Increspature

Mark arrivò trafelato. Si era alzato tardi e aveva dovuto fare tutto il tragitto verso la stazione di corsa. E quando varcò il portone con il suo solito passo lungo stava considerando che, visto che cosa lo stava aspettando al lavoro proprio quel giorno, non avrebbe potuto e dovuto arrivare tardi in alcun modo. Dopo aver fatto, meditabondo, alcuni metri si fermò di colpo. Non era in stazione, ma si trovava all’interno di un capannone enorme, dismesso da tempo, almeno da quello che poteva vedere in quella penombra: forse era il magazzino di qualche grossa industria fallita. Mark si girò più volte su sé stesso come una trottola. Non riusciva a raccapezzarsi. Aveva preso il treno delle 7.32 al binario 15, poco distante, ormai da chissà quanti anni. Com’era possibile?
Appena dietro di lui arrivò un uomo anche lui di corsa. Appena si accorse di dove si trovava fece una faccia stralunata. Avendo visto Mark, però, si ricompose.
«Che fine ha fatto la stazione?» chiese Mark approfittando che l’uomo sopraggiunto avesse incrociato la sua occhiata interrogativa.
L’uomo sostenne il suo sguardo ma non rispose. Si capiva che stava pensando, forse alla risposta più corretta da dare.
Mark pensò invece che il suo interlocutore non avesse compreso la domanda, anche se in quel capannone grigio e inospitale c’erano solo loro due, a pochi metri di distanza, e non era possibile un qualche fraintendimento.
«Che fine ha fatto la stazione ferroviaria?» ripeté Mark scandendo bene le parole.
«La stazione?» chiese allora l’uomo come se volesse rappresentarsi nella mente che cosa si volesse intendere con quel termine. «La stazione?» ribadì aggiungendo una intonazione involontariamente comica. Poi l’uomo sospirò, si guardò in giro quasi per prendere ispirazione dall’ambiente circostante e finalmente disse: «La stazione l’hanno spostata questa mattina, all’alba, in zona Crocetta!»
«Zona Crocetta? Questa mattina? Senza avvertire?»
«Come no, Signore, sono mesi che hanno dato l’avviso del trasferimento, persino sui giornali nazionali.»
«Ma davvero?» domandò Mark incredulo. «Non ci posso credere, proprio questa mattina… in zona Crocetta, poi. È dall’altra parte della città! Ma perché hanno fatto una cosa simile?»
«Per i lavori dell’Alta velocità. Però ho visto un taxi qui di fronte. Se corre forse c’è ancora. Può prenderlo e arrivare in stazione in meno di venti minuti. Non c’è traffico a quest’ora.»
«Oh, sì grazie» fece Mark come se si fosse ricordato solo in quel momento che doveva andare in ufficio. E si mosse.
L’uomo lo seguì con lo sguardo mentre Mark usciva correndo. Il suono dei suoi passi rimbombò nella struttura vuota come in un film dell’orrore. L’uomo attese ancora qualche secondo per essere sicuro che fosse andato davvero via e poi estrasse dal giubbotto un cellulare. Compose un numero.
«Ma cosa fate, siete impazziti?» gridò.
«Oh, Capo… è lei? Sì, mi spiace per quello che è accaduto… è tutta colpa… è tutta colpa di quello nuovo che abbiamo assunto l’altro ieri… Nathan… l’abbiamo lasciato solo al computer per cinque minuti e ha fatto tutto questo casino… Me ne sono accorto proprio in questo istante. Mi spiace tantissimo, Capo, non so che dire… spero che non ci siano danni.»
«Un novizio? E lei lo lascia da solo davanti alla Plancia Operativa?»
«Ha ragione Capo, dovevo stare più attento… non pensavo che potesse fare una cosa simile… ha traslato uno scenario da un settore a un altro della Cartografia Virtuale: è incredibile che ci sia riuscito e…»
«Rimettete subito le cose a posto, immediatamente…»
«Sì, Capo, certo Capo…»
«E non creda che finisca qui, Thomas. Questa leggerezza la pagherà cara…» e chiuse in modo brusco la comunicazione.
