«Ah, ah! Ti ho beccata!» esordì la bambina balzando all’improvviso da dietro le tende e sparando un dito indice accusatorio all’altezza degli occhi dell’intrusa.
La Vecchina rimase immobile come a chiedersi se fosse davvero possibile che qualcuno l’avesse vista. Poi per un istante socchiuse le palpebre grinzose e si grattò il naso che quasi le arrivava al mento.
«Chi sei? La zia? La mamma?» chiese rapidamente la bambina mettendo ora le braccia sui fianchi. Il tono era inquisitorio mentre la fronte imbronciata non prometteva nulla di buono. «Pensate che io sia così piccola e scema da non sapere che la Befana non esiste? Lo sanno tutti che è un modo che hanno i Grandi per rincipollire i Piccoli!»
La Vecchina posò il grosso sacco di juta. Era pesante. Guardò attraverso i vetri la luna rosicchiata dal buio. Da quanto era alta sull’orizzonte capì che si stava facendo tardi. Si mise a pensare velocemente a come uscire da quella situazione.
«E poi lo sanno davvero tutti che la Befana vien di notte con le scarpe tutte rotte… e tu hai invece delle bellissime scarpe rosse con il tacco alto che sono pure lucide lucide…»
«Sì, in effetti, cara Martina, sono le scarpe di tua zia… le mie, tutte rotte, sono all’ingresso… volevo provare come ci si sente per una volta con addosso delle scarpe fighe…»
«Ecco, lo vedi… la Befana non direbbe mai delle parolacce e poi…»
«E poi tu a quest’ora dovresti essere a letto perché non porta affatto bene vedere la Befana; non torna più e questo sì che lo sanno tutti…»
«Se esistesse la Befana avresti ragione, ma non lo sei…» osservò la piccola con una logica ineccepibile. «In realtà sono tutte scuse per non regalarmi quello che desidero tanto…» e rimise il broncio con le braccia conserte lasciando i gomiti alti.
«Lo so, Martina, lo so… ma vedi c’è anche scritto qui sopra…» e la Vecchina tirò fuori dal sacco un librone impolverato «che ultimamente hai fatto disperare i tuoi genitori…»
«Forse ho fatto un po’ la birba…»
«Molto più che solo un po’…».
«Ma uffa mamma… non mi accontenti mai.»
«Non sono la tua mamma e non è affatto vero che non ti accontenta mai e tu lo sai bene… ma quando si fanno arrabbiare mamma e papà ci si merita solo del carbone e nemmeno di quello buono!»
«Non è giusto, non è giusto… sei cattiva, sei brutta e cattiva.»
Si fece silenzio. Un macchina per la pulizia delle strade venne avanti nella via frusciando; la piccola assunse un’aria pensierosa e poi disse a bassa voce:
«E se ti promettessi di fare la brava? Magari ci provo sul serio e da subitissimo…»
«Uhmm… promesso?»
«Promesso!» fece la bambina baciando più volte gli indici messi in croce e regalando un sorrisetto furbo.
«Martina che ci fai sveglia a quest’ora? Prenderai freddo» fece la mamma entrando alle sue spalle seguita dalla zia.
«Mamma! Zia! Voi! Ma allora…»
«Allora cosa?»
La bambina si voltò con la bocca spalancata là dove aveva appena visto la Vecchina. Non c’era più. C’era solo un sacchetto di carta in mezzo alla stanza. Che dopo un po’ cadde facendo ruzzolare fuori dei cubetti di carbone. E poi il sacchetto cominciò a muoversi. A zig zag. Abbaiando.
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Io mi chiamo Greg e tu?
Era piacevole sentire il fruscio della ramazza sul selciato. Swissssh, swissssh… Sembrava di fare una carezza al mondo. E poi la città a quell’ora del mattino aveva un’aria incantata, irreale ed era tutta sua.
Quando Greg era ancora ragazzo, suo padre gli diceva sempre di studiare perché solo così poteva riuscire nella vita. E lui così aveva fatto. Si era preso la laurea e ora stava spazzando alle sette del mattino una delle vie più trafficate dai turisti. Faceva su scontrini, bottigliette vuote di birra, cartoni sventrati della pizza, cercando di evitare i rigurgiti degli ubriachi che i piccioni cercavano già di spartirsi. Sarebbe passata la idropulitrice per quello, a lavare e a disinfettare. Magari anche i piccioni. A volte si chiedeva quanto la felicità potesse essere ancora lontana. Swissssh, swissssh…
Dietro a un cassonetto sotto un foglio di giornale sentì che c’era qualcosa di ingombrante; la ramazza non riusciva a spostarla. Greg si avvicinò. Un oggetto bruno, dall’aria apparentemente innocua, faceva appena capolino. Accidenti: era una pistola. La squadrò ben bene per decidere il da farsi. Poi si chinò e la raccolse. Era pesante, massiccia, calzava alla perfezione nella sua grossa mano. Una sensazione di potenza gli si scaricò attraverso il braccio arrivando sino al cervello. Certo, con quella avrebbe potuto far tacere il suo vicino di casa che teneva la televisione a tutto volume fino a tarda sera; avrebbe potuto far smettere i suoi colleghi di prenderlo in giro per il fatto che lui aveva studiato e loro no; avrebbe forse convinto in qualche modo Carlotta a tornare con lui. Sì, doveva portarsela via.
