Nonostante fosse stato assunto da qualche tempo quella giacca ridicola con gli alamari d’oro proprio non la sopportava. Gli grattugiava oltre tutto la pelle del collo, tanto era stretta, e gli toglieva il respiro all’altezza dello sterno. Era stata di un altro neger, gli aveva detto il Commendatore consegnandogliela, solo che quello doveva essere stato evidentemente più magro e più basso di lui. E non si trovava neppure con quei guanti di cotone spesso che gli rendeva scivolosa la presa e gli faceva sudare le mani. Ad Ahmed però andava bene così. Aveva trovato quel lavoro per puro caso e voleva tenerselo stretto. E poi non c’era nulla di complicato: doveva solo aspettare in piedi, la mano guantata nella mano guantata, appena fuori della porta chiusa dello studio, caso mai il Dottore lo chiamasse e avesse bisogno di qualcosa. Tutto qui.
Adesso era dopopranzo. Si stava un po’ assopendo, la testa appoggiata alla parete e le palpebre a mezz’asta; dallo studio sentì urlare il suo nome, pensò di aver sognato, ma lo risentì subito dopo. Si precipitò.
«Accidenti a te, Marocco, dove diavolo eri andato a finire? Ho urlato così forte che mi hanno persino sentito nel tuo dannato paese.»
«Scusa, Signore, non capita più» disse mortificato Ahmed in un italiano approssimativo.
«Dici sempre così» rispose quello con una smorfia. E siccome Ahmed rimaneva fermo e dubbioso, l’uomo lo investì.
«Piove! Non vedi che piove?»
Ahmed diede un’occhiata attraverso l’ampia vetrata. Effettivamente pioveva. ‘E allora?’ Si chiese tra sé e sé.
«La mia macchina, testa di ranuncolo. Si bagna e l’ho appena fatta lavare, fa’ qualcosa. Presto! Scattare, scattare!»
Ahmed si mosse goffamente prima in una direzione poi nell’altra. Era la prima volta che aveva un incarico preciso, finalmente. Chiuse la porta dietro di sé, agitato, e si mise a pensare. ‘Che fare?’ Desiderava compiacere il suo datore che, dopo tutto, non gli sembrava così tanto contento di lui. Si guardò attorno. Vide nel portaombrelli un ombrello, lo afferrò e scese in strada: lo aprì sulla macchina andando avanti indietro sul marciapiede per non farla bagnare, ma non ci stava riuscendo. Pioveva con insistenza e le gocce di pioggia iniziavano a sporcare la vettura. Salì nuovamente in casa e prese un secondo ombrello. Se ne stette così, a ics, sotto la pioggia, con gli ombrelli aperti in obliquo nelle due opposte direzioni, sforzandosi di riparare più superficie possibile. La gente che passava di lì lo guardava stralunata non capendo cosa stesse facendo. Ahemd se la stava quasi cavando quando capitò l’imprevedibile: cominciò a grandinare. Non l’aveva mai vista lui, la grandine, ma da come rimbalzava sulla carrozzeria e dal rumore che faceva, non gli parve una cosa buona. Salì allora sopra alla vettura allungandosi con il corpo disteso sul tettuccio, tenendo un ombrello con le caviglie a riparare il cofano e l’altro tra le mani a riparare il portabagagli. La grandine scendeva fitta con un baccano d’inferno: lo colpiva forte e gli faceva male ferendogli la testa e gli arti. Doveva resistere, però, anche perché stava venendo un buon lavoro. Dopo dieci minuti smise di grandinare. Le altre macchine attorno a lui erano tutte bianche, tranne la sua su cui era ancora sdraiato. Si fece scivolare a terra, soddisfatto. La carrozzeria sembrava aver avuto danni limitati. Solo uno dei due ombrelli si era bucato e lui era dolorante, perdendo sangue tra i capelli. Ma non importava.
«Sei un emerito imbecille, Marocco!» si sentì urlare. Era il Commendatore sul portone di casa che lo squadrava con disprezzo. «Sei con me da quasi sei mesi e ancora non sai distinguere una Porsche Cayenne da una Punto. La mia macchina, pirla d’un pirla, è parcheggiata dietro di te.»
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L’ombrello di sicurezza
La donna anziana aprì la porta di ingresso per uscire. Indossava una pelliccia di visone e un profumo intenso di gelsomino che la precedette. Quando accese la luce sul pianerottolo si prese paura perché se lo vide apparire davanti; strizzando gli occhi, riconobbe la tuta che indossava: era quella della ditta delle pulizie.
