L’urlo pietrificato

urlo - pietrificato«Ho sempre meno forze, fra qualche anno non mi sarà più possibile salire lassù.» L’uomo era entrato nella capanna che Hans utilizzava per il deposito degli attrezzi. Lui l’aveva sentito arrivare ma continuava a riparare un rastrello.
«Allora, non dici niente, Hans?» fece Peter dopo un po’, esasperato.
«Cosa vuoi che ti dica?» fece girandosi all’improvviso. «Te l’ho detto tante volte, non ci si può arrivare lassù, è impossibile e poi non c’è niente, lo sanno tutti.»
«Non è vero che non c’è niente. Quando c’è il vento a favore da lassù provengono canti, senza contare le luci… ci sono un sacco di luci, Hans.»
«Macché luci, a quell’altezza ci sono temporali e quelli che si vedono sono solo fulmini, mentre i canti, come li chiami tu, sono il prodotto del vento che fischia tra le rocce…»
«Ma come spieghi allora il fatto che nessuno sia mai riuscito ad andarci e quantomeno a ritornare vivo?»
«Appunto, Peter, e ci dobbiamo andare proprio noi? È una cima maledetta, quella, bisogna lasciarla stare.»
«Ti prego Hans.»
«Perché non ci vai da solo?»
«Perché solo in due possiamo avere una qualche chance…»

A mezzogiorno i due erano già in parete sullo spigolo nord dell’Urlo pietrificato, quello meno battuto dal vento. Peter non smetteva di guardare la cima.
«È inutile che la fissi… tanto quella nebbia non se ne va via mai» gli fece Hans ammirando invece il panorama.
L’urlo pietrificato era così. Un cappuccio impenetrabile di nebbia fitta e oscurante che faceva perdere l’orientamento a chiunque vi entrasse. Gli ultimi cento metri erano nell’oscurità più totale. Non funzionavano pile, telefonini, GPS. Persino le torce a fiamma si spegnevano. Insomma, eri solo tu: la tua paura e la roccia.

Era passata circa mezz’ora quando Hans mise un piede in fallo e cadde per diversi metri. Peter fece appena in tempo a reggere il contraccolpo e a tenersi alla parete. Hans sbatté malamente il malleolo.
«Non posso proseguire» gli disse quando Peter lo raggiunse.
«Io devo andare» fece Peter senza esitazione, guardandolo fisso negli occhi.
«Lo so» gli rispose.
Si sganciarono. «Ti vengo a riprendere al ritorno» gli fece Peter dandogli una pacca sulla spalla. E proseguì.

Al limitare del cappuccio di nebbia Peter ebbe un attimo di esitazione. Ma poi entrò nella coltre. Gli prese subito un gran freddo. Il buio era assoluto, avvolgente. Sembrava essere entrato nella gola di un mostro preistorico. Ebbe un senso di stordimento non riuscendo più a capire la direzione da prendere, né in realtà da dove era appena venuto. Il disorientamento era totale senza contare che non vedeva più nulla. Anche il silenzio era come sospeso, opprimente, sottovuoto. Sentiva forte solo il battito del proprio cuore.
Si fermò. Era difficile persino capire quanto tempo fosse passato. Si accorse che stava piangendo e che aveva involontariamente iniziato a pregare come non faceva più da quando era ragazzo. Capì che era arrivata la sua ora.
Poi decise di muoversi. Doveva farlo. Il terreno di lì a poco si era fatto meno scosceso e gli appigli sembravano cercare le sue mani. Salì e salì fino a quando si trovò su un pianoro. Il buio si era rarefatto, così come la nebbia. C’era pace tutt’attorno e il silenzio si era come vestito di un colore diverso.
Poi d’un lato vide tre persone o almeno quelle che sembravano tali: erano inginocchiate, a capo chino, cantavano. Uno di loro si voltò verso di lui e fece una faccia sbalordita nell’accorgersi che dietro di loro ci fosse qualcuno. Le tre persone cominciarono a illuminarsi fino a diventare accecanti. E Peter svenne dal dolore.

