Lei si appoggiò con i gomiti alla balaustra. L’espressione era soddisfatta, le narici piene di salsedine e l’aria del mare tra i capelli. Poi si volse attorno e divenne all’improvviso seria.
«Non trovi che manchi qualcosa?» mi chiese con un certo affanno.
Un ricciolo di sole ondeggiava sulle sue mani mentre le vedevo agitarsi nell’aria a indicare ora l’ombra violetta dei monti lontani, ora il clamore dei gabbiani che rigavano un cielo terso e le dune di sabbia ammonticchiate tra i rami di un albero sulla spiaggia.
«No, non mi sembra» feci io non riuscendo a trattenere un sorriso. «Direi che è tutto perfetto» risposi sentendomene rassicurato.
«Guarda che dico davvero» mi disse lei rizzando il busto e assumendo un’aria imbronciata. «C’è qualcosa di strano.»
Osservai meglio il panorama. Forse le nubi erano troppo alte? Forse la mia voglia di abbracciarla troppo forte? Quando aveva quegli scatti da bambina era irresistibile. Ma lei si irrigidì di colpo: aveva trovato cos’è che non andava.
«È il mare…» concluse lei sospirando.
«Come il mare?»
«Sì, il mare… non senti? Non fa rumore.»
Tesi l’orecchio. Effettivamente nella brezza tesa non c’era il respiro del mare. La risacca s’infrangeva sul bagnasciuga senza il più piccolo suono. Ci avvicinammo, a piccoli passi. Dietro di noi, richiamati chissà da dove, arrivarono alla spicciolata decine e decine di persone attratte dallo stesso silenzio. Camminavano sorpresi, ammutoliti, fissando le onde del mare e la spuma, incartate in una sospensione apparente. Nessuno osava rivolgersi la parola. Forse quella cosa non stava accadendo veramente e non parlare aiutava a crederlo.
Sotto i nostri occhi il mare si stava ritirando sempre più, ribollendo, dapprima con circospezione e poi sempre più velocemente, fino a quando davanti a noi non vi fu, a perdita d’occhio, che la distesa scura del fondo privo di acqua, odoroso di salmastro e di granchi rimasti allo scoperto.