La stagione di caccia

Il giorno prima non era andata granché bene. Aveva preso solo una pernice. Un bel tiro teso e lungo, ma un bottino piuttosto magro per una giornata intera. Da quando non aveva più con sé Boot, il suo bracco, cacciare era diventato più complicato e faticoso. Non era però certo colpa sua se aveva dovuto far perdere quel maledetto cane. Il costo della vita si era fatto pesante e, mantenere da una stagione all’altra, un animale così era diventato molto impegnativo. L’aveva lasciato fuori di un supermercato, un pomeriggio di sabato nell’ora di punta. Aveva assicurato il guinzaglio a una palina del parcheggio, accanto alla porta, ed era tornato indietro. Boot l’aveva seguito con lo sguardo immaginando che lui avesse dimenticato qualcosa in macchina. Ma poi l’aveva visto salirci sopra e sparire dalla sua vista. L’avrebbero liberato prima o poi, ne era sicuro. Del resto, accidenti, era proprio un bel cane.
Quella domenica di caccia pensò allora di esplorare una nuova zona, per aver miglior fortuna. Gli avevano detto che a nord il terreno diventava incolto e impervio e per questo meno battuto. Era stagione di passo e avrebbe potuto facilmente riempire il carniere di luì verdi e bianchi, grossi come tordi. Camminò un paio d’ore verso nord, superando un capannone in rovina e qualche rigagnolo. La cresta non era lontana. A destra si apriva un vasto ghiaione e a sinistra il bosco fitto: se avesse tirato per la pietraia avrebbe fatto sicuramente prima. Per camminare sui sassi si affidò a un robusto bastone che lo aiutò a inerpicarsi. Era una faticaccia ma già vedeva sulla sua testa gli stormi passare alti, diretti verso la collina sottostante. Sarebbe stata una battuta proficua che lo avrebbe ripagato abbondantemente. Accelerò il passo ma all’improvviso il margine del sentiero gli franò sotto il piede di appoggio. Cadde all’indietro rovinando per diversi metri verso valle. Nell’impatto gli sgusciò il fucile dalla spalla che cadendo a terra fece partire un colpo. Per fortuna la canna era rivolta lontano e non venne colpito: lo sparo tuttavia rimbombò nel cielo svuotandolo in un attimo. Rimase a terra, spaventato, cercando di fare mente locale se si fosse rotto qualcosa. Sembrava tutto a posto, se non fosse che adesso era senza fucile. Alzò la testa per ispezionarsi: i pantaloni erano sbucciati a livello delle ginocchia, la cartucciera era rotta e penzoloni da un lato e, quel che c’era di peggio, aveva perso uno scarpone. Stava imprecando quando con la coda dell’occhio vide un sasso venire giù veloce dal roccione. Ebbe solo l’istinto di alzare un braccio senza riuscire a evitare che lo colpisse tra la fronte e la tempia. Quando si risvegliò era notte. Almeno così gli sembrava. Tenendo a lungo gli occhi aperti si abituò all’oscurità. Era al coperto. Nella semi incoscienza gli era parso di venir trascinato via, ma non era riuscito a capire da chi. Rimase immobile, in attesa, anche perché si sentiva debole: la testa gli doleva terribilmente e a giudicare da come sentiva impiastricciati il collo e la camicia, doveva aver perso molto sangue. Sospirò. Poi qualcosa lì dentro si mosse. Si tirò su, strizzando gli occhi. Cercò di recuperare l’accendino che trovò dopo vari tentativi in una delle tante tasche. Fece scattare la scintilla. Con grande sorpresa vide davanti a sé Boot, il suo vecchio cane, e un altro ancora, Pascal, il suo rottweiler che aveva dovuto anche lui abbandonare dieci anni prima all’inizio di un periodo di ferie: c’era, più indietro, un altro cane che non aveva invece mai visto prima. Lui guardò i cani, i cani guardarono lui. Si sentì sollevato e sorrise allungando una mano per accarezzarli. Fu quello anche il momento in cui i tre animali scattarono all’unisono avventandosi su di lui.