Trascorse ancora qualche secondo. Poi ci fu una increspatura nell’aria gelida. Comparvero i binari, i treni e il personale ferroviario tutto intorno all’uomo. Una signora anziana che trasportava un trolley colorato gli si avvicinò caracollando e, con un sorriso molto dolce, gli chiese a che binario sarebbe arrivato il regionale per Alvona delle 7.38.

No match (seconda parte)

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PUNTATA PRECEDENTE: il comandante Page, durante il viaggio di avvicinamento, sulla sua Unità spaziale E3000, verso la Sedicesima Luna del Cane Maggiore, con il compito di colonizzarla con il suo equipaggio, è stato svegliato dalla sua ibernazione a seguito di un guasto. Accerta infatti al risveglio che qualcuno alla partenza ha sabotato il computer addetto alla navigazione oltre che il sistema di comunicazione verso l’esterno; ora la nave spaziale è diretta verso un buco nero che, tra 156 anni luce, li inghiottirà. Scopre però anche che non tutte le scialuppe di salvataggio sono fuori uso. Una, che era stata spostata per la riparazione e non correttamente riallocata, si è salvata dalla cortocircuitazione. Cerca di pensare a cosa poterne fare per reagire alla situazione venutasi a creare.


Avrebbe potuto piuttosto far caricare sulla capsula superstite di salvataggio le celle di ibernazione di due coloni. Bastava programmare il computer ausiliario che ancora funzionava e il gioco era fatto. ‘Perché no?’, pensò battendo le mani una contro l’altra. ‘Un maschio e una femmina’. Per poi spedirli a destinazione sulla Sedicesima Luna: in fondo erano quasi arrivati, mancavano solo pochi mesi di navigazione. Certo, ci sarebbe voluto molto più tempo per creare una colonia vera e propria e avrebbero incontrato molte più difficoltà da soli, ma era pur sempre un inizio e un modo perché l’operazione avesse comunque successo. Del resto le strutture logistiche erano state già installate da tempo sul posto e tutto era pronto. L’idea era così folle da sembrargli buona.
Che fare invece del resto dell’equipaggio? Svegliarli tutti avrebbe creato solo caos a bordo e un probabile isterismo di massa alla notizia del sabotaggio, soprattutto tra i non militari. Lasciare l’equipaggio in ibernazione poteva essere invece la scelta migliore perché tutti sarebbero andati incontro alla morte senza neppure accorgersene; dopotutto, con il computer di navigazione in avaria, senza alcuna chance di ripararlo o di chiedere aiuto, non c’era nessun’altra opzione possibile da praticare, che fosse stato solo sull’Unità o circondato da altre 1.500 persone a creargli problemi. Forse avrebbe potuto invece svegliare unicamente quello schianto di Annabel Kochinsky, Area Subartica Est, anni 35, Ufficiale di prima classe addetta all’Approvvigionamento. Almeno avrebbe avuto un po’ di compagnia. Ci avrebbe pensato su, con calma e a mente fredda.
Si mise allora subito a riprogrammare il computer per la individuazione dei due coloni; andavano scelti tra soggetti di buona salute tra i 25 e i 30 anni, compatibili tra loro per carattere, competenze e attitudini oltre che per i 158 parametri comportamentali del Protocollo Axel.
Un paio d’ore dopo, quando tutto fu pronto e la scialuppa superstite fu ricollocata sulla sua rampa di lancio, il Comandante Page lanciò il programma ormai completo. Il computer ausiliario non ebbe dubbi sulla scelta che terminò in 5 millisecondi esatti. Individuò un certo Arthur Green di anni 29 della Colonia Vega e una tale Lorna Cooper-Lancaster, del Michigan inferiore, di anni 25. Dalle schede risultava che lei apparteneva a una famiglia facoltosa e molto in vista nel Mondo Interno, con un curriculum di tutto rispetto quanto a istruzione e carriera. Di lui invece non c’era scritto pressoché nulla se non che era stato imbarcato il giorno stesso della partenza con visto provvisorio e nulla osta verbale. Insomma, forse era un clandestino; giù al Comando qualcuno si era dovuto sdebitare per qualcosa.
Certo, una strana accoppiata’ pensò lui grattandosi il naso importante ‘ma è il computer che ha scelto e chi sono mai io per interferire?’ e guardò le foto dei due giovani; erano entrambi di bell’aspetto con una faccia simpatica e sorridente: sembravano voler accettare di buon grado quella sfida.