A casa la adagiò sullo scrittoio e vi diresse sopra il fascio dell’alogena. Doveva saperne di più. Scattò due o tre foto con il cellulare e poi fece una ricerca su internet per immagini. Ed eccola lì: era una Glock 30, cal. 45, caricatore bifilare amovibile da 10 colpi, rigatura interna poligonale ottagonale. Chissà che voleva dire.
Cercò ulteriori informazioni in chat, in siti specializzati, scaricando anche il libretto delle istruzioni. Capì come funzionava la sicura, come si sganciava il caricatore, come si caricava l’arma. E quando gli sembrò di aver capito tutto e di poterla maneggiare con disinvoltura, la penombra della casa si accese di una fiammata improvvisa con un boato assordante. La pistola, chissà perché, aveva appena esploso un proiettile bucando la tramezza accanto e conficcandosi nel retrostante muro perimetrale, non prima di aver spaccato in due l’attaccapanni. Greg si spaventò a morte. Un turbinio di pensieri lo assalì. E se il vicino avesse sentito? Poteva chiamare la polizia. Avrebbero trovato il foro del proiettile e la pistola. Si affacciò in strada. Lo stallo riservato alla macchina del vicino era vuoto. Forse era fuori.
Se ne stette per un po’ con gli occhi chiusi. Sentì piano piano che il cuore si calmava.
Passata la paura, comprese che la pistola lo stava attirando come un magnete.
L’indomani, poco prima di uscire, decise di portarla con sé; la infilò nella cinta dei pantaloni, dietro la schiena.
Lavorò con grande energia. Swissssh, swissssh. Si sentiva diverso, più importante, autorevole. Anche salutando i suoi colleghi quella mattina aveva un altro piglio, più deciso, fermo. E loro sembravano averlo notato salutandolo con maggior rispetto. La sua vita gli sembrava ora avere un senso.
Cominciò anche a pensare che grazie a quell’arma avrebbe potuto uscire finalmente dall’anonimato. Essere qualcuno. Poteva salvare una persona in difficoltà, fermare qualche malintenzionato, riparare un’ingiustizia.
Al supermercato, mentre spingeva il carrello semivuoto, pensò invece che avrebbe potuto anche mettersi a sparare all’impazzata per passare agli onori della cronaca diventando famoso. “Greg, il Terribile”, “Greg, l’Implacabile”. Ci sarebbe stata la sua foto su tutti i giornali, i social avrebbero parlato di lui con stupita ammirazione e lui avrebbe ottenuto migliaia e migliaia di follower. Altro che “Greg lo Sputasentenze” o “Greg lo Stramboide”. Glielo avrebbe fatto vedere lui al mondo chi era in realtà.
E svoltando l’angolo del banco dei latticini ecco che si ritrovò nello spazio più ampio del super. Tra la gente che si assiepava davanti alla rosticceria, al macellaio e alla pescheria, ce n’era davvero molta. Avrebbe potuto per esempio sparare a quel vecchiaccio con l’aria torva che gli stava passando davanti e poi a quel ragazzo che tanto assomigliava a Gegè che lo prendeva sempre in giro per il taglio dei capelli e a quella splendida ragazza che non sarebbe mai stata la sua fidanzata.
Infilò la mano sotto la casacca e impugnò la “sua” Glock, ma non fece in tempo a estrarla.
«Scusa, Signore, tu che hai la faccia buffa… mi aiuti a trovare la mia mamma?» disse all’improvviso una bambina che, arrivatagli di lato, gli stava tirando un lembo del pantalone.
«Eh?» fece Greg risvegliandosi da quel film e guardando in basso.
«Non trovo più la mia mamma… e sarà preoccupata che non mi vede… sai come sono le mamme…»
Greg la guardò intensamente. Era una bambina dolce, bionda, con le treccine, gli occhi chiari e un sorriso che avrebbe potuto far sciogliere le Dolomiti. Passò un tempo indefinibile. Poi l’uomo insaccò meglio la pistola nella cintura e la lasciò lì. Allungò la sua mano verso la bambina.
«Certo, vieni con me che andiamo all’Ufficio Informazioni; non ti preoccupare, la troveremo subito la tua mamma… Ah, a proposito, io mi chiamo Greg e tu?»