«Allora sei riuscito a salire fin su?» gli chiese Hans contento di rivedere l’amico che stava tornando. Peter annuì.
«E cosa c’è?»
«Nulla» fece Peter riagganciando il suo moschettone alla corda comune.
«Te l’avevo detto» fece Hans provando a saggiare il terreno con il piede che gli faceva ancora male. «Speriamo di arrivare prima di cena. Stasera c’è la partita in tv.»

Sono sempre qui

universoSì, d’accordo. Essere Onnipotente è una gran cosa. Una bella sensazione non c’è niente da dire. Ma la verità è che non so mai che fare. Qui il tempo non passa mai. Anzi, il tempo proprio non esiste. E poi con ‘sta storia che il passato e il futuro si fondono in un unico presente mi diventa tutto così scontato, così prevedibile, insomma un immutabile film già visto e già vissuto.
E poi non so con chi parlare. Gli Angeli svolazzano in continuazione da ogni parte nell’Universo, infervorati come sono di dare sempre il meglio di sé, di essere efficienti e produttivi; sono così pieni di impegni che non trovano mai un momento per fare due chiacchiere. Sono agitati, iperattivi, irrequieti, lasciano piume dappertutto e quando sono interrogati rispondono a monosillabi. E poi sono di un buonismo esasperante, tanto che non è mai possibile poter sgarrare nemmeno per scherzo sicché devo sempre controllarmi quando sono con loro. Peraltro, ultimamente, li trovo pure particolarmente nervosi: sarà per il troppo lavoro o per l’orario massacrante o, piuttosto, per il fatto di non essersi mai ripresi del tutto dal disturbo post traumatico da stress del Big Bang; si sono spaventati davvero molto: mi sa che un giorno o l’altro me li trovo tutti a terra, in terapia di gruppo.
Con Lucifero non ci parlo più da un pezzo. Incompatibilità di carattere. Lui ha fatto le sue scelte e Io le mie e non mi pare il caso di tornarci su. Inoltre non si capisce mai nulla di quello che dice, con tutti quegli sbuffi di fuoco e di fumo che gli escono di continuo dalla bocca. Che poi parlare di bocca, in questo caso, mi sembra pure una parola grossa.
Con gli uomini, invece, è sempre più difficile avere un dialogo. Appena mi faccio vivo si mettono subito, come pazzi, a costruire santuari, cattedrali e statue gigantesche; e un mucchio di gente mi diventa santa dalla sera alla mattina sicché ho dovuto creare un’ala nuova in Paradiso… E poi che mai dovrei ancora dir loro? In fondo ho già detto tutto: tanto poi loro fanno quello che vogliono.
Che cosa mi è venuto in mente di creare l’Uomo non si sa. Ho passato i miei primi 15 miliardi di anni in totale beatitudine. Poi la voglia di novità mi ha spinto a questa nuova avventura che mi ha dato solo problemi. Ci ho perso pure un Figlio; che, a dirla tutta, da quando è resuscitato, non è più lo stesso: è sempre taciturno, solitario, introverso e ha una pessima cera. Comunque, ora sarei tentato davvero di lasciar cuocere gli uomini nel loro brodo che tanto, se continuano così a non ascoltarmi, ci penseranno da soli a estinguersi.
Tornando a Me, mi ricordo che una volta, giusto per ingannare l’eternità, mi sono messo a contare le stelle; che per poco non mi addormento. E dire che non so neppure immaginarmi cosa potrebbe accadere se mi mettessi davvero a dormire pur se solo per qualche attimo: anche se, presumo, tutto dovrebbe funzionare lo stesso. O forse no. Il mio futuro-presente a volte inciampa nel mio presente-passato e succede che faccio confusione tra ciò che è successo e ciò che deve ancora accadere. Per quanto, a pensarci bene, se si dovessero scontrare galassie e collassare mondi a chi dovrei renderne conto? Posso sempre ricominciare tutto d’accapo, da qualche altra parte. Un po’ di spazio e dell’altro buon materiale lo trovo sempre.
Comunque, contando le stelle, dicevo, ero appena arrivato a quattrocento trilioni e cinque che mi sono distratto e ho perso il conto. E allora mi sono domandato se valeva poi davvero la pena crearne così tante; di stelle dico; senza contare i pianeti, gli ammassi stellari, la materia oscura, le comete e i buchi neri; e soprattutto creare le stelle così tanto lontane le une dalle altre, che nessuno le potrà vedere mai.
Va bene, ora però è tardi. Basta parlare da solo.
Ci tenevo solo a sottolineare che se qualcuno volesse parlare con Me, ebbene Io ci sono.
Sono qui.
Sono sempre qui.
[space]