‘Fa finta di lavare per terra’ pensò la donna con un riso di scherno. ‘Mi ha sentita uscire e si è messo a dare di ramazza. Come fa a lavorare al buio? Son tutti falsi questi stranieri. Non c’è da fidarsi. Questo è pure scuro di faccia, chissà di che razza è…’ pensò chiudendo la porta dietro di sé. ‘Come farà poi a lavorare con gli occhiali da sole lo sa solo Iddio! Tutti lavativi. Tutti lavativi e ladri, buoni solo ad approfittarsi della brava gente. Scommetto che questo si è messo lì a bell’apposta per vedere che numero faccio con la combinazione della porta. Proprio oggi che volevo cambiarla! Ma ora lo frego io…’ La donna, facendo tintinnare un bel po’ di braccialetti, si mise la borsa griffata tra i piedi. Ne trasse l’ombrello che aprì parandosi alla vista dell’uomo; quindi tirò fuori la scheda elettronica e la inserì nella slot. Nel frattempo che armeggiava con la pulsantiera per battere la nuova password il dipendente della ditta le venne di fianco: alzò il portaombrelli per pulire le sottostanti mattonelle sbiadite. ‘Tanto lo so cosa vuoi fare…’ pensò la donna irritata ‘ma non mi faccio fregare da uno come te… Sono anziana, mica tonta’ e si girò di scatto con il suo ombrello per frapporsi ancora una volta alla vista dell’uomo; questi però, voltatosi all’improvviso, urtò sia l’ombrello che la donna facendole cadere la scheda elettronica. La donna ebbe un gesto di stizza: era senza i suoi occhiali da vista e non sarebbe stata in grado di recuperarla.
«E adesso mi aiuti a cercarla!» comandò a voce alta.
«Ha bisogno di aiuto, signora?» chiese l’uomo con un forte accento spagnolo, con la scopa lungo il fianco come fosse un presentant’arm.
«Sì, certo! E me la trovi subito, anche!» insistette sgarbata.
«Che cosa devo trovare?»
«Non faccia il furbo, lo sa benissimo…»
Nel frattempo arrivò un secondo uomo: indossava la tuta della stessa ditta. Salutò la signora e rivolgendosi al collega:
«Hai finito, Felipe?»
«Sì, credo di sì, guarda tu stesso!»
«Bravo, hai fatto proprio un gran bel lavoro. Vieni, ti portò giù.»
«Sì grazie, Ignacio» fece Felipe agganciandosi al braccio del collega che gli si era avvicinato. Felipe fece qualche passo incerto davanti a sé prendendo a tastare il muro alla sua sinistra…»
«Ora stai attento Felipe…» disse l’altro. «Qui c’è il primo gradino…»
La borsa grande
Il senegalese, un pezzo d’uomo dalle mani massicce e dallo sguardo paziente, cercava con lena all’interno di un borsone dentro al quale sarebbe potuto comodamente sparire.
«Mi spiace, no borsa grande» disse al termine della ricerca con le braccia aperte come volesse imitare un aereo. Provò anche a sorridere, ma il viso deluso della signora davanti a lui lo faceva star male. «Tu torna alle 6 di pomeriggio» disse l’uomo ciondolando le braccia «conosco amico… procura te borsa».
«A quell’ora devo già essere in aeroporto» fece la donna scrollando una mano tintinnante di gioielli.
«Facciamo veloci, è qui vicino, tu poi torna a casa con borsa grande».
Quando a dieci minuti alle 18 la donna si ripresentò, il senegalese senza dir nulla raccolse da terra tutte le borse tirando i lembi del lenzuolo, come un fagotto. Fece il gesto alla signora di seguirlo. Dopo un paio di stradine strette si fermò sotto la finestra di una casa che si sarebbe detta abbandonata e chiamò qualcuno. Si affacciò un ragazzo cinese e con lui si mise a parlare in un misto di inglese e di un’altra lingua indecifrabile.
«Dice non c’è suo padre» fece il senegalese alla donna.
«E quindi?»
«Quindi, senza padre lui non va in magazzino, padre non vuole». Poi l’extracomunitario riprese a discutere con il ragazzo facendo chiaramente il gesto di sfregare il pollice con l’indice della mano nel segno inequivoco che la cliente aveva i soldi. Il ragazzo si convinse. Scese con le chiavi in mano e, dopo essersi guardato più volte in giro, aprì la basculante di un garage vicino dischiudendo un magazzino pieno zeppo di borse griffate. La signora entrò estasiata.
«Quelle borse, grandi!» fece il cinese con movimenti rapidi della mano come volesse far presto. La donna non sapeva decidersi e girava tra le borse accatastate in tante montagnole, a seconda del tipo e della marca, come per accertarsi fossero vere.
«Voglio quella lì» disse a un certo punto indicando una borsa attaccata al muro.
«Forse non in vendita… non so…» fece il cinese agitato. «Sentire mio padre».
«Devo partire subito» disse di rincalzo la donna mostrando di volersene andare, ma facendo vedere i soldi.
«Va bene, va bene» fece il cinese staccando la borsa dal muro.
«È pesante» notò la donna prendendola in mano.
«Borsa grande, peso grande» disse secco il cinese.
Contenta, la donna pagò. All’aeroporto arrivò in ritardo per il check-in, ma riuscì ugualmente a sbrigare le formalità d’imbarco. Era ormai alla dogana quando un cane lupo, strattonando il guinzaglio dalle mani di un poliziotto, si mise a ringhiare nella sua direzione.
