Nanuk

glob-ursLe orme non mentivano. Il nanuk era particolarmente grosso, un maschio probabilmente, a giudicare dall’odore dell’urina che aveva trovato insieme ai resti di una strolaga mezzana.
Il vento stava rafforzando e Yup’ik sapeva che doveva far presto e tornare alla casa di neve il prima possibile: c’erano tutti i segnali per una bufera in arrivo da sud-est.
Nonostante la sua esperienza Yup’ik non riusciva però a capire come facesse quell’orso a sfuggirli. Ogni volta che pensava di essergli vicino, si accorgeva che le tracce lasciate erano meno recenti, come se la bestia avesse improvvisamente trovato il modo per allungare il passo. Non sembrava inoltre neppure procedere in linea retta, ma in tondo o a zig zag e a volte persino tornava indietro. Strano comportamento, davvero, per un nanuk. Il suo spirito guida doveva essere molto forte.
Cercò di fermarsi il meno possibile, senza riposarsi neppure per mangiare; badando solo di tener sempre a portata di mano il suo fucile: era contento di essersi fatto convincere a comprarlo usato giù all’emporio di Talquikk. Con un’arma simile era quasi sempre garantita una tranquillizzante distanza di sicurezza; quasi sempre, certo, perché un nanuk di quell’età era persino capace di aspettarti per ore dietro il primo sperone di ghiaccio per poi attaccarti all’improvviso alle spalle se aveva deciso che costituivi per lui una minaccia. Era un combattente fiero e astuto e non andava mai sottovalutato neppure dopo giorni e giorni di inseguimento.
Ma il tempo passava e l’orso sembrava aver guadagnato terreno; Yup’ik cominciava a essere stanco. Si accorse di pensare sempre più spesso alla sua piccola Uki. ‘Non uccidere mamma orsa o papà orso’ gli aveva detto vedendolo partire quel mattino. ‘Hanno dei piccoli cui badare…’ Lui aveva cercato di non badarle più di tanto, ma la bambina si era messa a piangere quando aveva visto il padre mettersi a tracolla il fucile; lui aveva cercato di spiegarle che avevano bisogno di una grossa scorta di carne per passare l’inverno ma lei, asciugandosi una lacrima sulla guancia, gli aveva raccomandato: ‘Invece di sparare all’orso, parlagli: magari lo convinci a venire all’accampamento…’. Yup’ik era stato lì lì per sorriderle quando l’espressione serissima apparsa sul volto della figlia lo aveva dissuaso. Si era chiesto se si fosse mai sentito dire in giro che la figlia di un inuit potesse essere animalista.
Sorrise a quel ricordo, incerto ora se tornare indietro alla casa di neve a mani vuote; poi, dopo pochi minuti, il cielo latteo si rabbuiò all’improvviso e la tempesta lo prese in pieno. Stava diventando davvero troppo vecchio per quella vita, considerò, se non si era accorto di quel cambiamento brusco. Forse allora avrebbe dovuto davvero accettare gli incentivi economici del Comitato e spostarsi con tutta la famiglia a Nanacavott. Troppi sacrifici, troppi pericoli. Anche se il ghiaccio era tutta la sua vita. Ci avrebbe pensato su però, si disse: questa volta seriamente. Nell’immediato, cercò di prepararsi un rifugio di fortuna, ma di lì a poco la bufera peggiorò e qualcosa sollevato dal vento impetuoso lo colpì violentemente al capo. Perse i sensi. Quando rinvenne per il fortissimo mal di testa era semisepolto dalla neve, ma sorprendentemente ancora vivo. Difficile dire quanto tempo fosse passato, né dove si trovasse di preciso. Era debole, confuso. Ma le sorprese non erano purtroppo finite. Dopo alcuni attimi di disorientamento avvertì con chiarezza una sensazione che non avrebbe mai voluto provare. Il cuore gli schizzò in gola. Si alzò svelto in piedi, osservando il ghiaccio tutto attorno a sé, trovando ben presto la