attenzione
[space]
Leggi, sullo stesso tema, –> Da qualche parte nell’Universo

 

[space]
hat_gy

Questo racconto è stato inserito nella lista degli Over 100.
Scopri cosa vuol dire –> Gli Over 100
 

Sulla tomba di San Properzio

I pastori, di ritorno dalla Malga Granda, erano stati chiari: dalla tomba di san Properzio provenivano forti luci con scoppi e fiamme. Un gruppo di contadini coraggiosi si erano spinti, fin lassù, armati di forche e zappe, risoluti a capire cosa stesse minacciando il loro patrono. Ma erano ridiscesi in gran fretta, terrorizzati, per quello che pensavano di aver visto o temevano che ci fosse stato. ‘Ci ha fatto tana il Diavolo! Ci ha fatto tana il Diavolo’ andavano ripetendo per le vie del paese, cosicché una grande inquietudine serpeggiò in quei giorni nelle case. Il Priore decise al fine di interpellare il Signore di Collefili: ser Giangualberto degli Espinoza che accondiscese volentieri all’alto incarico di liberare il contado dalla presenza del Maligno.
«Ti servirà a poco quest’armatura e questa spada, o mio Signore, contro cotanto nemico» lo ammonì il curato accostandosi al cavaliere pronto per partire.
«Non ascoltare questo menagramo nerovestito» rassicurò il Priore scostando il prete. «La tua corazza è benedetta e nulla avrai dai temere.»
Ser Giangualberto, che nulla aveva da temere, s’inerpicò allora fiducioso per la Malga Granda fino a quando non arrivò in vista del sepolcro del santo miracoloso. Vi trovò un giovane avvolto in una luce accecante.
«Chi sei?» fece tonitruante il cavaliere sguainando la spada.
«L’Arcangelo Gabriele» rispose quello sorridente. «Ho saputo che accadevano fatti strani attorno a queste venerabile spoglie e sono venuto a controllare. E feci bene perché su questa lapide è impressa l’orma, ancora calda, dello zoccolo del Maligno. Voleva con evidenza distruggere la tomba di Properzio e vanificare in questo modo la protezione divina sulla Valle.»
Ser Giangualberto si sentì sollevato. Da qualche tempo era stanco di tutte quelle tenzoni in cui finiva per essere, suo malgrado, coinvolto.
«Dividi con me questo pane» lo invitò l’Angelo.
Il nobile rinfoderò la spada e si cavò l’elmo: ‘è davvero bellissima questa creatura celestiale’, pensò mentre si sedeva, non senza trepidazione,‘dalla sua figura promanano serenità e armonia’. Raccolse dalle sue dita il pane e lo portò con trasporto alla bocca come fosse un’ostia e quella una comunione.
«Sei stanco, mio nobile amico» commentò l’Angelo scrutandogli il volto.
«Sapessi com’è faticoso essere un cavaliere senza macchia e senza paura!»
«È faticoso anche fare l’Arcangelo Gabriele, se è per questo.»
Il cavaliere sorrise, l’Angelo pure.
«Siamo uguali, dunque, io e te» mormorò il nobile.
Poi d’improvviso, la luce accecante si spense e il cielo si rabbuiò.
«Non credo» rispose il Maligno e gli divorò l’anima.