Il richiamo della foresta

fiumeEra una giornata che si sarebbe detta molto uggiosa.
Persino il fiume Bu appariva contrariato scorrendo nell’alveo assegnatogli, tra i muri sgretolati di contenimento, imbronciato e senza far rumore.
L’erba non cresceva, i passeri non saltellavano, le galline non beccavano, gli allergici non starnutivano.
La bandiera arancione e vermiglio a losanghe sovrapposte e intrecciate da una sinusoide bluette (il glorioso vessillo della città di Lamarmora superbamente issato sul pennone del Municipio) era sì distesa al vento, ma immobile, come se fosse stata di ferro anziché di stoffa.
Aleggiava, dunque, un’aria sospetta quella mattina. Le Due Valli (Amene), le Colline Terse e le Forze della Natura stavano dunque tramando, alle spalle dell’Universo, qualcosa di raccapricciante.
Nella piazza principale di Lamarmora, cioè nella piazza XXIX Febbraio, poco lontano dal Palazzaccio, tutti avrebbero detto, passando di lì, che la statua in bronzo dell’Eroe lamarmorese Sigismondo Pagnotta (scomparso durante i famosi moti rivoluzionari del ‘32 al grido di: ‘Il popolo per una pagnotta, Pagnotta per il popolo’) avrebbe dovuto rappresentare l’Imperituro che, raccolto in un contegno neghittoso ed insolente, se ne stava in piedi con in pugno il Cartiglio recante la capitolazione degli spietati Baronduchi del Filugello. Invece il medesimo trovavasi bellamente seduto (pur imponente) sul seggio poltronato del Trionfo, mentre, le gambe accavallate, si leggeva un quotidiano con la testa infilata in uno scafandro da palombaro. Persino i piccioni, che avevano notato la strana differenza, si mostravano guardinghi evitando di posarsi sopra al gruppo scultoreo.
Ciò non fu interpretato, da nessuno, neppure dai più ottimisti, quale segno di buon augurio. E si temette il peggio.
Intanto sulla collina dei Tresospiri (la più bella delle Colline Terse), a ridosso del cimitero di Cocoritos, una persona, avvolta in un’ampia vestaglia, con passo lento e pesante, rientrava in casa trascinando un secchio colmo di terriccio. Attraverso un corridoio disadorno, la donna s’inoltrò in quella che doveva essere, con ogni probabilità, il locale più buio.
Tende spesse, color silenzio di campagna alle prime luci dell’alba, pendevano sonnacchiose sull’impiantito opaco e sporco su cui adagiavano (non senza ritrosia) nappe spelacchiate e scolorite. Miliardi di ninnoli condividevano con equità la polvere sui mobili e sugli scarafaggi che regnavano colà indisturbati. Una candela accesa al centro di un tavolo trapezoidale (indispensabile per celebrare i riti di tipo doppio Oyster quale quello che verrà qui di seguito descritto) baluginava a tratti nella stanza.
Appoggiato il capace recipiente sul pavimento, giacché era divenuto di un peso insopportabile, la donna sedette sbuffando. Presa una manciata di terriccio friabile e odoroso, lo sparse con molta solennità sul fondo di un pentolino di terracotta disposto davanti a sé (e su cui troneggiava la scritta smangiucchiata ‘L’ho rubato da Nicola, il re del calzone’) stendendone un velo uniforme.
Da una bustina di plastica levò, invece, dei peli riccioluti e boccolosi che vennero afferrati con una pinzetta dalle punte piatte e zigrinate. Il crine, tagliuzzato finemente, ricadde dentro al coccio dove stava nuotando semisolida una sostanza lattiginosa e olezzante. La mistura così ottenuta fu abbondantemente aspersa con un liquido giallastro contenuto in una boccetta dai riflessi cangianti che mandava un nauseabondo fetore. Alcuni grumi di terra presero quindi subito corpo tra quell’impasto immondo, cominciando dapprima a contrarsi e dilatarsi, come fossero cose vive, poi, a dissolversi scoppiettando.
A questo punto, l’anziana signora trasse da una tasca un oggetto di stoffa bianca, di piccole dimensioni. Il chiarore debole della fiammella rese improvvisamente evidente quanto di tragico e beffardo aveva potuto riservare al Mondo la cruda e perfida Realtà.
Sì, era la pettorina scomparsa!
Un tenue riso, più simile però al ghigno di un animale feroce che a quello di un essere umano, serpeggiò nella casa vuota (se non fosse stato per il gatto bigio Pauper nascosto da qualche parte).
Poco dopo, tranciato di netto da un colpo deciso di forbici, un angolo infinitesimale del noto indumento biancotrinito, cadde dopo ampie volute, nel padellino mefitico. Bastò avvicinare appena la candela alla poltiglia maleodorante che la stessa prese fuoco.