tragica conferma. Le montagne verso sud si stavano impercettibilmente allontanando. Non c’erano dubbi: si trovava su un pack, alla deriva. La distanza dalla terraferma era probabilmente ancora poca, ma sufficiente forse, se si fosse buttato per nuotare, per morire assiderato in pochi secondi. Doveva verificare subito se ci fosse ancora un modo per scamparla. Si mise a correre anche se sapeva bene che a quella temperatura non era una buona idea. Poi, d’un tratto, da dietro un roccione di ghiaccio compresso, sbucò il nanuk. Non stava neppure più pensando a lui. Credeva che fosse oramai lontano, e invece era lì, poco distante, ancora più maestoso di quello che avrebbe potuto immaginare. L’aveva raggiunto, dopotutto. Alla vista di Yup’ik si era alzato sulle zampe posteriori per mostrare tutta la sua imponenza. Lanciò anche, all’indirizzo dell’uomo, un verso terrificante che lo pietrificò di terrore. Quel ruglio rimbalzò amplificato tra le pareti di ghiaccio blu lacerando il silenzio naturale di quei luoghi. Yup’ik mise subito mano al fucile e, senza neppure mirare, tanto il bersaglio innanzi a lui era grosso, sparò. Ma l’arma non esplose alcun proiettile. Espulse la cartuccia e tirò nuovamente il grilletto. Nulla. ‘Oh, mia piccola Uki’ si chiese ‘che cosa hai fatto?
L’orso si rimise giù, a quattro zampe, e si mosse lentamente verso di lui dondolando la testa enorme. Poi, quando l’uomo già poteva avvertire l’odore acre del suo alito caldo, il nanuk si fermò. Guardò in direzione sud percependo il lento movimento del pack e quindi, con gli occhi che gli parvero vuoti, squadrò ancora Yup’ik, paralizzato davanti a lui.
Quindi caracollò di lato, sparendo in fretta dalla sua vista.

La medicina di Zi’ Beppe

Era la prima volta che veniva sull’isola. Aveva faticato molto per farsi accettare ma alla fine ci era riuscito.
«Pensa che tre giorni prima della battuta al cinghiale gli ‘indiani’ vanno sul posto e vivono all’addiaccio per tracciare il percorso che fanno gli ungulati quando vanno e vengono per la pastura.»
«Indiani?»
«Sì, li chiamano così. Sono gli esperti. Persone un po’… rustiche per la verità, ma veramente in gamba, sanno davvero il fatto loro.»
Fabio ascoltava Valerio con attenzione mentre nel cuore della notte, su una jeep piena di spifferi, si stavano avvicinando al campo base. Alla domanda dove erano diretti, il Capocaccia, che guidava il convoglio, aveva bofonchiato che era ‘lì vicino’, anche se erano quasi tre ore che erano in viaggio.
«Vengono raramente da queste parti» rivelò a un certo punto Valerio mentre la macchina entrava sulla spianata. «Vogliono fare bella figura con te e ti hanno portato in una zona pregiata…»
Al campo base, prima di partire a piedi, il Capocaccia, un viso modellato dal vento e dal tempo, in una sorta di cerimonia improvvisata, gli si parò innanzi sfilando dalla sua cartuccera una munizione a pallettoni.
Ma è vietato cacciare con questa’ pensò Fabio mentre allungava la mano per prenderla. Ma subito il Capocaccia la lasciò cadere facendola finire nell’erba. Fabio si chinò a raccoglierla. Poi il Capocaccia ripeté gli stessi gesti con la seconda cartuccia. Anche quella finì a terra. Era il rituale: l’Anziano dispensava le munizioni e l’Ospite si inchinava in segno di rispetto.
«Stai attento» l’avvertì poi Valerio poco prima di lasciarlo alla posta. «Questo punto dove ti ha sistemato Zi’ Saverio è sicuramente uno di quelli dove passerà il cinghiale. Qui sull’isola, l’Ospite è davvero sacro, viene prima di tutti, e ha sempre il posto migliore. Quando vedrai l’animale (e lo vedrai), sparagli, mi raccomando, senza mancarlo. Se lo lasci scappare si offenderanno tutti.»
