Ogni 15 di marzo, si può assistere, presso il Palazzaccio della città, ad una delle più suggestive celebrazioni che si conoscano: la Gran Cerimonia di Apertura dell’Anno giudiziario.
In un tripudio di colori e di gente, Sua Veneranza Primo Reggitore dei Giudicanti del Tribunale di Lamarmora (vale a dire il capo responsabile dei Giudici del Tribunale) dall’ultimo piano dell’edificio (il ventiduesimo) scende, in grande pompa ed in processione, ai piani inferiori, onde incrociare, sempre in corteo, Sua Veneranza il Primo Reggitore dei Requirenti (capo dei Pubblici Ministeri) che sale, al contrario, dal pianterreno.
La Tradizione vuole che il solenne abboccamento tra i Due Notabili (le massime autorità giudiziarie dell’intera regione delle Due Valli Amene) avvenga al quinto piano ed esattamente nell’ufficio ora in via provvisoria assegnato, da un po’ di tempo, al dr. Enea Frangi, ivi trasferitosi dalla stanza in piccionaia, dopo la terribile esperienza del ferro da stiro di cui abbiamo già parlato.
L’avvenimento è molto atteso ed è, a pieno titolo, parte integrante del patrimonio culturale del popolo minuto, che, come si sa, ha bisogno di queste manifestazioni esteriori dell’Autorità costituita, onde sentirsi in qualche maniera partecipe (anche se in minima frazione) del Potere Arcano.
Per fornire un’idea accurata della manifestazione, va qui chiarito che il corteo del Primo Reggitore dei Giudicanti si apre sfarzoso con tre aprifolla vestiti da gladiatori, che sferzano l’aria con uno spadone piatto e a doppio filo, saettandolo a pochi millimetri dal naso di chi si avvicina incautamente. Seguono, al piccolo trotto, tenuti a freno con difficoltà da Corazzieri in alta uniforme e pennacchio, due mastini napoletani sbavanti e ringhianti, con collari tempestati di cocci di vetro avvelenati, simboli viventi dell’accessibilità e della comunicatività dei Capi giudiziari. Sfortunatamente, ogni tanto, i cordiali quattrozampe strattonano il guinzaglio, riuscendo a guadagnare quei pochi centimetri sufficienti ad azzannare l’improvvida gamba di qualche improvvido spettatore, che viene così triturata con pochi e ben assestati colpi delle mascelle protesizzate con barre di acciaio temperato. Subito dietro, tra le ali di un pubblico in delirio, gli araldi suonano a pieni polmoni buccine gigantesche pavesate con le insegne comunali e della relativa Sua Veneranza, mentre un numero imprecisato di tamburini scandisce, su di un rullante d’oro massiccio, il solenne incedere dell’imponente seguito.
Una giovinetta succintamente abbigliata (che il protocollo vorrebbe vergine ) con eleganti e graziose movenze, cosparge, davanti ai piedi di Sua Veneranza, bianchi coriandoli pescati a manciate, con allegra generosità, da una capace cesta di vimini.
Sua Veneranza, sotto con turbante in visione siberiano e quadrupla sardanapalesca corona (con soppalco) di pietre preziose , indossa, per l’evenienza, la semplice sopravveste da cerimonia in damascato di Persia fregiata d’ermellino lunga sino a terra che scopre, appena appena, un paio di leziose scarpe di raso rosso con fiocchi in seta cinese.
Due valletti, indossanti tuniche candide (in realtà sono anziani Avvocati truccati da eunuchi), piegati in avanti in una sobria riverenza, procedono quasi a fianco del Notabile, al quale fanno vento utilizzando voluminosi flabelli in piuma di pavone del Madagascar; una pariglia di paggi sostiene, infine, con garbata magnificenza, le code della toga in satin nero e trinato di Burano.
Chiudono la sfilata, il Segretario Particolare del Primo Reggitore che, prende nota di tutto ciò che accade vergando, con una rarissima penna d’oca cinerina, una pergamena sorretta da un quinto e un ultimo valletto incappucciato (è tuttavia notorio trattarsi del Presidente a vita dell’Ordine degli Avvocati, dr. Reginaldo Maria Serpi-Colonna, il quale, per quell’unica occorrenza, abbandona la propria toga) che, correndo ginocchioni all’incontrario, dà le spalle al seguito.
