Codice giallo

busDa qualche giorno il servizio era peggiorato. Per colpa dei lavori alla tranvia, il bus passava in modo discontinuo, senza rispettare gli orari. A volta si aspettava mezz’ora e anche più e poi si vedevano arrivare tre autobus, tutte assieme, della stessa linea.
Andrea stava passeggiando nervoso avanti e indietro nella piazzola oramai gremita di gente. Guardò l’orologio. Se avesse potuto immaginare quell’ennesimo ritardo avrebbe potuto trattenersi in ufficio: con quello che aveva da fare! Eppure, dando un’occhiata alla tangenziale, sembrava che la strada fosse libera. Un’ambulanza stava infatti procedendo spedita verso nord senza fare slalom o avere rallentamenti. Diede un calcio a un sassolino innocente. Si era ripromesso mille volte di usare, in alternativa, l’auto o la bicicletta o comprarsi addirittura un motorino, ma poi finiva sempre, per pigrizia, per riprendere l’autobus.
Intanto l’ambulanza, anziché procedere per lo svincolo, dopo aver percorso la rotonda dell’aeroporto, sbucò all’improvviso sul rettilineo. Il suono della sirena, amplificato dalla via stretta e dalle case addossate le une all’altra per farsi coraggio, arrivò come una sciabolata sulle orecchie degli astanti; le macchine si accostarono per l’imperiosità di quell’incedere che non ammetteva tentennamenti. Arrivata all’altezza della fermata, l’ambulanza sembrò voler accelerare quando all’improvviso si arrestò con uno stridio sgradevole di freni. Le portiere a scorrimento si aprirono di scatto e due infermieri, uno tozzo e nerboruto e l’altro allampanato e gli occhiali spessi, ne scesero con la rapidità di un commando. Fecero slittare la barella che rimbalzò sull’asfalto più volte; si misero a correre tirandosela dietro.
«Venga, si sdrai» ordinò l’uomo muscoloso fermandosi proprio davanti ad Andrea.
«Come dice?» fece lui sporgendosi un poco in avanti come se gli avessero chiesto un’indicazione assurda.
«Le ho detto, per cortesia, di sdraiarsi sulla lettiga, così possiamo ripartire…» ribadì l’uomo, con piglio gelido e risoluto, indicando l’evidenza del lettino davanti a lui. Il barelliere allampanato si guardava invece attorno, come si trovasse lì per caso e non volesse immischiarsi; la scena, quasi fosse quella di un noto telefilm di avventure, stava avvenendo ora sotto gli occhi attenti di tutte le persone in attesa.
«Guardi che ci deve essere un errore, io sto benissimo» rispose Andrea sulla difensiva agitandogli davanti il palmo aperto della mano per fermarne l’irruenza.
«Nessun errore: questa è via Torre degli Agli, 15, lei si chiama Andrea Tranquilli, dirigente, sui sessanta non portati benissimo; abita in centro, incarnato piuttosto pallido… nausea, lieve tachicardia, pressione alta… devo continuare?»
«Non sono affatto pallido e non ho la pressione alta… ma insomma mi lasci in pace…»
In quel mentre uscì dall’ambulanza una giovane donna, camice immacolato e stetoscopio attorno al collo. Sembrava avvicinarsi al rallentatore, i capelli ricci e bruni svolazzavano serici nell’aria, lo sguardo penetrante di una persona sicura di sé.
«Dottoressa, il paziente non vuole collaborare…» le fece l’infermiere nerboruto facendo un passo verso di lei. La donna si avvicinò e senza dire una parola controllò gli occhi di Andrea e gli sentì il polso.
«Non le gira la testa?» chiese con una voce calda e morbida.
«In effetti… forse un pochino, ma che c’entra, chi vi ha mandato?»
«Si segga un attimo qui, per favore» le disse lei accompagnandolo docilmente alla barella.
In un attimo gli sbottonarono la camicia sistemando ventose e fili che collegarono a uno scatolotto tempestato di spie luminose che ben presto partorì un lungo scontrino pieno di dati. La dottoressa lo visionò con attenzione e poi scosse la testa.
«Bisogna fare presto…» sentenziò guardando l’infermiere nerboruto. «Portatelo subito dentro.»
«Ma perché, cos’ho?» chiese Andrea con una voce che gli era uscita in falsetto.
«Non le si sta forse annebbiando la vista?» chiese la dottoressa con un tono che non pareva una domanda.
«Forse un po’…»
In un attimo l’ambulanza ingoiò Andrea e la barella e i due portelloni slittarono di lato chiudendosi con lo slancio di una trappola per orsi.
«Codice verde?» chiese l’allampanato rivolgendosi alla dottoressa da sopra le lenti fortemente graduate. «Il call center lo vuole sapere.»
«Macché verde… codice giallo, dica: c-o-d-i-c-e  g-i-a-l-l-o e facciamo presto, per carità.»
L’ambulanza schizzò in avanti con la sirena che dilaniò l’aria circostante. All’incrocio tirò dritto nonostante il semaforo rosso e una vecchietta sorda che avanzava sulle strisce pedonali con un treppiede.
Proprio mentre dal fondo della strada, lentamente, stavano arrivando tre autobus della stessa linea.

Citycar

La citycar scivolava silenziosa nel traffico. Arrivò ad accostarsi alle strisce pedonali senza fare rumore come avesse finito la benzina e il motore si fosse spento. L’uomo al volante sembrava impietrito: la sguardo fisso davanti a sé, regolato sul nulla, le mani strette a pugno sulle razze, le labbra contratte. La donna che in quel momento stava attraversando il viale, arrivata all’altezza dell’ombra della vettura, si fermò a guardare il conducente. Nei suoi occhi c’era disperazione, cupa nostalgia, dolori irrisolti e la donna non ebbe il coraggio di muoversi, né di tornare indietro come se quella disperazione e quel dolore stessero travasandosi nel suo animo in una sorta di inarrestabile contagio emotivo. Il semaforo nel frattempo proiettò luce verde e un’altra macchina si accodò alla citycar rimasta ferma. Il giovane al volante stava per suonare il clacson, ma poi scorse la donna in piedi a un terzo della strada che osservava l’uomo della citycar. Il corpo di lei esprimeva una indecisione innaturale, un dubbio lacerante, un timore ondivago per scelte di vita non più rimediabili. Il giovane si sentì a disagio, turbato, fuori posto e desistette; si limitò solo a spegnere la radio accorgendosi così che si stava irradiando da quel punto un silenzio malato a coprire i frastuoni della città in un’ondata lenta di vernice trasparente di tristezza e malinconia. A quella macchina se ne aggiunsero via via delle altre, a quella donna si aggiunsero via via altre persone come si fossero fermate a riflettere o aspettare o per cercare di capire. Pian piano tutto il traffico si bloccò per centinaia di metri nell’una e nell’altra direzione: la gente se ne ristette immobile, in buon ordine, sui marciapiedi e sulla strada, a guardare quell’unico punto iniziale da cui tutto era cominciato. Passò un tempo infinito, sospeso, inafferrabile, dove l’unica unità di misura era il battito del cuore di ognuno.
Poi la citycar ripartì.