E con questa frase Valerio lasciò Fabio solo e preoccupato in un bosco silenzioso. La luce nascente aveva cominciato a regalare ombre e chiaroscuri al cisto e alle piante da sughero. Il profumo di mirto, reso intenso dalla rugiada della notte, aleggiava come un fantasma vestito di seta. Il freddo era intenso e Fabio non sentiva più i piedi. Per un paio di volte avvertì l’abbaiare dei cani filtrare a ondate dai boschi dell’altura e per altrettante volte li sentì allontanarsi fino a quando il silenzio non ebbe il sopravvento.
Verso mezzogiorno, comparve dal nulla, senza fare il minimo rumore, il Capocaccia che subito gli consegnò una piccola ghirba di pelle consunta dall’uso.
«È la medicina di Zi’ Beppe» chiarì l’Anziano senza tanti preamboli e soprattutto senza muovere alcun muscolo del viso; e immediatamente scomparve così come era venuto.
Fabio aveva fame, ma il freddo era stordente. Bevette un lungo sorso del contenuto della sacca e appena il liquido toccò lo stomaco sentì una vampata lunga di calore che gli attraversò il corpo. ‘Deve essere alcol puro’, pensò con una smorfia che per un attimo gli deformò le labbra.
Trascorse un’altra ora. La fame era oramai passata. Stava meditando di andarsene, stanco per la lunga attesa, quando gli giunse all’orecchio un tramestio proveniente dal sottobosco a un centinaio di metri di distanza. C’era qualcosa che stava arrivando al piccolo galoppo. Ne ebbe conferma per le decine di cinciallegre e codirossi che si levavano pigolando dai cespugli. Alzò il fucile in direzione del rumore mentre l’adrenalina gli inondava il sangue. All’improvviso, da dietro un gruppo di roverelle, uscì. Non era un cinghiale e neppure un daino o un cervo. Aveva un’andatura bizzarra, ondivaga, ma pesante, sul dorso una serie di escrescenze ossee lo facevano assomigliare a un animale preistorico se non fosse stato per le setole ispide e il muso oblungo come quello di un grosso cane; gli occhi erano freddi e inespressivi come quelli di un rettile. Non aveva mai visto nulla di simile. Il candore delle zanne e l’ansimare furioso lo facevano sembrare irreale. Si aggiustò il calcio del fucile sulla guancia accorgendosi però di non riuscire a sparare. Era come pietrificato. Qualunque cosa fosse davanti a lui, invece di spaventarsi alla sua vista, si mise a caricare accelerando il galoppo. Oramai era a dieci metri di distanza, forse meno.
Spara’ si ripeteva nella sua testa senza riuscire a farlo.
Spara, subito, ora’. Ma nulla.
La terra tremava sotto gli zoccoli imponenti della bestia come dovesse rimanerne inghiottita. Giunto a un metro da lui l’animale scartò sfiorandolo e proseguendo la sua corsa forsennata verso valle. Abbatté alcuni giovani alberi, lasciando con la coda strisciante un largo solco dietro di sé sul terreno. Fabio si voltò a guardarlo mentre si allontanava. Non riusciva a star fermo sulle gambe: gli tremavano. E quando la bestia fu distante, solo allora provò un dolore acuto come se un artiglio di acciaio gli avesse avvinghiato d’un tratto la nuca. Poi il dolore si spostò alla spalla. Si guardò il vestito. Era lordo del suo sangue. A terra c’era il fucile e intorno al calcio la sua mano staccata dal braccio con l’indice ancora serrato sul grilletto.

Non può essere così facile

mantideEra almeno un’ora che girava a vuoto. Anche il cane ogni tanto si fermava per guardarlo con aria interrogativa come se si chiedesse il perché l’avesse portato in quella zona senza selvaggina. Eppure lui, su quelle colline, c’era stato tante altre volte e non era mai tornato senza qualcosa nel carniere. Per fortuna era una splendida giornata e la luce che volgeva al tramonto stava prendendo toni di giallo che incendiavano il marrone del fogliame; il cielo era ancora terso e virava pensoso nel blu della sera.
