Non si era accorto che la sveglia, la prima volta che aveva suonato, l’aveva spenta nel sonno. Così, quando si ridestò di soprassalto, era davvero tardi.
Fece colazione rapidamente e infilandosi nel bagno cominciò a pensare a quale scusa inventarsi in ufficio. Poi, lavandosi il viso, sentì che la fedina era sgusciata dal dito e stava rotolando nel lavandino. Fece un paio di tentativi con gli occhi ancora chiusi per il sapone per intercettare l’anello, ma gli svicolò tra le dita e finì nello scarico. Si sentì perduto: se fosse uscito senza fedina al suo ritorno la moglie avrebbe avuto una ragione in più per litigare, se avesse cercato di recuperarla avrebbe accumulato un ritardo ingiustificabile. Optò per recuperare l’anello, anche perché, se fosse caduto dentro il sifone, sarebbe bastato smontarlo e avrebbe fatto presto.
Andò a prendere la pila per illuminare meglio il tubo di scarico e subito scorse luccicare la fedina a mezza via. Prese un ferro da calza dal cestino della lana della moglie e cominciò a rovistare. Per un paio di volte gli sembrò persino di essere riuscito ad agganciarla, per spingerla o tirarla a sé, ma l’anello all’ultimo momento gli scappava sempre via per fermarsi sempre allo stesso punto. Poi si accorse di non vederlo più. Forse la fedina era finalmente caduta. Azionò il pulsante della pila per avere una luce più bianca, quando vide che il fondo scuro del tubo si stava muovendo. Un occhio si spalancò all’improvviso su di lui. Lo scrutava fisso, senza timore, con aria interrogativa, come se fosse stato anche lui appena svegliato da un sonno profondo e si chiedesse chi lo avesse potuto disturbare. Lui fece un balzo indietro, con il cuore che si era messo a battere all’impazzata. Non poteva aver davvero visto un occhio; non lì dentro. Forse, tutto sommato, era meglio andarsene, avrebbe potuto trovare una scusa anche con la moglie. La curiosità ebbe però il sopravvento. Si riavvicinò con cautela e indirizzò il fascio di luce di nuovo sulla verticale del tubo per vedere meglio: non c’era nessun occhio. Solo il suo anello che ora sembrava più vicino. Forse aveva solo intravisto il suo stesso occhio riflesso nell’acqua dello scarico. Sì, non poteva che essere così. Insistette ad armeggiare con il ferro da calza; la fedina si muoveva e ricadeva, si muoveva e ricadeva. E poi, quando stava oramai per disperare, l’occhio gli si sbarrò davanti. Questa volta era torvo, severo, arrabbiato. E non era davvero il suo. Istintivamente girò il ferro dalla parte della punta e lo calò più volte verso il basso con tutta la forza che aveva. Colpì e colpì più volte tanto che il ferro rimase finanche conficcato in quella sostanza da cui fece fatica a estrarlo. E dopo che l’ebbe finalmente estratto un fiotto di liquido rosso/marrone risalì dal tubo a coprire il fondo del lavandino; e, mentre quel liquido dall’odore nauseabondo copriva di qualche centimetro la vaschetta, l’impianto iniziò a tremare come se si volesse scardinare dal muro. Poi tutto cessò e il lavandino si svuotò di colpo.
Rimase fermo, in silenzio. Si sentiva confuso e spaventato, ma non voleva mollare. Quella cosa comunque doveva essere morta. Ne era sicuro. Diresse con precauzione il fascio di luce nel tubo per vedere cosa fosse successo; con sorpresa si accorse che l’occhio invece era però sempre lì: aperto, vigile, carico di odio. Lui rapidamente afferrò allora da sotto il lavandino una confezione di varechina pura e la svuotò nel lavello. L’impianto vibrò come in un terremoto. Si staccarono persino alcune piastrelle e cadde un po’ di intonaco. Ancora una volta, dopo diversi minuti, tutto cessò. E l’anello di lì a poco fu sputato fuori dal buco di scarico a roteare nel lavandino come una pallina da roulette e, prima che ricadesse all’interno del tubo, lo afferrò al volo. Rimase a quel punto incerto sul da farsi. Aveva ottenuto quello che voleva. Forse se avesse fatto presto a vestirsi avrebbe potuto contenere il ritardo. Al diavolo quella cosa che c’era là sotto. Per quel che ne sapeva lui poteva anche essere al piano inferiore e non lo riguardava.