Il Comandante raggiunse la rampa di lancio della capsula superstite. Vennero caricate senza nessuna difficoltà le due celle di ibernazione; programmò anche il computer di bordo della capsula in modo che avviasse il ciclo di scongelamento una volta arrivata a destinazione. Poi, Page rimase per qualche attimo a osservare, attraverso l’oblò posteriore, quel carico prezioso di vite umane ignaro nel loro sonno artificiale. Era il suo riscatto. Sorrise e, chiudendo gli occhi, trattenne il respiro e premette il pulsante start.
La capsula si mosse, prima lentamente, e poi si fiondò a elevatissima velocità verso il buio siderale; il Comandante fece appena in tempo a scorgere la scia luminosa rossa intermittente lasciata dietro di sé prima che virasse.
Quindi, ancora un po’ commosso da quanto era appena accaduto, tornò al computer ausiliario per interrogarlo sulla sua compatibilità con Annabel. Era solo una formalità, pensò, visto che aveva già notato come lei lo guardava ogni volta che lo incontrava nei corridoi del Comando, ma non voleva avere sorprese, non in quella situazione balorda in cui si era venuto a trovare. Così impostò i dati e fece partire il programma. Anche in questo caso il computer ci mise una manciata di nanosecondi a dare il suo responso. Solo che il nominativo prescelto era quello di Thomas Wolfe, Canada orientale, di anni 42, tecnico di secondo livello, reparto propulsori.
Ci deve essere un errore’ si disse. E fece altri tentativi, badando bene ogni volta che la procedura fosse quella corretta. Il computer proponeva però sempre lo stesso risultato. Provò anche a flaggare in esclusione la scheda di Thomas Wolfe e il programma rispose “NO MATCH”.
Recuperò la scheda di Wolfe. Era un bell’uomo, di colore, un viso franco e simpatico, curriculum ineccepibile. Le rispondenze con la sua scheda avevano dato un punteggio altissimo nel Protocollo Axel; anzi il programma aveva aggiunto persino una “stellina d’oro”  come persona particolarmente raccomandata anche per la compagnia.
Il comandante Page spense il monitor e per un attimo perse il suo sguardo nell’immensità dello spazio.
«Bene!» disse poi sospirando ad alta voce nel silenzio più totale della sua Unità. «Dove sarà il bar?»

No match (prima parte)

Quando cominciò a sentire in bocca il gusto amaro del cluster-detox iniziarono anche a ritornargli in mente, una dopo l’altra, alcune immagini sbiadite della sua vita. Poi come tessere di un unico puzzle si ricomposero con ordine nel suo cervello tanto che, quando ebbe la forza di spalancare il cofano della cella di ibernazione, si rese conto di ogni cosa: era il Comandante Jackson Page e si trovava su una modernissima Unità E3000 con a bordo 1531 persone — tra equipaggio e coloni — diretta sulla Sedicesima Luna della Nana Ellittica del Cane Maggiore. E il fatto che si fosse svegliato dalla ibernazione significava solo una cosa: che era accaduto quello che non doveva accadere e cioè che il programma di indirizzamento verso la meta finale era stato bruscamente interrotto.
Ci mise ancora diversi minuti e una dose supplementare di farmaci adiuvanti per recuperare una motricità sufficiente che gli consentisse di recarsi alla Plancia di Comando; doveva controllare i computer di bordo e cercare di capire di quale anomalia si trattasse e possibilmente correggerla. Ma quello che accertò non gli piacque affatto. L’NGH ovvero il Supercomputer principale di navigazione aveva impresso alla Nave un repentino cambio di rotta. L’Unità E3000 adesso non era più diretta sulla Sedicesima Luna, come previsto, ma, dopo aver eseguito una virata a babordo di 33,7°, stava puntando verso CRO-702008C, un Buco nero di recente formazione che li avrebbe semplicemente inghiottiti.
