«Ike, ho paura…»
Il fratello sembrava non ascoltarlo. Guardava la strada davanti a lui e si era fatto serio.
«Guarda che dico davvero.»
«Lo so Bobby, anch’io ho paura, ma ne abbiamo parlato più volte, ricordi? Non ci pensare.»
Nel frattempo, le macchine sulla Interstatale li sfioravano correndo veloci. Sembravano accorgersi di loro solo all’ultimo istante.
«Entriamo nel campo… camminare qui è pericoloso» disse lui, forte dei suoi sedici anni. Il fratellino, più giovane di lui di sei, stava per piangere, ma lo seguì docile.
«Lo sapevi che quando abbiamo deciso di scappare avremmo incontrato delle difficoltà… No?» lo incalzò Ike con voce però rassicurante «non potevamo rimanere ancora con lo zio.»
«Sì, ma ora, l’essere andati via non mi sembra più una gran bella idea e poi sono stanco da morire e ho fame.»
I due ragazzini avevano raggiunto il piano campagna. Era l’imbrunire e il sole stava rotolando come un’ostia arancione dietro la linea delle colline color prugna. Una gracula codalunga che aveva fatto nido nello spoglio campo di mais si alzò all’improvviso ai loro piedi lanciando un grido lamentoso. I due ragazzini si spaventarono: pareva quasi fosse volato via uno strappo della notte. Si fermarono, il cuore batteva all’impazzata. Poi Ike disse:
«Vieni, cerchiamo qualcosa da mangiare…»
«Io voglio la cioccolata che mi sono portato dietro» protestò querulo Bobby.
«Conservatela per un altro momento, c’è un meleto laggiù, raccoglieremo un po’ di mele così ci disseteremo» fece lui come un esperto esploratore.
Camminarono ancora un’ora fino a quando Ike intravvide in lontananza un fienile.
«Questa notte dormiremo là, non sarà difficile entrare.»
Bobby ubbidì senza fiatare. Era pallido, claudicante. Aveva sbagliato a mettere il tipo di scarpe. Con quelle che aveva scelto, scivolava spesso sbucciandosi le ginocchia, senza contare che gli facevano male.
Si sistemarono nel fienile sopra alcune balle squadrate. Gli spunzoni di paglia erano più scomodi di quello che avrebbero creduto ma non dissero nulla. Erano troppo stanchi per farlo. Presero una scala per salire in una sorta di soppalco dove sembrava facesse più caldo. Avevano appena spento la luce della torcia che subito si accesero le luci centrali al neon che illuminarono a giorno l’interno del fienile. Un uomo con la barba, corpulento e paonazzo in volto, stava sbraitando nei loro confronti avvicinandosi minaccioso. Non si capiva cosa dicesse. Poi, quando fu vicino, si capì che li accusava di essere dei ladruncoli e di essere venuti a rubare le uova nel pollaio. Fu allora che si accorsero che aveva una doppietta in mano. L’uomo sparò un primo colpo nella loro direzione. E subito loro due si buttarono giù dal soppalco scattando come gatti. L’uomo prese la mira e sparò di nuovo. Ma i due riuscirono a sottrarsi proprio mentre il contadino stava ricaricando. Si ritrovarono così nell’abbraccio freddo della notte, terrorizzati; corsero all’impazzata senza accendere la torcia per far perdere le loro tracce e non si fermarono fino a quando non si sentirono al sicuro nel bosco. Ike accese finalmente la torcia.
«Stai bene?» gli chiese, senza più fiato, illuminando il fratello.
«Ho perso lo zaino, Ike, l’ho lasciato nel fienile…» disse con gli occhi bassi.
«Non ti preoccupare. In qualche modo faremo.»
In quell’istante si accorse che il fratellino stava perdendo sangue da una mano. Non aveva più il dito mignolo della mano sinistra. Un pallino della cartuccia esplosa dal contadino glielo aveva tranciato di netto. Bobby era ancora troppo spaventato per accorgersene. Ike tirò fuori dal suo zaino un calzino pulito e cercò di fare una benda improvvisata. Intanto il bambino cominciava a sentire il dolore e prese a piangere.