Furono sufficienti alcuni secondi… e l’ultimo granello dell’agglomerato putrefacente disparve, non senza evaporazione, in un brillio di faville arcobaleniche e puteolenti.
D’incanto le imposte delle finestre si spalancarono e il cielo, che parve incrinarsi sotto il suo stesso peso, con una detonazione sorda, si oscurò.
Cominciò così a piovere.
E piovve, piovve… a secchiate.… a secchiate… ma unicamente nella Casa di Anaspasio.
Ben presto ci si accorse che quella che veniva giù non era, però, acqua. Puzzava davvero troppo.
Sì era proprio pipì di opossum.
Un tanfo pestilenziale avvolse subito il paese, penetrando nelle case, nelle stanze, nei frighi e persino nelle confezioni alimentari sigillate sottovuoto. Qualunque oggetto, anche quello riposto nel più recondito e riparato luogo, tanfava in modo inesorabile.
Purtroppo la pioggia dalla Villa di Anaspasio, dopo pochissimo tempo, debordò in strada iniziando ad inondare Lamarmora con comprensibile disagio per tutta la popolazione.
Ma chi stava peggio di tutti era il Sommo relegato nel letto in uno stato di depressione acuta, sotto l’ombrellone da spiaggia tenutogli aperto, con infinito amore, dall’amata cugina Pamela e dall’assistente di questa, Magdalena, la quale, presa nel vortice di spruzzi e schizzi, si era perfino dimenticata dei suoi foruncoli caramellosi.
Ad assisterlo c’era pure l’inseparabile Primo Fante dimentico del perenne sigaro strozzacimici spentosi immediatamente sotto l’inclemenza dei primi scrosci; il collega, pur soffrendo molto per l’onnipresenza della GIP, (che, con il suo noto garbo, chiamava ‘Vecchia frittata’) se ne stava, indomito, la mano nella mano di Lui, per ore intere accovacciato sullo scendiletto in perenne contemplazione mistica dell’Amico bisbigliando tra sé e sé, come in un rosario, tutta l’ultima giurisprudenza della Suprema Corte in tema di catastrofi ecologiche e dei relativi impatti ambientali.
Ciò che appariva inspiegabile (facendo arrovellare gli illustri luminari della scienza medica avvicendatisi al capezzale del Radioso) era lo strano fenomeno per il quale ad Anaspasio crescessero incessantemente e a ritmo vertiginoso tutti i peli del corpo, compresi quelli del naso e delle sopracciglia. Per non farlo soffocare, i familiari erano così costretti a rasarlo di continuo senza smettere mai.
Anaspasio finì così per essere costantemente coperto da uno strato tanto spesso di sapone da barba che dodici rasoi, cadutivi in mezzo, non furono più ritrovati. Il sapone (liquido) comprato a damigiane, veniva sparato con una pistola a spruzzo su tutta la pelle del Predestinato impastandosi con la pioggia immonda che continuava a scendere dal soffitto.
Andò avanti così per giorni. Poi, alla fine del sesto, un sonoro colpo di gong, avvertito in tutte e due le Valli, pose termine a quel disastro senza precedenti.
Anche il furore maligno che scuoteva con violenza Anaspasio si acquetò, tanto che l’ultimo taglio del pelame tenne.
La squadra di centottanta persone, che in quelle settimane si era data il cambio al giaciglio del Presidente in modo ininterrotto e a turni estenuanti, era sfinita. Gli amici e i fedeli seguaci giacevano a terra, supini, con ancora le forbici e le lamette serrate nei pugni chiusi.
La Melapà era esausta. Tuttavia, a dir il vero, la sua collaborazione aveva solo aggiunto confusione al già abbondante scompiglio imperante. Sorpresa a usare le cesoie da giardino per tagliare i peli del pube del povero Anaspasio (sostituite alla svelta con un meno aggressivo pettine) era poi entrata in un stato di trance nervoso di similveglia da cui risuscitava urlando:
«Presto all’attacco miei prodi!!… Forza con quella cavalleria!… Dove sono quei cannoni? Dove sono!?!» sognando evidentemente di essere tra suoi soldatini e suoi campi di battaglia in miniatura.
La cugina, invero, pur volenterosa, era ciò non di meno del tutto priva del benché minimo senso della realtà.
Pamela e Anaspasio insieme, formavano, una pregevole coppia di squinternati, anche perché la dabbenaggine dell’una in unione sinergica con la distrazione dell’altro contribuivano a costituire una formula a dir poco esplosiva.
Un giorno, di comune accordo, decisero di effettuare le pulizie generali di primavera. Quel pomeriggio solo i Pompieri furono chiamati sedici volte, mentre i Carabinieri, dopo l’ennesimo intervento, decisero di non rientrare nemmeno più in caserma restando a pattugliare il portone della Villa per aspettare il termine delle grandi manovre; l’andirivieni del Corpo forestale, del Telefono azzurro, della Polizia cimiteriale, del Soccorso alpino e dell’Associazione italiana per la protezione della giovane, fu intenso e durò fino a notte tarda.