E dire che di tutto ciò nessuno se ne sarebbe potuto accorgere se lui, poco prima di partire, non avesse fatto installare, per personale pignoleria, un dispositivo accessorio in forza del quale, in caso di avaria, l’NGH avrebbe inviato alla sua cella un impulso di avvio immediato del ciclo di scongelamento svegliandolo. E così era stato. Anche se ora, l’essere seduto al posto di comando, da solo, davanti a un computer in crash fatale lo faceva solo sentire frustrato e inutile. Non c’erano dubbi: la strumentazione elettronica che regolava la navigazione era stata pesantemente sabotata da chi aveva deciso che quella missione avrebbe dovuto fallire; non era possibile in alcun modo riprogrammare il viaggio: il Supercomputer era fuori uso. Sarebbero morti tutti.
Controllò le altre sezioni della Unità: funzionava pressoché ogni reparto. Fatta eccezione per le capsule di salvataggio che erano state manomesse dall’NGH per impedire qualsivoglia forma di esodo dalla nave, così come la strumentazione di bordo per comunicare con l’esterno. Non era più possibile inviare o ricevere messaggi. Chi aveva organizzato quella strage aveva pensato ad ogni evenienza con lucida freddezza. Era come se si trovasse prigioniero all’interno di una costosissima scatola cieca e sorda, in compagnia di 1531 persone addormentate con un destino orribile e ineluttabile davanti; anche se lui personalmente, sull’orlo del CRO-702008C, tra 156 anni, non ci sarebbe ovviamente mai arrivato vivo; la vecchiaia avrebbe fatto prima il suo corso.
Poi guardò meglio la videata di uno dei computer ausiliari davanti a sé. Non tutte le scialuppe di salvataggio erano fuori uso. Una si era salvata. Era stata rimossa dalla sua slitta per alcune riparazioni dell’ultimo momento e poi, per disattenzione del tecnico, non era stata messa nella sua postazione in modo corretto. Quando l’NGH aveva sabotato durante il viaggio le scialuppe non era riuscito a raggiungere anche quella non in linea. Forse, dopo tutto, lui si poteva ancora salvare.
Ma per andare dove?’ Si chiese. ‘Da solo poi!’
Come Comandante non sarebbe potuto mai tornare a casa anche se qualcuno lo avesse recuperato nello spazio aperto. Dopotutto, avrebbero potuto sostenere a buon diritto che, come Responsabile dell’Unità, aveva pur sempre mandato a morire più di millecinquecento persone mentre lui si era salvato. ‘No, non era cosa’, rifletté. Né sarebbe riuscito mai ad arrivare sulla Sedicesima Luna: avrebbe dovuto prima re-ibernarsi, ma era una procedura complicata persino su una Nave sofisticata come quella e non sarebbe stato mai in grado da solo di poterla completare. Sarebbero state necessarie fisicamente più persone.
No, non poteva finire così‘; pensò. Non poteva essere stato svegliato per non poter reagire. Doveva assolutamente fare qualcosa.

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La Nana Ellittica

«Sono il Comandante Darken, Viktor Darken…» disse con un certo orgoglio collocandosi davanti alla scrivania e abbozzando nello stesso istante un morbido sull’attenti. «Sono appena sbarcato.»
La stanza era molto angusta come non ci si sarebbe mai aspettato da una Stazione spaziale di Dogana. Il giovane Funzionario, dall’aria rilassata e compiaciuta, gli indicò la sedia davanti a lui senza fiatare. Poi prelevò dal supporto uno scanner a pistola e lo puntò sulla fronte dell’Ufficiale. Una linea violetta baluginò rapida nell’aria.
«Qui abbiamo un problema» fece il Funzionario con un volto privo di espressività.
«Un problema?»
«Un problema!»
«Che genere di problema?» fece Darken alzando il tono della voce.
«Il suo ID di nanochip frontale è incompleto.»
«In che senso?» incalzò preoccupato.
«Lei ha per caso superato la Cintura di Kwaals
«Certo, vengo dalla Nana Ellittica del Cane Maggiore.»
«Ecco, appunto… i nanochip di vecchia generazione come il suo… che, vedo,…» disse corrugando la fronte nel controllare meglio i dati sul monitor «… che vedo risale a una cinquantina di anni fa… non sopportano l’altissima densità della Materia Oscura propria della Cintura di Kwaals e vanno in avaria. Risultato: 16 dati alfanumerici su 32 del suo ID sono illeggibili.»
«Ma come è possibile? Ha controllato anche l’ID del nanochip femorale?»
