesi sorpreso.
“Dall’ultima volta che sei stato qui” tagliò secco. Evidentemente tra noi c’era ancora della ruggine. Ma dopo un po’ la tensione si sciolse e divenne il Browser di sempre, al diavolo la fidanzata australiana e le sue fissazioni estetiche! Parlammo di un po’ di tutto… senza ovviamente che lui mai smettesse per un secondo di digitare, faxare, inviare file e chattare. Ma in fin dei conti si stava bene in sua compagnia, tanto che mi ero dimenticato il motivo per cui ero andato lì.
E sarà stato per il fresco del condizionatore, sarà stato per quel ronzio che aleggiava soave per la monostanza (che mi ricordava tanto quei coltellini svizzeri multiuso), ma sarà stato ancor più per la comodità della poltroncina in cui ero sprofondato che mi addormentai abbracciato ad un cuscino.
Passarono non so quante ore poi Browser mi svegliò.
“Guarda che sono le quattro e mezzo: io vado a dormire…”
“Sì, allora buona notte” gli feci io.
“No, non hai capito, sei seduto sul mio letto.”
“Ah scusa, Browser, me ne vado subito.”
Stavo infilando la porta, rintontonito, quando mi chiamò.
“Devi esserti addormentato malamente sul cuscino della poltrona. Perché hai tutti i segni dei bottoni su una guancia!”