L’autobus procedeva lentamente nonostante la strada fosse libera. Buttai un occhio sull’orologio dell’obliteratrice. No, non era tardi. Ero solo nervoso per la giornata impegnativa che mi aspettava. Ero seduto come al mio solito sul primo sedile di destra e potevo vedere bene dalla mia posizione rialzata sia l’autista di lato che davanti a me. No, non c’era davvero bisogno di andare così piano, pensai, ma a volte lo fanno per ristabilire i tempi alle singole fermate o per mantenere le equidistanze con le vetture che precedono o che seguono sulla stessa linea in modo da mantenere il servizio fluido e continuativo. Come del resto accade al contrario, pensai ancora: che, per recuperare i tempi, corrano come forsennati tagliando le rotonde o passando con il semaforo proiettante luce gialla. Oramai, essendo un pendolare da anni, non ci facevo più caso. O mi sforzavo di non farci più caso.
Giunto davanti al Palazzo delle Esposizioni, nonostante non vi fosse alcuna fermata, il bus si arrestò. Ne salì un uomo sulla settantina, una t-shirt con su scritto “Bacio chi mi pare…”, una pancia prominente che gliela accorciava sull’ombelico e i capelli brillantinati tirati con cura all’indietro sul cranio; un modo di fare sicuro di sé, venato di malcelata indisponenza, tipico di un controllore se non fosse stato per i vestiti, pensai. E, invece di inoltrarsi all’interno della vettura, si fermò accanto all’autista che, pur richiudendo le porte, non accennava a voler ripartire.
«Allora testina… cosa vogliamo fare? Vuoi alzare le chiappe di lì o dobbiamo rimanere fermi tutto il giorno?» gli disse in malo modo l’uomo con la t-shirt.
L’autista sembrava imbalsamato; gli occhi erano direzionati verso il fondo del rettilineo; probabilmente la visione era regolata su un punto che si posizionava tra un aereo che si sta librando in lontananza nel cielo e l’infinito; poi fece una smorfia e, con un gesto di contenuta insofferenza, si alzò aprendo il recinto della cabina di guida.
«Ce ne hai messo di tempo…» fece l’uomo con la t-shirt dandogli una manata su una spalla. «Va là che sei proprio un bel perdabal, di quelli duri però, pirla d’un pirla.»
L’uomo con la t-shirt scostò l’autista con un braccio per accelerare lo scambio e si mise alla guida; si aggiustò la poltrona e il cruscotto e ripartì. L’autista era rimasto in piedi, vicino a lui e a testa bassa: non sapeva dove guardare.
Il bus percorse a un’andatura normale quasi un chilometro per poi fermarsi davanti a un bar fuori dal percorso.
«Ciao, allora, testina…» apostrofò l’uomo con la t-shirt alzandosi dalla poltrona di guida e scendendo dal bus senza neppure voltarsi. L’autista non contraccambiò il saluto e, come se si fosse finalmente tolto un peso dal cuore, riprese il suo posto. Chiuse le porte e si rimise in movimento.
«Un bel tipino…» mi sentii di commentare dopo qualche minuto.
«Chi? Quel signore di prima?» mi chiese controvoglia lui facendo finta di non capire di chi parlassi.
«Già…»
«È che non si fida di come guido. Così quando deve andare a giocare a briscola vuole guidare lui…»
«Ma non è un tantino irregolare?» osservai io.
«Irregolare?» domandò con un tono come se stesse soppesando il valore di quella parola. «Beh, sì forse… non saprei. Piuttosto, vede, è che io ho sposato sua figlia e viviamo in casa sua, come non dimentica mai di ricordarmi tutti i giorni; e pure in due piccole stanze, con mio figlio di due anni. Con il mio stipendio e il costo elevato degli affitti non mi posso permettere altro…»
«Capisco…»
«Ma è una gran brava persona, sa? Generosa, comprensiva, un nonno amorevole…» precisò come per convincersi.
«E guida anche bene…» considerai io, sincero, per compiacerlo.
«Vero? E, pensi, non ha neppure la patente.»
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