Il pettirosso

Adesso mi alzo. Devo finire diverse cose prima di sera.
È bello starsene però qui sotto le coperte, al calduccio, dopo pranzo. Fuori piove. Le cime degli alberi si scuotono in una danza incomprensibile. Si agitano all’improvviso e poi si acquetano e poi oscillano di nuovo come a chiedere una tregua. È buffo guardarle.
Adesso mi alzo. Anche se in fondo è domenica e nessuno mi correrà dietro. Il resto della casa è in silenzio. Ognuno sarà intento alle proprie faccende e non fanno rumore per non svegliarmi; sono certo che non ci baderanno più di tanto se mi attardo un poco. Solo cinque minuti, lo prometto. Cosa sono cinque minuti? È che mi sento stanco, tanto stanco. E questo cuscino è morbido. Mi accarezza. Lentamente. Mentre fuori piove. Sono giorni che non mi fermo un attimo in ufficio. Non devo sentirmi in colpa.
A proposito: cos’è che mi ha detto la segretaria l’altro giorno? Quali sono state esattamente le sue parole? Non le ricordo più. Ma ci sono rimasto male. Forse è stata l’espressione del suo viso, per quello che mi hanno trasmesso i suoi occhi. Cosa mi ha detto? Dovrei ricordarlo: dopo tutto non è passato molto tempo.
Un pettirosso s’è rifugiato dal mal tempo proprio sotto la finestra. Che carino, ha un’aria sveglia. Sembra voglia dirmi qualcosa.
Dovrei davvero andarci in Canada, l’ho sempre desiderato. Quelle foreste infinite, il freddo in faccia, il colpo d’occhio che non trova ostacoli per chilometri.
Dovevamo andarci, Amore mio, tanto tempo fa, ricordi? E che poi abbiamo sempre rimandato. Anno dopo anno. Non è stato mai il momento. Ogni estate c’era un motivo diverso. È rimasto un sogno, finanche il sogno di un sogno.
Il pettirosso è andato via. Questi uccellini non stanno mai fermi. Mai. Neppure se tempesta. Chissà cosa aveva da dirmi.
Devo alzarmi. Devo proprio. Non sono mai stato così a lungo in questo letto.
È che mi sento le palpebre pesanti, tanto pesanti. Le braccia non sembrano neppure più le mie. Se non ci fosse il letto sprofonderei al centro della terra. Forse non mi farebbe male se dormissi ancora. Vorrà dire che andrò a coricarmi più tardi questa sera. Dormo ora e recupero dopo cena. Sì, si può fare. Al risveglio mi sentirò meglio.
Devo telefonare a mio fratello. È tanto che non lo sento più. Non so neppure più che voce abbia. Adesso vado di là in studio e lo chiamo. Mi manca tanto. Anche tu papà mi manchi tanto: facciamo pace, che dici? Una volta per tutte. Anche se non ci sei più.
Sono belle però queste ombre mobili nella stanza. Il cielo grondante di pioggia disegna un velo di grigio sulle pareti. Non è triste però, no, non è triste. C’è molta calma ora su questo cuscino.
Va bene, al tre tirerò fuori prima un piede e poi l’altro e poi andrò a farmi un buon caffè.
Le pantofole del resto sono lì, al loro posto. Ne sono sicuro. Aspettano solo il mio piede.
Al tre.
O al cinque.
E se facessi al dieci? O al mille?
Tutto sommato quello che devo fare lo posso fare anche più tardi o domani. O mai. La vita andrebbe avanti lo stesso anche se io sparissi tutto ad un tratto.
Il pettirosso è tornato. Sbircia dentro la stanza. Forse sbircia anche dentro il mio cuore. Cosa c’è dentro il mio cuore, papà? Io non lo so più. E non so cosa dire al pettirosso. Ecco lo so già: ora andrà via e io non sarò stato capace di dirgli nulla. Né a lui, né a mio fratello, né a te Amore mio cui non ho mai detto a sufficienza quanto ti amo.

Babbo, scusami se entro così. Guarda che è tardi. Svegliati. La mamma mi ha detto che devi aiutarla.
Babbo… Babboooo!
Oddio mamma, corri subito, presto…
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hat_gy

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Il Mostro dietro l’armadio

 