«Mi ricrescerà, Ike? Mi ricrescerà?»
«Dobbiamo tornare indietro» fu la risposta del fratello. Bobby annuì.
Era quasi mezzanotte quando i due arrivarono in vista della casa dello zio. E quando Ike intravvide quella odiata sagoma uscire sulla veranda si nascose.
«Vai, Bobby, vai…» gli sussurrò allora il fratello.
Il bambino lo squadrò con aria disperata, tenendosi la mano ferita con l’altra. Il dolore adesso era forte e pulsante. «Tu non vieni?»
«Non posso tornare, Bobby, lo sai, non potrei più sopportarlo; con tutto quello che ci ha fatto… Tornerò a prenderti…» disse con un tono che sembrava una domanda «…non appena sarai guarito.»
«Giura.»
«Te lo giuro, Bobby.»
Il bambino annuì.
«Chi è là?» disse lo zio nella notte. «Sei tu, Bobby?»
«Sì, zio» rispose dopo un po’. «Ero andato a fare un giro.»
«Dov’è tuo fratello?»
«Non lo so…»
«Che il diavolo se lo porti… vieni dentro che è tardi.»
Archivi tag: bambini
Mama Sunta
Lo spostamento d’aria si riversò sulla banchina spettinando capelli e arruffando giornali, proprio mentre il serpente metallico sbucava dalla galleria come per prendere una boccata di ossigeno. Le luci neutre della stazione illuminarono le lamiere opache fotografandone l’istante in cui, gemendo tra sé e sé, iniziò progressivamente a frenare.
Le porte automatiche della metro si spalancarono sui viaggiatori che entrarono a frotte trascinando con sé, tra gli altri, una ragazza sui quindici anni con in braccio un fagotto di stoffe sporche da cui usciva il viso addormentato di un neonato.
La giovane zingara, dalla faccia anonima, si avvicinò senza perder tempo alle persone già all’interno dei vagoni, la mano tesa, biascicando parole in una cantilena incomprensibile. Si fermava davanti a ognuno, nel compimento zelante di un rituale stanco e antico, ogni volta toccando la gente, ogni volta ripiegando la testa da un lato sì che la treccia di capelli, stretta in fondo da una fettuccia rossa, si raccoglieva unta sulla testa del bambino senza svegliarlo.
La gente la vedeva arrivare, ma ostentava indifferenza, continuando a parlare o a fingere di guardare il buio fuori dal finestrino mentre in realtà ne seguiva con la coda dell’occhio i movimenti.
Dopo circa venti minuti, da che era stata inghiottita dal ventre caldo della metro, la ragazza se ne tornò indietro, spedita, come avesse fretta. Si dispose silenziosa davanti alle porte e alla successiva fermata incrociò nell’uscire un’altra giovane, simile a lei in quei tratti di una giovinezza già svigorita e mai veramente sbocciata.
Senza salutarsi, la ragazza che usciva consegnò il bambino all’altra.
«Brutta giornata oggi, non si alza niente…» disse guardandosi in giro.
«È il bimbo dell’Ajsha?» chiese l’amica aggiustandosi il pargolo al seno.
«Non lo so, credo sia di Yadranka o di Sceba. Comunque quando torni al campo dallo a Mama Sunta, ci penserà lei, come al solito, a riconsegnarlo» e si confuse tra la gente di quel mattino qualunque.
[space]
Articolo selezionato per la Sezione ‘Rileggendo’
↵↵ torna all’Indice della Sezione ‘Rileggendo’
- Il vicino di casa
- Il pezzo mancante
- Il lisiodonte
- Incomunicabilità
- Di che colore sono i miei occhi?
