La corsa delle mosche

mosca verdeAllora avevo dodici anni. Mi piaceva l’idea di andare in Africa perché avrei visto i leoni e gli elefanti e chissà quale altra meraviglia. Fu un viaggio che ricordo molto bene ancora oggi, nei minimi particolari, anche se sono passati quarant’anni. Mi ricordo soprattutto quando, il settimo giorno di viaggio, arrivammo a bordo di un pulmino tutto scassato a Maroua e di lì a Rumsiki, nel nord del Paese: un villaggio da fiaba in una cornice lunare. Ci fermammo per la notte in un Lodge molto attrezzato e pulito. E lì conobbi Myra, una bella bambina di etnia bantù, della mia età. L’indomani, di ritorno dalla escursione alle Rocce Alte, mi avvicinò per giocare. Con un po’ di francese da parte mia, un po’ di italiano stentato da parte sua e tanta simpatia in mezzo ci intendemmo. A un certo punto mi chiese se mi sarebbe piaciuto giocare ‘à la course des mouches’. E, siccome non capivo di cosa parlasse, uscì sul portico e, dopo qualche minuto, tornò con le mani chiuse, una sopra l’altra, a formare una conchiglia. Aveva catturato due grosse mosche verdi, che in Africa con mancavano mai ed erano pure grosse. In un attimo, senza smettere di sorridere, prese le mosche in modo molto delicato e staccò loro le ali. ‘Adesso devono marcher… vanno… uhm… a piedi…’ mi spiegò.
Costruimmo sul fondo della vasca da bagno una sorta di ‘moscodromo‘ con sottili rami di bambù a formare due corsie parallele.
«Ora ci vuole le sucre» mi fece facendo il gesto di avere in mano una tazzina di caffè e di scioglierci dentro, appunto, lo zucchero. Mi ricordai che nella camera dei miei avevo notato il bollitore, con accanto, oltre alle bustine per il tè, quelle di zucchero. Myra ne prese una e ne sciolse il contenuto con dell’acqua all’interno del coperchio di un barattolo. «Con cacca di mucca è meglio…» disse, quasi scusandosi, e posò il coperchio a una estremità delle corsie, sempre sul fondo della vasca, posizionando le mosche senza ali nella parte opposta.
«Ceci c’est la mienne» disse indicando la mosca più vicino a lei. «Quest’altra, tua.»
Le due mosche verdi si stagliavano come occhi ipnotici sul rivestimento avorio della vasca. Per un po’ si girarono su se stesse, disorientate, come per capire cosa dovessero fare e poi, attirate dal profumo dolciastro dello zucchero disciolto, cominciarono a correre nella sua direzione. E la sua mosca arrivò al traguardo prima della mia proprio mentre lei mandò un gridolino acuto di gioia alzando entrambe le braccia in segno di vittoria. Dovevo ammetterlo. Non riuscendo allora a cogliere appieno quanto potesse essere stato sadico aver privato loro delle ali, lo trovai divertente.
«Ça va…» mi disse con quel suo sorriso contagioso strofinandosi le mani.
Rimettemmo più volte le mosche al punto di partenza e facemmo altre corse. La mia mosca, per distinguerla meglio dall’altra, l’avevo marcata con un pennarello rosso. Con il dorso della mosca che in parte era bianco e il resto verde, con l’aggiunta del rosso, avevo rifatto la bandiera italiana.
«Une mouche italienne…» fece lei ridendo.
Dopo qualche minuto, quando il gioco tra noi era arrivato sul più bello, la sua mosca si mise a zampe all’aria. Era morta. Per un po’ Myra cercò di scuoterla e poi la afferrò rapida e se la gettò dietro alle spalle. «Attendez moi» mi fece balzando in piedi e andando di nuovo sotto il portico.
Ero stato proprio fortunato a fare quell’incontro, mi ricordo di aver pensato. Nelle non brevi pause in cui i miei genitori si riposavano mi sarei sicuramente annoiato senza di lei.
Dopo cinque minuti che Myra non tornava, uscii anch’io. Mi volevo far insegnare da lei come prendere al volo delle mosche così grosse: una volta a casa avrei fatto colpo con i miei amici raccontando loro tutta quella storia stramba. Ma la bambina non c’era. Aspettai ancora un quarto d’ora e poi me ne andai in giro per il villaggio a cercarla. Niente. Chiesi anche al custode di quei Lodge.
Sì, l’aveva vista, mi disse poco convinto indicando a raggiera l’orizzonte; un’ora prima, forse, ma probabilmente era tornata a casa. Io, ovviamente non ci credetti. Non si interrompe così, senza motivo, una corsa tra mosche.
Di Myra non seppi più nulla.
All’aeroporto di Yaoundé, qualche giorno dopo in attesa di imbarcarci, la guida che aveva organizzato il viaggio, mi disse tutto serio che quella ‘non era cosa bella’. Lui non doveva essere stato troppo contento per quel gioco con mosche. Poteva essere venuto giù arrabbiato da montagne ed erano guai.
«Lui chi?» gli chiesi io stupito.
«Ba’ al Zebub, Signore delle Mosche. Lui è dio della carne che va a male, che è putrefacente. Lui è Signore di tutte le Mosche e dei Morti. Non vuole si faccia gioco blasfemo. Lui scende da montagna e porta via con sé chi disobbedisce…» ribadì facendo il gesto con le mani di una cosa trascinata via.
«Ba’ al Zebub?» ripetei io cercando di comprendere al meglio quello che avevo appena sentito.
«Sì… come dite voi in Italia?… Ah sì… Belzebù.»