Il corteo del Primo Reggitore dei Requirenti è invece (per solenne editto) assai meno sontuoso del precedente, in quanto quest’altra Sua Veneranza, benché Primo Reggitore dei Requirenti, è pur sempre Secondo Reggitore del Palazzo e, dunque, in ordine di importanza, secondo al Primo Reggitore dei Giudicanti.
Vi sono pertanto non insignificanti differenze in quest’ultimo cerimoniale come quelle che riguardano, ad esempio, gli aprifolla, che sono muniti di paletta schiacciamosche o i tamburini che sfilano unicamente in numero di due (peraltro i giovanotti vestono in jeans e maglietta della salute) percuotendo inoltre un fustino vuoto della polvere per lavatrice; il Segretario Particolare, infine, scrive con una penna a biro usa e getta ricaricabile, usando un bloc-notes della Rinascente, mentre i cani respingipubblico sono dei chiassosissimi yorkshire.
Dunque, anche questa volta, i Signori della Giustizia, rispettivamente salite e scese le insicure scale del Palazzo, si incontrarono puntuali di fronte all’ufficio del Frangi.
Qui, com’è consuetudine, il dr. Anaspasio Trillozzo (raggiunto da qualche sporadico fischio di contestazione per gli ultimi episodi che lo avevano visto protagonista) era presente per impartire urbi et orbi il suo sorriso ed il tacito assenso.
Gli aprifolla smisero contemporaneamente di roteare. I cani di latrare. I tamburini di tambureggiare. Il Serpi-Colonna di soffrire.
Quattro marines, gentile prestito della Marina americana, sfondando la porta chiusa a chiave dall’interno, irruppero nella stanza del Frangi, che, in quel preciso istante, dimentico, che quello fosse proprio il giorno della Cerimonia di apertura, stava centellinando, con certosina pazienza, le gocce di un fertilizzante naturale datogli da un monaco buddista conosciuto per caso nel reparto drogheria del nuovo centro commerciale del Palazzaccio, un unguento miracoloso adatto a ridonare lucentezza e vigore alle foglie del raro ficus pangolinus (quello dalle foglie bucate, per intenderci, l’unica pianta rimastagli dopo che il cissus scandens aveva fatto, come si ricorderà, una brutta fine ).
I militari, sollevato di peso il Frangi ancora accucciato con la pregiata boccettina ed il contagocce tra le dita, tale e quale una palla di bowling, lo scagliarono in fondo al piano insieme al raro ficus, cui il Magistrato si era istintivamente aggrappato, (uno dei mastini fu in grado, pare, di masticargli, al volo, un polpaccio) eseguendo uno scenografico triplo salto mortale con avvitamento a destra . Enea, peraltro, nello slancio falciò, scusandosi più volte, un gruppo di giapponesi in visita, cui fece volare macchine fotografiche, ombrellini da sole e un paio di compassate guide locali.
Nel frattempo il Primo Reggitore dei Requirenti dr. Anacleto Ossivuoti, accennando in maniera affettata ad un inchino al Sommo e, quindi, al degnissimo Collega, bofonchiò:
«Sua…» (quale abbreviativo del titolo onorifico completo di ‘Sua Veneranza, Possanza e Lungimiranza, Luce Inestinguibile tra le Tenebre dell’Ingiustizia e del Dubbio’ ).
«Sua…» replicò il Primo Reggitore dei Giudicanti dr. Olindo Bamonti, senza inchino.
«Nostra…» profferì dignitosissimo l’Eccelso.
Per l’emozione del momento, i valletti si misero a sventagliare più forte. I mastini napoletani a fiottare bava schiumosa. Le spade ad accecare di bagliori gli astanti. Il Serpi-Colonna a posare la pancia sul pavimento.
«Prego dopo di Lei…» invitò Ossivuoti mostrando con l’indice pesantemente inanellato la porta abbattuta dell’ufficio di Enea desolantemente vuoto.
Mentre i Notabili entravano sotto gli occhi incuriositi e sgranati (dalla meraviglia) dei presenti, i cortei, uno di fronte all’altro, se ne ristettero muti in trepidante attesa.
«Allora vecchio mio come ti butta?» chiese con bonarietà Bamonti appoggiando il battente all’intelaiatura, sicuro che nessun estraneo potesse ascoltarlo.
«Mah… non bene!» rispose arrendendosi stanco alla poltrona «la verità è che stiamo diventando comicamente anacronistici… caro amico mio… figurati che sto facendo una cura ricostituente: mi sento sempre fiacco e privo di energie.» E sottolineò la frase alzandosi la sopravveste fin sopra l’ombelico per l’eccessivo caldo della stanza.