- L’Eco della memoria
- I pettirossi hanno fame
<– Il vicino di casa
–> Il pezzo mancante
La visita al Museo
La maestra, davanti alla porta della scuola, aveva l’aria smarrita. I bambini un po’ la guardavano, un po’ giocavano fra loro, ma senza far troppo rumore, quasi per non disturbarla. La donna si malediceva di aver accettato di portare al Museo di Scienze una classe non sua: ora non si sarebbe trovata in quel guaio. Era stata appena assunta e non se l’era sentita di rifiutarsi. E dire che fino a quando non erano usciti dal Museo era andato tutto bene. I bambini si erano dimostrati interessati, la guida era stata disponibile e paziente, le sale ben allestite e organizzate. Sì, tutto era andato per il meglio fino a quando sul piazzale antistante il Museo aveva tirato fuori dalla tasca il foglio con i nomi dei bambini. Dovevano essere venticinque, come aveva contato alla partenza, e ora erano ventisei. Aveva fatto l’appello per tre volte senza ricavarne nulla. I bambini rispondevano per ridere al nome di altri, facendo confusione a bell’apposta. Aveva anche chiesto chi di loro non fosse della classe, ma aveva avuto indicazioni poco attendibili, fatte per gioco o per dispetto. E adesso si trovava davanti alla scuola, incerta se salire o no. Che figura ci avrebbe fatto a portarsi dietro un bambino non ‘suo’? Se almeno avesse incontrato qualcuno della scuola o una custode si sarebbe fatta aiutare. Ricontrollò l’elenco e il numero dei bambini sperando di essersi sbagliata. Poi un uomo le si avvicinò. La donna, appena lo vide, gli chiese:
«È un collega?»
«Dipende dal lavoro che fa lei» rispose quello gentile.
«Oh sì, mi scusi, sono una maestra del San Protasio Martire…»
«Ah, piacere, allora no, non lo siamo…»
«Oh sì, mi scusi… È che oggi mi è capitata una cosa terribile. Ho un bambino o una bambina in più rispetto a quando sono partita da scuola e non riesco a capire chi sia… Capita di perdere i bambini, anche se non dovrei dirlo, ma averne uno in più…» (abbassando poi la voce per non farsi sentire): «Secondo lei chi potrebbe essere? Per me è quel bambino laggiù col cappottino verdastro un po’ sdrucito… è stato tutto il tempo in disparte, senza dir mai nulla. Ha un’aria malaticcia, da extracomunitario col sussidio comunale… Sì, sì è lui, sono sicura. Non c’entra niente con il resto della classe».
«Spero proprio di no» fece l’uomo. «È mio figlio, sono venuto a prenderlo».
Il Mostro dietro l’armadio
Sofia era nel suo lettino, ma non c’era verso che si addormentasse: la paura del buio era sempre stata molto forte.
«C’è un Mostro nella mia cameretta» disse quasi sospirando al padre mentre se ne stava sulla soglia del salotto.
«Ci abbiamo appena guardato ieri sera» le rispose lui senza distogliere lo sguardo dalla televisione.
«Ma questa volta c’è davvero, vieni, ti scongiuro…»
Il babbo sbuffò senza farsi notare e seguì la piccola. Cominciò a ispezionare con finta solerzia dentro all’armadio, dietro la porta, sotto il tappeto.
«È sotto il letto ti dico…» insisteva la bambina.
Il padre la squadrò di sbieco, poi, osservando l’espressione imbronciata della figlia, gli scappò da ridere.
«Va bene» fece accucciandosi a terra e alzando le coperte «vediamo di che mostro si tratta.»
E due occhi gialli lo fissarono severi nel buio. Un ‘mieow’ stridulo sottolineò la fuga del gatto disturbato da quella incursione.
«Era solo il gatto, tesoro. Non ci sono mostri, te lo assicuro. E adesso vai a letto.»
Sofia era poco convinta, ma si arrese all’evidenza. Scivolò sotto le coperte e chiuse gli occhi.
«Hai finito di darmi la caccia?» sentì scandire nel buio da una voce cavernosa.
«Chi sei?» domandò la bambina schiacciandosi sul cuscino e sbarrando gli occhi.