La corsa delle mosche
Allora avevo dodici anni. Mi piaceva l’idea di andare in Africa perché avrei visto i leoni e gli elefanti e chissà quale altra meraviglia. Fu un viaggio che ricordo molto bene ancora oggi, nei minimi particolari, anche se sono passati quarant’anni. Mi ricordo soprattutto quando, il settimo giorno di viaggio, arrivammo a bordo di un pulmino tutto scassato a Maroua e di lì a Rumsiki, nel nord del Paese: un villaggio da fiaba in una cornice lunare. Ci fermammo per la notte in un Lodge molto attrezzato e pulito. E lì conobbi Myra, una bella bambina di etnia bantù, della mia età. L’indomani, di ritorno dalla escursione alle Rocce Alte, mi avvicinò per giocare. Con un po’ di francese da parte mia, un po’ di italiano stentato da parte sua e tanta simpatia in mezzo ci intendemmo. A un certo punto mi chiese se mi sarebbe piaciuto giocare ‘à la course des mouches’. E, siccome non capivo di cosa parlasse, uscì sul portico e, dopo qualche minuto, tornò con le mani chiuse, una sopra l’altra, a formare una conchiglia. Aveva catturato due grosse mosche verdi, che in Africa con mancavano mai ed erano pure grosse. In un attimo, senza smettere di sorridere, prese le mosche in modo molto delicato e staccò loro le ali. ‘Adesso devono marcher… vanno… uhm… a piedi…’ mi spiegò.
Costruimmo sul fondo della vasca da bagno una sorta di ‘moscodromo‘ con sottili rami di bambù a formare due corsie parallele.
«Ora ci vuole le sucre» mi fece facendo il gesto di avere in mano una tazzina di caffè e di scioglierci dentro, appunto, lo zucchero. Mi ricordai che nella camera dei miei avevo notato il bollitore, con accanto, oltre alle bustine per il tè, quelle di zucchero. Myra ne prese una e ne sciolse il contenuto con dell’acqua all’interno del coperchio di un barattolo. «Con cacca di mucca è meglio…» disse, quasi scusandosi, e posò il coperchio a una estremità delle corsie, sempre sul fondo della vasca, posizionando le mosche senza ali nella parte opposta.
«Ceci c’est la mienne» disse indicando la mosca più vicino a lei. «Quest’altra, tua.»
Le due mosche verdi si stagliavano come occhi ipnotici sul rivestimento avorio della vasca. Per un po’ si girarono su se stesse, disorientate, come per capire cosa dovessero fare e poi, attirate dal profumo dolciastro dello zucchero disciolto, cominciarono a correre nella sua direzione. E la sua mosca arrivò al traguardo prima della mia proprio mentre lei mandò un gridolino acuto di gioia alzando entrambe le braccia in segno di vittoria. Dovevo ammetterlo. Non riuscendo allora a cogliere appieno quanto potesse essere stato sadico aver privato loro delle ali, lo trovai divertente.
«Ça va…» mi disse con quel suo sorriso contagioso strofinandosi le mani.
Rimettemmo più volte le mosche al punto di partenza e facemmo altre corse. La mia mosca, per distinguerla meglio dall’altra, l’avevo marcata con un pennarello rosso. Con il dorso della mosca che in parte era bianco e il resto verde, con l’aggiunta del rosso, avevo rifatto la bandiera italiana.
«Une mouche italienne…» fece lei ridendo.
Dopo qualche minuto, quando il gioco tra noi era arrivato sul più bello, la sua mosca si mise a zampe all’aria. Era morta. Per un po’ Myra cercò di scuoterla e poi la afferrò rapida e se la gettò dietro alle spalle. «Attendez moi» mi fece balzando in piedi e andando di nuovo sotto il portico.
Ero stato proprio fortunato a fare quell’incontro, mi ricordo di aver pensato. Nelle non brevi pause in cui i miei genitori si riposavano mi sarei sicuramente annoiato senza di lei.
Dopo cinque minuti che Myra non tornava, uscii anch’io. Mi volevo far insegnare da lei come prendere al volo delle mosche così grosse: una volta a casa avrei fatto colpo con i miei amici raccontando loro tutta quella storia stramba. Ma la bambina non c’era. Aspettai ancora un quarto d’ora e poi me ne andai in giro per il villaggio a cercarla. Niente. Chiesi anche al custode di quei Lodge.
Sì, l’aveva vista, mi disse poco convinto indicando a raggiera l’orizzonte; un’ora prima, forse, ma probabilmente era tornata a casa. Io, ovviamente non ci credetti. Non si interrompe così, senza motivo, una corsa tra mosche.
Di Myra non seppi più nulla.
All’aeroporto di Yaoundé, qualche giorno dopo in attesa di imbarcarci, la guida che aveva organizzato il viaggio, mi disse tutto serio che quella ‘non era cosa bella’. Lui non doveva essere stato troppo contento per quel gioco con mosche. Poteva essere venuto giù arrabbiato da montagne ed erano guai.
«Lui chi?» gli chiesi io stupito.
«Ba’ al Zebub, Signore delle Mosche. Lui è dio della carne che va a male, che è putrefacente. Lui è Signore di tutte le Mosche e dei Morti. Non vuole si faccia gioco blasfemo. Lui scende da montagna e porta via con sé chi disobbedisce…» ribadì facendo il gesto con le mani di una cosa trascinata via.
«Ba’ al Zebub?» ripetei io cercando di comprendere al meglio quello che avevo appena sentito.
«Sì… come dite voi in Italia?… Ah sì… Belzebù.»