Leggendo sentenze civili e penali, di merito e di legittimità, ci si imbatte spesso in un uso variegato (e a volte disinvolto) di tempi verbali anche diversi nel medesimo atto, tempi che, a una prima analisi, appaiono tutti plausibili e corretti.
Ma qual è il tempo verbale grammaticalmente più adatto da usare in un provvedimento definitorio? Il passato remoto, il passato prossimo o altri e più adatti tempi? Si può usare un unico tempo a prescindere dalle diverse parti in cui è suddiviso il provvedimento oppure ogni segmento ne ha uno più appropriato di altri?
La Corte di Cassazione negli ultimi tempi si è impegnata a fondo (contagiando altri uffici giudiziari, in particolari le corti distrettuali più virtuose) per creare una sorta di omologazione non solo in punto di contenuto della sentenze, incidendo sulla loro sinteticità e chiarezza oltre che di conformità ai principi di diritto propri della funzione di nomofilachia, ma anche in relazione alla loro forma, dettando il modulo stilistico del provvedimento, indicando persino quale carattere privilegiare (verdana), quale corpo carattere (10), quale interlinea (2) spingendosi finanche a raccomandare il numero di caratteri da usare per pagina, a come fare le citazioni, le abbreviazioni e a tanto altro.
La necessità di assicurare una uniformità stilistica è in effetti un’esigenza di autorevolezza dell’atto: una sentenza che sembri tale anche nella sua confezione formale esterna e nella sua strutturazione decisionale omologata è da considerarsi doverosa quanto meno per il cittadino/popolo in nome del quale le sentenze vengono pronunciate; in caso contrario, come spesso ancora accade oggi per gli uffici che meno sentono questa esigenza di uniformità, con l’ottenere un provvedimento conclusivo della controversia che si profili diversa esteriormente a seconda dell’Autorità giudiziaria che la emana, potrebbe dare all’utenza finale l’impressione erronea che possano esserci tante “giustizie” quanti sono i giudici che l’amministrano. In fondo, si potrebbe sostenere, se il giudice ha la facoltà di scegliersi arbitrariamente la forma grafica della sentenza perché dopotutto non potrebbe anche scegliersi arbitrariamente la sostanza?
Nonostante si assista dunque a questa nuova ventata di uniformità quantomeno formale dei provvedimenti decisori (che prelude, come dicevo, in forma di auspicio anche a una omologazione contenutistica onde realizzare il principio della certezza del diritto), nonostante la posizione apicale della Corte di Cassazione che si è fatta carico di questa esigenza, poco o nulla è stato detto o indicato (o suggerito), almeno per quel che mi risulta, sull’uso dei tempi verbali della sentenza, in particolare su quali debbano ritenersi i più consoni al tipo di atto cui strettamente ineriscono. Non vi è alcun protocollo, alcuna (o pochissima) letteratura sul punto come vi è invece nella narrazione ordinaria per la costruzione di un romanzo o di un breve racconto.
Sulla questione dunque l’Autore (in questo caso il giudice redattore del provvedimento) è libero di scegliere il tempo che vuole.
Ma è proprio così?
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- Premessa
- La finestra temporale della sentenza
- I tempi verbali praticabili
- L’imperfetto, in particolare
- Un tempo verbale unico per tutte le parti della sentenza?
- Quale tempo verbale privilegiare
- Conclusioni
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