«Come chi sono? Sono il Mostro, cui dai tanto il tormento.»
«Ma se papà ha guardato dappertutto! Dov’eri?»
«Ha controllato anche dietro all’armadio?»
La bambina si diede uno schiaffetto sulla fronte. Lo spiraglio dietro all’armadio se l’era proprio dimenticato.
«Mi son dovuto nascondere lì» spiegò il Mostro spazientito «dopo che ieri mi hai fatto scappare da sotto il letto.»
«Allora cosa vuoi?» l’affrontò decisa Sofia.
«Essere lasciato in pace.»
«Non posso, tu mi fai paura e poi, quando non ci sono, giochi con le mie bambole e ti metti i miei vestiti.»
«Qualcosa devo pur fare, sennò mi annoio.»
«Ma tu non ci devi stare in questa stanza, è la mia.»
«Neanche per sogno. Ti sbagli, è la mia io abitavo qui prima che tu venissi al mondo. Io ho migliaia di anni» ribatté il Mostro alterandosi. «E poi la camera di una bambina di otto anni che si rispetti deve avere un suo Mostro.»
«Non è vero! E tu poi che Mostro saresti?»
«Sono un Mostro Mangiaculetti.» La bambina cercò di deglutire senza riuscirci. «Pertanto…» ammonì la voce «se non vuoi andare a scuola senza culetto, sappiti regolare!»
Sofia dormì poco e male quella notte e l’indomani la madre, vedendola preoccupata, le chiese se non si sentisse bene. Dopo qualche insistenza la bambina le spiegò del Mostro e cosa le avesse detto.
«Guarda che è facile liberarsene» le disse la madre sorridendo. «Basta non crederci e lui scompare.»
«La fai facile tu, mamma. Se esiste davvero come faccio a credere che non esiste?»
«È presto detto:» fece la mamma accarezzandola «tu prova a domandargli come nascono i mostri, vedrai che lui non saprà risponderti e capirai in questo modo che è solo frutto della tua fantasia.»
La bambina era di nuovo poco convinta, ma voleva ugualmente fare un tentativo. Così a sera Sofia, coricandosi nel suo lettino, una volta spenta la luce, sentì il Mostro tuonare:
«Ho saputo che hai fatto la spia! Dovrei mangiarti subito il culetto. Te lo meriti proprio.»
«E no, tu non puoi farlo!» incalzò subito la bambina.
«Oh bella! E perché?»
«Perché non esisti.»
«Sei impazzita? E allora con chi stai parlando?»
«Con la mia fantasia. Se non è così e tu sei vero, prova allora a rispondere a questa domanda: «Come nascono i Mostri?»
«Ma che stupidaggine è questa?» fece quello seccato.
«Non sai rispondere!»
«Certo che so rispondere. Vediamo… dunque, dunque… come nascono i Mostri, eh?»
«Visto che non lo sai?»
«Ci sto pensando…» sbottò il Mostro in difficoltà. «Non mi mettere fretta.»
«Non lo sai… non lo sai…» cantilenò la bambina. «Aveva ragione la mamma.»
«Ho trovato! Ho trovato!» gridò di contentezza lui. «È semplice! I Mostri nascono come i bambini.»
Sofia rimase un po’ interdetta. Non se l’aspettava quella risposta. Quindi chiese:
«E i bambini, allora, come nascono?»
Il Mostro a quel punto tacque e non si fece più sentire. Sofia si addormentò felice. Era finalmente libera dalle sue paure. Poi verso le tre del mattino si svegliò di soprassalto. Scese dal letto e, non avendo più paura del dubbio, si diresse, senza accendere la luce, nella camera da letto dei suoi.
«Mamma, mamma…»
«Cosa c’è tesoro?» mormorò nel dormiveglia la donna. «C’è ancora quel mostro che ti dà fastidio?»
«No, mamma, il Mostro se ne è andato per sempre. Però senti… volevo sapere… ma i bambini come nascono?»