«Quello addirittura è del tutto fuori uso. Lei però avrà con sé il Certificato Primario di Impianto…»
«Non l’ho mai ritirato… ci ha pensato mia moglie, però.»
«Mi spiace, allora non posso farla entrare nel Mondo Interno.»
«Scherza? Se il nanochip è guasto, lo ripari. Chieda informazioni alla Sede madre; contatti mia moglie…» fece alterato il Comandante.
«Non funziona così, e poi i nanochip del suo tipo non sono, da tempo, riparabili. Inoltre, per ragioni ovvie di sicurezza, non sono neppure espiantabili per una loro eventuale sostituzione. Come lei ben sa, il nanochip vitae viene impiantato nella “fontanella” del cranio alla nascita, ma con il tempo sviluppa una fitta rete di filamenti organici che avvolgono gran parte del cervello. Estrarre ora il nanochip significa anche estrarre molto tessuto cerebrale persino profondo; nel migliore dei casi lei diventerebbe un vegetale.» Il Funzionario disse tutto questo con un’espressione apatica come se avesse appena letto un manuale di manutenzione di un vecchio ÜZZER 9000.
Darken era ammutolito.
«Inoltre, il Mondo Interno non può fornirmi dati se non fornisco l’ID corretto» proseguì il giovane nel suo resoconto «il suo nome e cognome non bastano se non per informazioni parziali e non ufficiali. Allo stato è come se lei non esistesse.»
«Ma sono diciotto anni che non vedo la mia famiglia e ho un fiorente ranchfood nello Stato di Overwood che devo rilevare…» disse il Comandante con la voce che gli si stava incrinando.
«Dunque, dunque… ho una zia a Overwood» fece a sorpresa il Funzionario continuando a digitare senza mutare espressione. «Ecco… qui, sotto il nome di “Darken, Viktor”, nel Database Alternativo risultano tre persone a suo carico di contribuzione fiscale: “Judith, Martha e Jamaika”.»
«Sì, mia moglie e i miei due figli.»
«Ecco, sono migrati circa dieci anni fa in direzione di NGC 300.»
«Ma è dall’altra parte della Galassia!»
«Esatto… e quanto al Ranchfood Tomahawk di Darken & Darken nello Stato di Overwood, vedo qui… già… è stato venduto… sì, esatto, è stato venduto… ecco, appunto dieci anni fa… il che mi torna…»
«Venduto? La mia famiglia è partita? Ma non è possibile!»
«Non so che dire… non ne sapeva niente?» fece il Funzionario dimostrando per l’eventuale risposta un interesse pari a zero micron.
«È che sulla Nana Ellittica del Cane Maggiore la ricezione è pessima, non ci siamo più sentiti e…» si giustificò il Comandante.
«In conclusione… come le ho già detto, non posso rilasciarle il Visto di Entrata; dovrà abbandonare questa Stazione di Dogana entro 24 ore da adesso» disse firmando e timbrando un fogliettino che consegnò all’Ufficiale. «La prossima destinazione esterna la scelga pure lei… adesso però i Verificatori devono ancora controllare il suo bagaglio… si accomodi pure nella Stanza di Verifica qui accanto, per cortesia: devono essere completate le formalità di reimbarco… Grazie per la sua visita su Varco XVI. Arrivederci…» fece il Funzionario con tono di commiato facendo capire che il Controllo preliminare era concluso.
Darken si alzò lentamente dalla sedia scomoda. La sua esistenza nell’ultimo quarto d’ora si era ribaltata completamente. Nella mente aveva solo il vuoto e nell’animo forti sentimenti contrastanti. Raggiunse la Sala Verifica. Il suo bagaglio era già lì, sul pavimento in trioprene. Ma non c’era nessuno.
Di lì a poco la porta di aprì.
Entrarono tre persone.
«Sorpresaaaaa!» gridarono tutte all’unisono.
«Judith, Martha e Jam! ma allora… voi… non siete…» balbettò incredulo il Comandante guardandole. Poi, piano piano, emettendo uno strano suono rauco, si accasciò a terra preso da violente convulsioni.
«E ora che gli prende?» chiese il Funzionario che nel frattempo era sopraggiunto. «Ma soffre di qualche malattia, suo marito?»
«Non ne ho idea!» rispose Judith pallida. «Sono diciotto anni che non lo vedo.»