Sofia era nel suo lettino, ma non c’era verso che si addormentasse: la paura del buio era sempre stata molto forte.
«C’è un Mostro nella mia cameretta» disse quasi sospirando al padre mentre se ne stava sulla soglia del salotto.
«Ci abbiamo appena guardato ieri sera» le rispose lui senza distogliere lo sguardo dalla televisione.
«Ma questa volta c’è davvero, vieni, ti scongiuro…»
Il babbo sbuffò senza farsi notare e seguì la piccola. Cominciò a ispezionare con finta solerzia dentro all’armadio, dietro la porta, sotto il tappeto.
«È sotto il letto ti dico…» insisteva la bambina.
Il padre la squadrò di sbieco, poi, osservando l’espressione imbronciata della figlia, gli scappò da ridere.
«Va bene» fece accucciandosi a terra e alzando le coperte «vediamo di che mostro si tratta.»
E due occhi gialli lo fissarono severi nel buio. Un ‘mieow’ stridulo sottolineò la fuga del gatto disturbato da quella incursione.
«Era solo il gatto, tesoro. Non ci sono mostri, te lo assicuro. E adesso vai a letto.»
Sofia era poco convinta, ma si arrese all’evidenza. Scivolò sotto le coperte e chiuse gli occhi.
«Hai finito di darmi la caccia?» sentì scandire nel buio da una voce cavernosa.
«Chi sei?» domandò la bambina schiacciandosi sul cuscino e sbarrando gli occhi.
«Come chi sono? Sono il Mostro, cui dai tanto il tormento.»
«Ma se papà ha guardato dappertutto! Dov’eri?»
«Ha controllato anche dietro all’armadio?»
La bambina si diede uno schiaffetto sulla fronte. Lo spiraglio dietro all’armadio se l’era proprio dimenticato.
«Mi son dovuto nascondere lì» spiegò il Mostro spazientito «dopo che ieri mi hai fatto scappare da sotto il letto.»
«Allora cosa vuoi?» l’affrontò decisa Sofia.
«Essere lasciato in pace.»
«Non posso, tu mi fai paura e poi, quando non ci sono, giochi con le mie bambole e ti metti i miei vestiti.»
«Qualcosa devo pur fare, sennò mi annoio.»
«Ma tu non ci devi stare in questa stanza, è la mia.»
«Neanche per sogno. Ti sbagli, è la mia io abitavo qui prima che tu venissi al mondo. Io ho migliaia di anni» ribatté il Mostro alterandosi. «E poi la camera di una bambina di otto anni che si rispetti deve avere un suo Mostro.»
«Non è vero! E tu poi che Mostro saresti?»
«Sono un Mostro Mangiaculetti.» La bambina cercò di deglutire senza riuscirci. «Pertanto…» ammonì la voce «se non vuoi andare a scuola senza culetto, sappiti regolare!»
Sofia dormì poco e male quella notte e l’indomani la madre, vedendola preoccupata, le chiese se non si sentisse bene. Dopo qualche insistenza la bambina le spiegò del Mostro e cosa le avesse detto.
«Guarda che è facile liberarsene» le disse la madre sorridendo. «Basta non crederci e lui scompare.»
«La fai facile tu, mamma. Se esiste davvero come faccio a credere che non esiste?»
«È presto detto:» fece la mamma accarezzandola «tu prova a domandargli come nascono i mostri, vedrai che lui non saprà risponderti e capirai in questo modo che è solo frutto della tua fantasia.»
La bambina era di nuovo poco convinta, ma voleva ugualmente fare un tentativo. Così a sera Sofia, coricandosi nel suo lettino, una volta spenta la luce, sentì il Mostro tuonare:
«Ho saputo che hai fatto la spia! Dovrei mangiarti subito il culetto. Te lo meriti proprio.»
«E no, tu non puoi farlo!» incalzò subito la bambina.
«Oh bella! E perché?»
«Perché non esisti.»
«Sei impazzita? E allora con chi stai parlando?»
«Con la mia fantasia. Se non è così e tu sei vero, prova allora a rispondere a questa domanda: «Come nascono i Mostri?»
«Ma che stupidaggine è questa?» fece quello seccato.
«Non sai rispondere!»
«Certo che so rispondere. Vediamo… dunque, dunque… come nascono i Mostri, eh?»
«Visto che non lo sai?»
«Ci sto pensando…» sbottò il Mostro in difficoltà. «Non mi mettere fretta.»
«Non lo sai… non lo sai…» cantilenò la bambina. «Aveva ragione la mamma.»
«Ho trovato! Ho trovato!» gridò di contentezza lui. «È semplice! I Mostri nascono come i bambini.»
Sofia rimase un po’ interdetta. Non se l’aspettava quella risposta. Quindi chiese:
«E i bambini, allora, come nascono?»
Il Mostro a quel punto tacque e non si fece più sentire. Sofia si addormentò felice. Era finalmente libera dalle sue paure. Poi verso le tre del mattino si svegliò di soprassalto. Scese dal letto e, non avendo più paura del dubbio, si diresse, senza accendere la luce, nella camera da letto dei suoi.
«Mamma, mamma…»
«Cosa c’è tesoro?» mormorò nel dormiveglia la donna. «C’è ancora quel mostro che ti dà fastidio?»
«No, mamma, il Mostro se ne è andato per sempre. Però senti… volevo sapere… ma i bambini come nascono?»