Poi, all’improvviso, sentì la terra tremare. Non era il terremoto, lo capì subito, ma uno scuotimento lento, ritmico come di passi pesantissimi che si stessero avvicinando. Vide Tabù, il suo pointer, che scartò di lato per poi gettarsi guaendo dentro alla macchia. Lo chiamò più volte: ma si era fatto un profondo silenzio attorno a lui, come di attesa greve, a sottolineare che in quel frangente nessuno avrebbe potuto aiutarlo. Ebbe appena il tempo di girarsi e una sagoma confusa lo sovrastò. E fu tutto buio.
Quando rinvenne si trovava bocconi, per terra, in una stanza dal soffitto così alto che faceva fatica a scorgerlo. Si sentiva la testa pesante, il corpo rigido, rattrappito, come se il resto di sé non gli appartenesse. Non riusciva a capire cosa fosse successo, né dove si trovasse, né quanto tempo fosse passato.
Cercò di muoversi ma non ci riuscì. Realizzò a poco a poco di avere come un peso insostenibile sul petto che lo teneva bloccato al suolo. Si guardò in giro anche se la vista gli si era annebbiata e ci vedeva male: gli parve di non essere solo. Intorno a lui c’erano altre figure anch’esse sdraiate. Ecco sì…, distingueva ora un uomo sulla cinquantina e, più in là, due donne giovani: una bruna e formosa, l’altra dai capelli corti e fulvi, molto magra; c’era persino un bambino, sui dieci anni, vestito ancora con la tuta da palestra, e una coppia di persone molto anziane. Non si muovevano: gli occhi erano chiusi, parevano addormentati. Dopo un po’ che li stava fissando, realizzò che ciò che li teneva fermi era un chiodo che usciva loro dal busto.
Ma sì, certo‘, pensò. Era un enorme ago che li trafiggeva. Forse formavano tutti, lui compreso, la collezione bizzarra di un qualche squinternato; come se fossero stati semplici insetti da conservare e non esseri umani.
Avrebbe voluto gridare ma dalla bocca uscì solo un rantolo. Strattonò il proprio corpo per liberarsi di quello spillone che ora vedeva distintamente sopra di sé. No, doveva calmarsi: non sarebbe venuto a capo di nulla se si fosse agitato in quella maniera. Dopo tutto non sentiva dolore e non gli sembrava neppure di perdere sangue.
Dopo qualche ora si accese nella grande sala, in un punto indefinito del soffitto, una luce accecante. Non vide più niente. Sentii avvicinarsi qualcuno a larghi passi. Provò la stessa sensazione di pericolo di quando ero sulla collina a caccia. C’era qualcuno vicino a lui. Cercò di strizzare le palpebre per far passare quel tanto di luce che poteva bastare per vedere chi fosse. Gli parve di vedere un enorme occhio su di sé con una lente monoculare di ingrandimento che lo stava osservando. Poteva sentire addosso il fiato pastoso di quella persona che, con molta cura, stava controllando se lo spillone fosse ben conficcato sul fondo e che tutto fosse a posto. Trascorsero momenti interminabili in cui si finse morto. Poi lo sentì allontanarsi senza spegnere la luce. Non riusciva più ad aprire gli occhi: era un faro potente che gli spioveva addosso un fascio di luce calda ma abbagliante.
Poi, piano piano, quello stesso calore prese a ravvivargli i muscoli e i vestiti e lui iniziò a muovere di nuovo gli arti. Cercò di capire che tipo di movimento avrebbe potuto fare. E ben presto comprese che l’unico modo per liberarsi di quell’ago era di farselo scivolare attraverso il foro nel petto. Così decise di agire: chiunque lo tratteneva in quel luogo poteva tornare da un momento all’altro. Afferrò con tutte e due le mani il chiodo e si tirò su; fece diverse prove ma si sentiva molto debole e cominciava a sentire un dolore acuto che gli scuoteva il cervello; anche il sangue aveva preso a colare a terra.
Ci mise molto tempo perché ogni tanto, stremato, doveva fermarsi per riprendere fiato. Un paio di volte ripiombò sul pianale battendo violentemente la schiena. Temette che quel rumore potesse richiamare il suo ospite. E allora, subito, ricominciava a tirarsi su con la forza della disperazione. Al quinto tentativo, quando pensava che ormai non ce l’avrebbe più fatta, arrivò alla sommità dello spillone. Fu il momento più difficile perché la testa del chiodo era più larga del foro nel petto; sentì un dolore lancinante che lo fece vacillare; ma prima di svenire riuscì a divincolarsi. Quando si riprese si aggirò tra gli altri sventurati nella speranza di trovarne qualcuno ancora vivo. Erano centinaia e centinaia a riempire tutta la sala: per loro non c’era più nulla da fare.