«Davvero?»
«Purtroppo non avverto nessun giovamento… anzi… non ho più la forza neppure di scartarmi le supposte, tant’è che me le faccio mettere dal mio autista!»
«Sconveniente… veramente sconveniente» commentò Bamonti grattandosi la peluria canuta della pancia.
«Già! E’ proprio ciò che dice pure il mio autista. Come fai a saperlo?»
«E’ perché ti capisco… ma a me succede di peggio. Qualche settimana fa, all’improvviso, nel corso di una discussione, mi sono scordato, per l’ennesima volta, il nome di mia moglie… ti rendi conto? Di mia moglie!… e sono sposato con quella peppia raggrinzita da quarant’anni!»
«Capita! Non te la prendere!»
«Fai presto a dirlo tu! Nell’imbarazzo finisco sempre per chiamarla amore mio.»
«E cosa c’è di male?»
«Niente, se non fosse che ieri ho avuto un’altra botta di amnesia proprio nel corso di un pranzo ufficiale… dovevo dar la parola al Presidente dell’Ordine degli Avvocati… come si chiama… sì… quello là… sai quel rompiballe… beh… non mi sono più ricordato, tutt’ad un tratto, il suo nome.»
«… e così?»
«… e così ho finito, meccanicamente, per chiamare amore mio pure lui! Al microfono!»
«Un bel pasticcio!»
«Già! E nessuno è più riuscito a restare serio per il resto della cerimonia. Io mi sono accorto della gaffe solo mezz’ora più tardi e, per giunta, dopo che quello stesso Avvocato mi continuava a fare ginocchino sotto la tavola! A me! Ci pensi?»
Seguì una breve pausa poi Ossivuoti, abbassando la voce, si accostò al magnificissimo Collega:
«Mi hanno riferito, vecchia canaglia, che hai rimpiazzato il deodorante nella macchina…»
La repentina attenuazione del volume fece spuntare, un po’ ovunque, potenti microfoni unidirezionali che si protesero verso i Notabili .
«Ma come fai a essere sempre informato di tutto… eh?» domandò Bamonti, il quale, sorridendo, mostrò un dente cariato «… ebbene sì, l’ho appena fatto arrivare da Fauchon di Parigi, da cui, come saprai, mi servo da diversi anni. E’ ai fiori esotici e ha persino il dispenser… molto buono davvero… persistente, delicato, avvolgente, ma discreto… se ti interessa te ne procuro un flacconcino campione…»
Trascorse, a tale alto livello ed in siffatto amabile colloquio, almeno un’ora buona, durante la quale furono affrontati altri similari spinosi argomenti quali: la scelta del colore del tappetino per il bagno della Presidenza, il regalo per l’anniversario di matrimonio di una lontana cugina e la necessità o meno di seguire un corso, per corrispondenza, di pinnacolo scientifico.
Poi Bamonti, scrutato l’orologio, scivolò dalla poltrona (movimento questo, che fece rinfoderare in fretta i vari microfoni estroflessi).
«Adesso dobbiamo proprio andare… ah, senti… amore mio, quasi me ne dimenticavo, che cosa riferiamo di aver stabilito a quelli là fuori che ci stanno aspettando?»
«Non lo so» ribatté Ossivuoti scrollando il testone pelato «oggi mi sento esaurito, pensa tu a qualcosa… l’altra volta è stata mia l’ispirazione di comprare centocinquanta scatoloni di puntine da disegno (colorate)! »
«Hai ragione… allora provvederò io, ma che fatica amministrare Giustizia!»
«Non me ne parlare… sempre decisioni, sempre decisioni, mai un attimo di vera tranquillità!»
«Allora stammi bene, ci vediamo il prossimo anno e… portami la ricetta delle melanzane rustiche sott’olio che piacciono molto a mia moglie… (in qualunque modo si chiami quella peppia sgualcita!)»
«Certo vecchio mio… abbi cura di te.»
I Signori della Giustizia, ricomponendosi nello splendore delle loro livree, lisciandosi le belle toghe, uscirono maestosi.
Nel corridoio aleggiò un gran silenzio, poi le buccine lacerarono l’aria come fosse di carta.
Enea, che si trovava con le caviglie incastrate in un distributore di cartoncini segnaposto , a quello strepito, svenì.