Fra i vari episodi accaduti in quella medesima giornata basterà ricordare, a titolo esemplificativo, quello in cui Anaspasio, non essendosi accorto che nello sgabuzzino delle scope si era infilata la cuginotta intenta a lavare con la sistola dell’acqua le prese della corrente, l’aveva chiusa dentro a doppia mandata. Tutto sarebbe andato per il verso giusto se Pamela si fosse limitata a gridare aiuto. Ma quella, per non disturbare i vicini (urlare, poi, non sarebbe stato decoroso), cercò di aprirsi un varco usando la canna della pistola (carica) che il Presidente teneva nascosta in quello medesimo locale. Alla terza esplosione la GIP riuscì a liberarsi dalla momentanea prigionia rimanendo tuttavia contrariata nello scoprire che la cameriera personale di Anaspasio, nel bel mezzo delle pulizie, si era messa a riposare sul pavimento galleggiando rantolante in un lago di sangue.
Per il buon nome dei Trillozzo e per la salvaguardia delle Istituzioni, il fattaccio fu poi messo a tacere.
Vita breve in casa del Presidente, del resto, l’avevano avuta tutte le altre bestiole di cui la coppia maldestra si ostinava a circondarsi. Oltre al brutto epilogo della breve vita terrena del canarino di casa utilizzato per spolverare una pergamena antica, in giro, si narra della triste storia del gatto persiano Kitty-Kitty, invidia (per la prorompente bellezza) di tutta Lamarmora.
Kitty-Kitty, a dispetto del nome impostogli da Pamela, era un poderoso maschio di quattro anni che aveva l’abitudine, di andare a caccia di feline, più o meno consenzienti, per i tetti attorno alla Villa.
Un mattino, forse per riposarsi dalle scorribande notturne o chissà, solamente per prendere il sole, il micione si era sdraiato con romana mollezza sul davanzale di una finestra (le cui ante erano state socchiuse), postazione che aveva raggiunto, da funambolo qual era, via grondaia. Pamela, manco a farlo apposta, spalancò con sollecita esuberanza proprio gli scuri di quella finestra, poco badando al fatto che facessero una qualche resistenza ad aprirsi. Un meow roco e disperato, seguito da un semplice ‘Oh!’ della donna accortasi di quanto appena combinato, si spense tre piani più in basso, sotto un gigantesco TIR di gelati transitato in strada in quel preciso momento. Solo il campanellino che il lanoso gattone aveva al collo permise di riconoscerlo e di distinguerlo dall’asfalto con cui faceva tutt’uno. Pamela seppellì Kitty-Kitty amorevolmente in un vaso di gerani usando il bicchierino della Coppa del nonno gentilmente offerto dall’autista del camion investitore.
Ma tornando al nostro Anaspasio nel letto, gonfio come una mongolfiera (per via delle numerosissime tosature che Gli avevano creato una terribile irritazione alla carnagione delicata da fine intellettuale), era ora sommerso da impacchi ghiacciati sul capo e, nel medesimo istante, da impiastri bollenti di semolino spiaccicatigli sul petto; nessuno aveva idea a cosa dovessero servire questi cataplasmi (consigliati dalla vicina di casa), ma tuttavia, nel pandemonio generale, se vi era unanimità di consensi sul fatto che il preparato dovesse rimanere a 100 gradi centigradi, c’era però chi, come Primo Fante, (il quale citava, per l’occasione, recenti pronunce della Corte di Cassazione sulla cottura degli zamponi) propendeva anche per un uso diverso ritenendo più efficace la somministrazione del medesimo medicamento sotto forma di clistere liberatorio.
Ma Lui, nonostante fosse attorniato da tanta solerzia e amore, non sentiva più alcuna sofferenza, calato com’era negli abissi di una cupa depressione. Intuiva, infatti, che quella ben strana calamità doveva essere in qualche modo collegata alla sparizione della benamata pettorina. Neppure la marmellata di albicocche e acciughe servitaGli a intervalli regolari in un mestolo pantagruelico (retto da quattro persone) poté alleviare le Sue pene. Il Presidente sovente scoppiava a piangere tra la costernazione di chi Lo assisteva con tanta devozione, finché, un tardo pomeriggio, dopo una settimana di forzata veglia, vinto dalla spossatezza, Si abbandonò ad un agitato sonno abitato da vividi e terrifici incubi.
I giorni che seguirono non furono facili neanche per gli abitanti di Lamarmora, impegnati com’erano nello strenuo tentativo di disperdere l’odore schifoso che pareva essersi impregnato ovunque.
Furono spruzzati ettolitri di essenze, profumi e deodoranti. Il paese, ancora una volta, faticò, non poco, per ritornare alla normalità.

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