Decise che era il momento di andarsene. Piegato in due per il dolore e perdendo sangue non era facile orientarsi in quella casa enorme. Superato però un angolo di quel locale, vide in fondo a un corridoio la luce del sole che faceva un’onda di pulviscolo da un portone lasciato aperto. Corse tenendosi una mano sul petto. Nell’ultimare il corridoio, per un attimo, si scorse in uno specchio. Si fermò a rimirarsi incredulo: il foro che lo attraversava da parte a parte era anche più grande di quello che aveva creduto. Cercò di tamponarlo come poté.
Poi il sole tiepido gli toccò delicatamente la spalla: sembrava chiamarlo.
Si avvicinò alla porta spalancata su una campagna ordinata e rigogliosa.
No, non può essere così facile’, pensò.
E scappò via.

La stagione di caccia

Il giorno prima non era andata granché bene. Aveva preso solo una pernice. Un bel tiro teso e lungo, ma un bottino piuttosto magro per una giornata intera. Da quando non aveva più con sé Boot, il suo bracco, cacciare era diventato più complicato e faticoso. Non era però certo colpa sua se aveva dovuto far perdere quel maledetto cane. Il costo della vita si era fatto pesante e, mantenere da una stagione all’altra, un animale così era diventato molto impegnativo. L’aveva lasciato fuori di un supermercato, un pomeriggio di sabato nell’ora di punta. Aveva assicurato il guinzaglio a una palina del parcheggio, accanto alla porta, ed era tornato indietro. Boot l’aveva seguito con lo sguardo immaginando che lui avesse dimenticato qualcosa in macchina. Ma poi l’aveva visto salirci sopra e sparire dalla sua vista. L’avrebbero liberato prima o poi, ne era sicuro. Del resto, accidenti, era proprio un bel cane.
Quella domenica di caccia pensò allora di esplorare una nuova zona, per aver miglior fortuna. Gli avevano detto che a nord il terreno diventava incolto e impervio e per questo meno battuto. Era stagione di passo e avrebbe potuto facilmente riempire il carniere di luì verdi e bianchi, grossi come tordi. Camminò un paio d’ore verso nord, superando un capannone in rovina e qualche rigagnolo. La cresta non era lontana. A destra si apriva un vasto ghiaione e a sinistra il bosco fitto: se avesse tirato per la pietraia avrebbe fatto sicuramente prima. Per camminare sui sassi si affidò a un robusto bastone che lo aiutò a inerpicarsi. Era una faticaccia ma già vedeva sulla sua testa gli stormi passare alti, diretti verso la collina sottostante. Sarebbe stata una battuta proficua che lo avrebbe ripagato abbondantemente. Accelerò il passo ma all’improvviso il margine del sentiero gli franò sotto il piede di appoggio. Cadde all’indietro rovinando per diversi metri verso valle. Nell’impatto gli sgusciò il fucile dalla spalla che cadendo a terra fece partire un colpo. Per fortuna la canna era rivolta lontano e non venne colpito: lo sparo tuttavia rimbombò nel cielo svuotandolo in un attimo. Rimase a terra, spaventato, cercando di fare mente locale se si fosse rotto qualcosa. Sembrava tutto a posto, se non fosse che adesso era senza fucile. Alzò la testa per ispezionarsi: i pantaloni erano sbucciati a livello delle ginocchia, la cartucciera era rotta e penzoloni da un lato e, quel che c’era di peggio, aveva perso uno scarpone. Stava imprecando quando con la coda dell’occhio vide un sasso venire giù veloce dal roccione. Ebbe solo l’istinto di alzare un braccio senza riuscire a evitare che lo colpisse tra la fronte e la tempia. Quando si risvegliò era notte. Almeno così gli sembrava. Tenendo a lungo gli occhi aperti si abituò all’oscurità. Era al coperto. Nella semi incoscienza gli era parso di venir trascinato via, ma non era riuscito a capire da chi. Rimase immobile, in attesa, anche perché si sentiva debole: la testa gli doleva terribilmente e a giudicare da come sentiva impiastricciati il collo e la camicia, doveva aver perso molto sangue. Sospirò. Poi qualcosa lì dentro si mosse. Si tirò su, strizzando gli occhi. Cercò di recuperare l’accendino che trovò dopo vari tentativi in una delle tante tasche. Fece scattare la scintilla. Con grande sorpresa vide davanti a sé Boot, il suo vecchio cane, e un altro ancora, Pascal, il suo rottweiler che aveva dovuto anche lui abbandonare dieci anni prima all’inizio di un periodo di ferie: c’era, più indietro, un altro cane che non aveva invece mai visto prima. Lui guardò i cani, i cani guardarono lui. Si sentì sollevato e sorrise allungando una mano per accarezzarli. Fu quello anche il momento in cui i tre animali scattarono all’unisono avventandosi su di lui.