«Cos’ha in quella busta?» la interrogò stentoreo un uomo in tuta mimetica. La donna sbiancò. ‘Che fossero riusciti ad addestrare i cani a fiutare le borse rubate?’ pensò. Il poliziotto raccolse dalle mani della donna la busta da cui estrasse la borsa griffata che aprì. Dentro c’era un sacchetto di plastica trasparente con della polvere bianca. «Questa sarà mezzo chilo di cocaina, signora…»
La donna rimase ammutolita.
«Posso spiegare» balbettò, «glielo assicuro, posso spiegare».
Il mare non è lontano
La signora Greta stava pulendo i gerani dalle foglie secche e dai fiori appassiti quando, alzando lo sguardo davanti a sé, rimase impietrita: al di là della rete verde di recinzione due occhi scuri la stavano osservando immobili. Le dita erano aggrappate alle maglie strette del reticolo, il viso smunto e tirato su di un corpo gracile e minuto, appena vestito di maglia e pantaloni che avevano perso forma e colore. La donna indietreggiò lentamente senza neppure disfarsi della manciata di foglie ingiallite che ancora serrava nella mano. Indietreggiò trattenendo il respiro sotto lo sguardo fisso di quell’uomo fino a quando non fu in casa dove gridò impaurita al marito.
«È un extracomunitario» sentenziò lui dando un’occhiata fuggevole dalla finestra. «Non c’è d’aver paura. Il mare non è lontano. Forse è uno di quelli buttati giù da una barca di scafisti.»
«Caccialo via, non lo voglio sul mio terreno» ordinò la moglie dandogli le spalle.
«Non è sul nostro terreno, cara… è oltre la recinzione e…»
«Non ce lo voglio lo stesso… mandalo via, mandalo via!»
Il tono della donna non lasciava alternative. Giorgio si risolse ad andare in cucina, tirando fuori dal frigo formaggio e frutta, quindi uscì in giardino. Si avvicinò a larghi passi allo straniero che, anziché fuggire come ci si sarebbe potuto aspettare, lo attese. Anzi, ad un certo momento, l’uomo allungò persino le mani per prendere il cibo per poi, senza un minimo cenno, voltarsi e sparire nel folto del bosco. Giorgio faticò parecchio nei giorni successivi a far ritornare la moglie in giardino. Era sempre stata una donna apprensiva, ma quella reazione lo aveva davvero stupito. Fu solo una settimana più tardi, complice una giornata di sole e l’0ccasione che l’erba dovesse essere tagliata, che lei uscì, arrendevole, del tutto dimentica di quanto accaduto, o almeno così pareva.
«Il nostro prato è sempre più bello» esclamò orgogliosa lei guardando di sbieco la trama fitta del trifoglio e della dicondra. C’era solo il frusciare del vento attorno a sé. Il marito era poco distante, pallido, con lo sguardo rivolto alla rete di confine. Quando la donna girò anche lei gli occhi nella stessa direzione non riuscì a trattenere un urlo agghiacciante che spaventò un gruppo di tortore intento alla pastura tra le tegole del tetto: decine e decine di persone avevano il loro viso schiacciato contro la recinzione e stavano fissando con insistenza i due coniugi. Erano in silenzio, gli occhi scuri e spalancati, le dita intrecciate alla rete come tanti prigionieri disperati. Quindi, ad uno ad uno, svelti come donnole di rapina, scavalcarono la rete ed entrarono nel giardino.
C’è un uomo sul tetto
«Cosa sono questi rumori?»
«Oh niente» disse ‘Gi facendomi accomodare in cucina «c’è un uomo sul tetto.»
«Stai facendo dei lavori?»
«Macché, è proprio un uomo che vive sul tetto.»
Presi posto sulla sedia che il mio amico aveva scostato dal tavolo. Poi lui aprì il frigo e mi chiese con la sua solita cordiale ospitalità:
«Un goccio di pinot come aperitivo?»
«Perché no?»
Stetti ad osservarlo mentre versava quel liquido profumato. Considerai che era proprio speciale quel suo modo di fare che sapeva rendere importanti le cose più banali.
«Allora che ci fa un uomo sul tuo tetto, con questa pioggia, per giunta?»
«È una nuova mania che ci hanno attaccato quegli stralunati di Collefili. Si è sparsa la voce che avere un extracomunitario sul tetto porti fortuna. Gli indiani più dei senegalesi e i capoverdiani ancor più dei rumeni.»
«Ma stai scherzando vero?»
«Purtroppo no. Si costruiscono sul colmo rifugi di fortuna con frasche e lamiere; le addossano alla bell’e meglio ad un comignolo, giusto perché non vengano giù. Insomma, fanno un po’ come le cicogne e vivono in questo modo. C’è chi sostiene che, grazie al prezioso inquilino, ha vinto al superenalotto oppure è guarito da una qualche malattia. La gente ne va matta e fa a gara per averne uno per poi accudirlo passando sia da mangiare che da bere in cambio di un po’ di buona sorte.»
«E a te cosa ha portato di buono il tuo uomo sul tetto?»
«Niente. Mi ha solo rubato l’insalata e i pomodori nella serra. Ma questo è il meno. Ieri ha cominciato a picchiare come un forsennato sulle tegole. Mi ha urlato di abbassare il volume del televisore perché non riusciva a dormire.»