Ma all’improvviso dal buco di scarico uscì un bastone scuro, nodoso. No, non era un bastone. Osservò meglio. Era un dito ossuto. Anzi erano più dita ossute che si aprirono a ventaglio a far presa sulla ceramica bianca. Una sostanza scura e gelatinosa uscì contemporaneamente anche dal rubinetto e dal buco del troppopieno e si espandeva in progressione sotto il suo sguardo attonito. Il lavandino prese a incrinarsi, il tubo di mandata scoppiò e l’acqua sgorgò copiosamente. Lui continuò a fissare il lavello senza riuscire a muoversi fino a quando l’impianto non si spaccò in due.
E poi fu troppo tardi per scappare.
Archivi tag: bagno
Il risveglio
Il risveglio era ogni giorno più penoso. Il sonno era diventato da qualche anno intermittente e scarsamente riposante. Colpa delle apnee notturne che lo svegliavano di continuo lasciandolo in preda al panico per la sensazione di soffocare. Ora Pigi era davanti allo specchio del bagno a chiedersi chi fosse mai quella persona che vedeva riflessa. La sua pelle non era più tesa come una volta e la barba si mostrava biancastra con qualche disillusione di troppo a segnargli gli angoli della bocca. Chiuse gli occhi e il sonno gli si irradiò dalle palpebre come una ragnatela appiccicosa che lo stordì. Cercò lo spazzolino brancicando nella penombra: riuscì solo a far cadere il bicchiere di plastica con dentro il dentifricio, il pettine e chissà cos’altro. Gli oggetti rimbalzarono sulle piastrelle con un rumore insopportabile come se non si fossero persi in quella stanza, ma in un mondo sommerso e irraggiungibile. Si risolse ad accendere a malincuore la luce per recuperare tutti gli oggetti caduti: li ritrovò a fatica tranne il tubetto del dentifricio, mezzo spremuto, rotolato fin dietro al water. A carponi, con le ginocchia a contatto del pavimento gelido, realizzò che, a dar retta ai segnali che il suo corpo gli mandava, sarebbe dovuto tornare a letto. Invece prese a lavarsi, come un automa, accorgendosi di lì a poco che l’acqua non scendeva nello scarico. Qualcosa era scivolato dal bicchiere nel lavabo otturandolo. Aspettò con pazienza che si svuotasse, imprecando tra sé e sé su come fosse iniziata male quella giornata; poi vide che dal buco stava facendo capolino quello che gli pareva essere un grosso verme grigio che si contorceva su se stesso. Guardò meglio. No, era un dito. Un indice affilato, ossuto, che saggiava la consistenza del fondo del lavandino attorno all’apertura. L’unghia era lunga, violacea, in parte rialzata e tastava con insistenza e proditoria sicurezza. La reazione di Pigi fu immediata quanto irrazionale: impugnando lo spazzolino come un coltello picchiò duramente su quel dito fino a farlo rientrare da dove era venuto. Dopo pochi secondi, inaspettatamente, fuoriuscirono però un indice e un medio che subito afferrarono il manico dello spazzolino ingaggiando con l’uomo un tira e molla furioso. Nonostante gli sforzi prolungati Pigi perse la presa e lo spazzolino sparì all’interno dello scarico. L’uomo rimase senza fiato, con la paura che gli irrigidiva braccia e gambe. Si sporse pian piano verso il centro del lavandino per vedere dove lo spazzolino fosse andato a finire, ma vide distintamente un occhio che dal fondo del tubo lo guardava esterrefatto. Sostenne lo sguardo quasi si aspettasse di avere una spiegazione. Quindi, svelto, andò nello sgabuzzino da dove tornò con un flacone da cinque litri ancora chiuso di candeggina che subito riversò pura, sino all’ultima goccia, sull’occhio spalancato. Il lavandino prese a tremare e a scuotersi violentemente tanto che, pensando sarebbe caduto a terra, decise di abbracciarlo con tutto il corpo per sorreggerlo. Si sentirono ribollimenti e indefinibili mugolii. Poi tutto tacque. Pigi si sporse con cautela per controllare cosa fosse accaduto. L’occhio non c’era più.