Bamonti, elevando con soavità il Bastone Dispensatore di Giustizia, non resistendo alla tentazione di benedire la folla, proclamò:
«Avremo un altro commesso!»
Tra gli applausi scroscianti e le urla (isteriche) di gioia del pubblico (alcuni accusarono malori per l’intensa commozione, una mucca incinta ebbe le doglie, una pastorella vide la Madonna) una seconda raffica micidiale di buccine raggelò il sangue ai presenti, privando per sempre dell’udito la prima fila di spettatori. Un fragoroso evviva prese il sopravvento.
Qualcuno gettò delle rose. Altri, piante grasse comprensive di vaso. Una signora, strisciando, riuscì, pur calpestata selvaggiamente, ad attaccare, con una spilla da balia, una fotografia della propria bambina (insieme ad una banconota da cinquecento euro) alla toga del Bamonti, cui buttò baci con il palmo aperto della mano, gridando, prima di spirare, ‘quanto si ‘bbello, mamma mia… quanto si ‘bbello!’
Chi invece, in maniera sconsiderata, si produsse in uno spontaneo ma isolato ‘buffoni!’, fu subito ridotto all’impotenza (coeundi) da un gladiatore intransigente.
Nella confusione, il gruppo di giapponesi, ritrovate nella calca le macchine fotografiche, gli ombrellini da sole e il paio di guide un po’ acciaccate, si lanciò, a fotografare e a cineriprendere ogni cosa avessero a fuoco o si muovesse innanzi a loro, scandendo nell’occasione, all’unisono, monotoni e ripetitivi ‘può selvile, può selvile’.
Un gruppo missionario appartenente alla Congregazione di New Orleans delle Suore Addolorate del Piedin Ferito intonò il formidabile spiritual ‘Alleluia, Jesus’s Mother’ accompagnato alle congas da simpatici kenioti, che, visto l’afflusso di persone, avevano approfittato per stendere il loro tappetino e vendere borse autenticamente false, crani miniaturizzati e musicassette per pedofili. Una coppia di ergastolani, lasciata l’aula di udienza, richiamati dal frastuono che proveniva dal corridoio, accennarono, nonostante le catene, a suggestivi passi di breakdance, trascinando, nel travolgente ritmo, anche i Carabinieri della scorta con cui finirono per avvilupparsi in un’inestricabile matassa di ferro. Non riuscendosi più a dipanare il groviglio se non usando una potente fiamma ossidrica che avrebbe messo però a repentaglio la vita dei Carabinieri e pure degli ergastolani, al termine del processo, furono trasportati tutti in blocco con una gru sino al carcere più vicino e ivi rinchiusi in una medesima cella.
Tornata a stento la calma (furono sciaguratamente necessarie, da parte dei marines, alcune sventagliate di mitra sparate ad altezza d’uomo), l’Ossivuoti, con un misurato mezzo inchino all’indirizzo dell’egregissimo Collega, sussurrò:
«Sua…»
«Sua…» replicò l’altro, senza inchino.
«Nostra…» fece eco il Sommo.
Poi ognuno, riprendendosi il proprio corteo, sotto un’incessante pioggia di coriandoli, tra canti, osanna e spade roteanti, si allontanò, in opposte direzioni, verso i rispettivi uffici (ad attendere Anaspasio vi era, per contro, molto più mestamente, la prima arcata del Ponte Ovale).
Quando la processione fu terminata, due Militi dell’Arma si avvicinarono ad Enea disteso sulle piastrelle ancora svenuto e ormai semisepolto dai cartellini segnaposto che il distributore, incantatosi, continuava a far fuoriuscire senza sosta. Lo guardarono a lungo… poi il Carabiniere meno anziano, avendolo riconosciuto come colui che si era addormentato nel bel mezzo dell’interrogatorio del giamaicano, esclamò:
«Ascolti Maresciallo, lei che sa sempre tutto, ma non Le sembra che questo tipo trascorra un po’ troppo tempo in pausa-sonno? E dicono poi che la Giustizia va a rilento!»
«Cosa vuole, La Martora, i continentali sono strani assai, forse lui ha dei problemi in famiglia e non riesce a dormire a casa sua… e, tutto sommato, posso anche capirlo… li avrei anch’io degl’incubi se avessi un figlio come quello là che mi squadra così storto…»
[space]
<– Giù dal piedistallo –> capitolo ventesimo
–> Treditutto’s Party –> capitolo ventiduesimo