 

A caccia di guai

Era partito malvolentieri, finanche un po’ curvo da una parte come se il fucile gli pesasse sulla spalla. Non si era disamorato della caccia, tutt’altro, erano piuttosto gli sfottò della moglie che gli risuonavano ancora umilianti nella testa: Ma cosa vai a fare a quest’ora come un imbecille con il cane appresso? Mi portassi almeno mezza gallina, con tutti i soldi che butti via… gli incapaci di solito se ne stanno a casa… Ma Rino non voleva mollare. Ogni volta si spostava volenteroso in un posto nuovo, magari più impervio, ma sempre con la pervicace determinazione di far carniere. Gli altri suoi amici portavano a casa anche poco, ma tuttavia sufficiente a salvare la faccia: un fagiano, un coniglio selvatico, una tortora, ma lui mai niente. Solo il suo bracco non si curava di quegli insuccessi: l’importante, in fondo, era fare un giro all’aria aperta. E così, anche quel giorno, alle prime ombre della sera, dopo una giornata faticosissima, dovette arrendersi senza aver esploso neppure una cartuccia. Sulla strada del rientro, più per abitudine che per voglia, si fermò da Gualtiero.
«Preso niente?» gli chiese l’amico andandogli incontro. Rino scosse la testa con lo sguardo basso. Era rimasto aggrappato al volante senza avere neppure la forza di scendere. «Ma non hai provato ai Bruciati come ti dissi?»
«Sì, ma devono essersi passati la voce. Non c’era nulla… ma proprio nulla, ti dico.» Lo sguardo dell’uomo si era fatto vuoto e assente, tanto che non si accorse neppure che Gualtiero era rientrato in casa tornando con in mano un sacchetto gonfio della coop. «Tieni!» Due orecchie a punta facevano capolino dalla busta.
«Non posso accettare…» gli fece Rino con un filo di voce, ma con gli occhi che già gli brillavano.
«Sì che puoi».
L’uomo si stava già pregustando l’agognata rivincita sulla moglie, preparandosi mentalmente le parole giuste da dirle; e per fare le cose per bene si fermò in un campo per tirare una fucilata alla lepre ragatagli dall’amico. Adesso sì che sembra vera. E la moglie stava per accoglierlo, nel vederlo, con il consueto acido sarcasmo, quando lui le piazzò sotto il naso l’animale: era imponente, maestoso. Lei rimase a bocca spalancata. Non profferì parola, limitandosi a portarlo meravigliata in cucina. Trascorsero alcuni minuti, forse i più belli della vita di Rino: si sentiva fiero, importante, persino virile.
«È stato difficile catturarla, caro?»
Caro? si chiese gongolando tra sé e sé. «Sì, tesoro (esagerò lui), era proprio lontana, di traverso, è sbucata come un lampo da dietro una zolla. Un tiro maledettamente complicato… questi selvatici sono imprevedibili».
«Ah si? E allora come mai la tua lepre selvatica ha impresso sulla coscia sinistra il timbro Centro ripopolamento Gualtiero Redi?»