 

Torna a casa Klaster

Il bambino sembrava assorto nel suo gioco. Anche se a dire il vero non si capiva che gioco fosse visto che continuava a prendere e a riporre gli oggetti davanti a sé senza criterio. I genitori guardavano un telefilm in tv, in quello che sembrava un lungo pomeriggio di domenica. Poi il bambino levò la testa, quasi avesse sentito qualcosa. Voltò lo sguardo verso i genitori per accertarsi se fosse stato il solo, quindi si alzò e corse alla porta. La aprì. La madre scattò in piedi.
«Paolino, cosa fai?»
«È Klaster, mamma, è Klaster!»
«Ma cosa dici! Vieni dentro e chiudi la porta, che fa freddo».
«È Klaster ti dico, è lui».
La madre si avvicinò alla finestra e controllò. La stradina di accesso al villino era vuota, come lo era lo sterrato oltre i cipressi fino a che non spariva distrattamente dietro al curvone. Si girò verso il figlio e lo accarezzò scuotendo la testa. Ma il bambino stava trattenendo il respiro. Gli occhi erano spalancati e andavano ben oltre quelle piante e il muro di pietra raggelato dall’inverno.
«Eccolo!» gridò d’un tratto, scappando fuori sotto il portico. La donna non riusciva a crederci. Il cane era tornato. Un dogue bordeaux incrociato, dal muso ancora da cucciolo, ma dal cuore generoso. Era vero, allora, come dicevano i giornali, che potessero trovare la strada di casa coprendo centinaia di chilometri. Le venne voglia di piangere: il figlio era pazzo di gioia e si rotolava nel giardino con quel suo cane che tanto aveva pianto quando si era accorto di averlo perduto la scorsa estate. Il marito nel frattempo l’aveva raggiunta alla finestra.
«E così è tornato!» fece lui aggiustandosi gli occhiali sul naso.
«Sì, e guarda quanto è felice tuo figlio!»
«Già» sospirò l’uomo. «La verità è che non sai fare neppure un nodo come si deve. La prossima volta, anziché legarlo al guard-rail, lo butto giù io dal cavalcavia».

Bobby il cane

Il veterinario scese dalla Panda sbattendo due volte la portiera. Un giorno o l’altro avrebbe dovuto decidersi a farla riparare. Suonò alla porta del villino. Dall’ultima volta che era stato lì, il giardino era meno curato e c’era disordine sotto il patio. La signora Lucia ci mise un po’ ad aprire, la gamba con l’andare degli anni le faceva sempre più male.
«Oh dottore, meno male che è venuto subito. Il mio Bobby sta davvero male» e subito si inoltrò nella casa, zoppicando.
«Di cosa si tratta, esattamente?» chiese il veterinario facendo entrare per prima la borsa.
«Il mio cagnolino sta male…»
«Lei ha un cane?» si domandò l’uomo fermandosi di colpo pensoso. Poi si scosse. C’era un cattivo odore in quella stanza, che prendeva allo stomaco.
«Certo, che ho un cane. Bobby, no?»
La donna arrivò nel salottino seguito dal veterinario che si guardava in giro, in cerca dell’animale. «Non ho capito però cos’ha…» insistette il veterinario.
«Questo me lo deve dire lei…»
«Sì, certo. Ma che sintomi ha? Vomita? Perde il pelo? Guaisce?»
«Macché» fece la donna anziana abbandonandosi sulla poltrona come fosse sfinita. «Niente di tutto questo. Ha delle turbative psicologiche».
Il veterinario posò la borsa su un tavolino, facendosi serio. Attorno a lui i mobili erano ingombri di carte e scatole. C’erano giornali, piante, coperte appallottolate e avanzi di cibo per terra. «Turbe psichiche, ha detto?» In quel mentre arrivò Bobby con passo cadenzato e lo sguardo vispo. Bobby era un gatto.
«Bobby crede di essere un gatto» fece la donna al dottore allibito. «Da un po’ di tempo a questa parte non mangia più il suo solito pappone, ma vuole pesce e croccantini». La donna accennò a un sorriso, ma si vedeva che era preoccupata. I suoi capelli erano così bianchi da avere una leggera sfumatura di azzurro. «Che cosa gli può essere accaduto? Una settimana fa è stato anche peggio e mi sono spaventata. Pensava di essere un canarino e svolazzava per tutta casa, sporcando dappertutto. Per fortuna è durato solo qualche ora così ho creduto di non disturbarla».
«Gli faccia bere molta acqua, signora» disse arrendevole il veterinario accucciandosi e accarezzando il gatto che gli si strusciava contro. «Invecchiando i cani spesso si trasformano. Ma non è niente di grave, basta assecondarli».
«Lei dice, dottore?»
«Sì, ma se si trasforma in un pescecane, mi avverta».