L’Uomo dei funghi

Era giorno di fiera antiquaria. La gente si assiepava sotto il portico antico facendosi largo per cercare di passare o per guardare meglio la merce disposta in modo ordinato sulle bancarelle. La pioggia, che era iniziata a scendere all’improvviso, aveva aumentato l’afflusso delle persone senza l’ombrello alla ricerca di un riparo mentre l’umidità dispensava i profumi dagli stand in piazza che vendevano vin brulé e strudel.
«Li comprerebbe un po’ di funghi freschi?» disse l’uomo in stivali e giacca di velluto.
Il cameriere stava stendendo la tovaglia colorata sui tavoli davanti al ristorante; cercava vanamente di appianare la piega antiestetica che ci passava giusto in mezzo. Udita la voce squadrò prima l’uomo che sfoderava un sorriso piacevole poi il canestro appeso al suo braccio ricolmo di funghi di varia grandezza.
«Aspetti che le chiamo qualcuno…» fece il cameriere che realizzò subito essere quello l’unico modo per levarselo dai piedi.
Dopo qualche minuto uscì dal ristorante un uomo con in testa il cappello da chef e sopra il naso alla John Lennon un paio di occhiali con lenti abbrunate. Diede una fuggevole un’occhiata all’Uomo dei funghi e quindi al suo paniere; prese delicatamente in mano un paio di boleti, ne osservò alla luce le lamelle e infine se li portò al naso; controllò quindi dentro al cesto con attenzione scostando altri funghi. Senza dire alcunché se non indecifrabili suoni gutturali l’uomo con il cappello da chef afferrò da un tavolo già imbandito un piatto fondo e, dopo aver posato la cesta sulla tovaglia, cominciò a fare una cernita. Alcuni funghi li metteva sul piatto, altri direttamente sulla tovaglia. La scelta era rapida, sicura, senza tentennamenti. Una volta esauriti i funghi della cesta, senza soluzione di continuità, ripose quelli che erano sul tavolo nella cesta; prese infine in mano il piatto che ora conteneva sette/otto bei funghi porcini e un ovulo.
«Mi segua» gli comandò avviandosi in cucina.
All’interno del locale, da una nicchia nel muro di pietra che sembrava fatta apposta per ospitare una bella scrivania dell’Ottocento su cui si allargava la luce soffice di una lampada Tiffany, sbucò un uomo elegante in giacca e cravatta che dopo aver scambiato un cenno con l’uomo co il cappello da chef, si mise alla cassa digitando qualche tasto; tirò fuori quindi delle banconote che allungò all’Uomo dei funghi.
«Va bene così?»
«Benissimo» fece l’uomo che non aveva abbandonato il suo sorriso.
Il titolare lo accompagnò gentilmente alla porta dicendogli che se ne trovava degli altri lui li avrebbe comprati senz’altro. Ma una volta usciti l’Uomo dei funghi si arrestò di colpo.
«Che succede?» gli fece il titolare.
«Mi hanno rubato la cesta con i funghi!»
«L’aveva lasciata lì fuori? Con tutta la gente che c’è oggi?»
L’uomo si girò e fece un’espressione disarmante.
«Mi spiace per la sua cesta, se ci teneva…» fece il titolare corrucciando la fronte «ma il ladro avrà delle sorprese.»
«In che senso?»
«Mi ha detto il sous-chef che i funghi che ha scartato erano tutti letali o quasi.»


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Emma

pioggia lucidaLa giornata di lavoro era stata molto faticosa. Mauro se ne stava seduto al ristorante, con il menu davanti, a rileggere per la quarta o quinta volta la stessa riga.
«Cosa le porto?» gli chiese un giovane cameriere, probabilmente lì da qualche minuto, deciso a farsi notare. Mauro voltò la testa verso quel viso volenteroso e decise di rinunciare a consultare il menu. Avrebbe voluto esprimersi a segni, tanto era stanco, ma poi ordinò: «Mi porti una margherita; con doppia mozzarella di bufala e una birra media, scura.»
Il cameriere appoggiò il lapis sul taccuino, poi fece solo un cenno del capo per poi spostarsi a un monitor che spuntava dalla pila di tovaglioli puliti come un fiore alieno; premette alcune icone e inviò l’ordine in cucina.
«Ti dico di no, Emma, sono da solo… i miei amici non sono voluti venire…»
La voce era quella di un uomo, seduto di schiena poco distante da lui: parlava al cellulare, a un tono così alto che era impossibile non ascoltare.
«Pensa, sono allo stesso tavolino che scegliemmo l’ultima volta che siamo stati qui. No, ora è tutto diverso: lo hanno rimesso a nuovo e non si mangia neppure male, dopo tutto…»
Nel frattempo il cameriere era tornato a portare la birra. Fece un’espressione come per dire ‘lo scusi, sa, ci vuole pazienza.’
«Non potrebbe parlare a volume più basso?» chiese Mauro sottovoce, quasi supplicando.
«Magari!» fece il cameriere e se ne andò.
«Cos’ho fatto oggi?» continuò l’uomo guardando fuori dall’ampia vetrata le luci colorate della città come se si rincorressero sul selciato lucido di pioggia. «Un mucchio di cose… ah, ho incontrato pure Gigi, giù al Parco. Ti saluta tanto e mi ha chiesto quando andiamo a trovarlo al mare… sì sì, al mare… no, non so… tu che dici? Sì, sono d’accordo, sono simpatici, sempre se non viene quel loro nipote pestifero… però non subito, direi fra qualche week-end, quando comincia a fare caldo…»
Mauro dava segni di impazienza. Il suo mal di testa lo stava torturando più del dovuto e quella voce lo picchiettava direttamente sulla tempia. La pizza era per fortuna nel frattempo arrivata ed ebbe l’effetto di rabbonirlo. L’uomo però continuava a raccontare alla moglie cosa avrebbe fatto l’indomani rassicurandola che l’avrebbe richiamata in serata e che al ritorno non si sarebbe dimenticato di portare la crostata di visciole che le piaceva tanto. Stava diventando fastidioso. A un certo punto sembrava voler riattaccare, ma poi ci ripensò iniziando a informarsi su cosa invece la donna avesse fatto in sua assenza. Mauro non ci vide più. Mollò rumorosamente coltello e forchetta sopra la pizza e si diresse deciso verso il suo problema: lo doveva affrontare. Quando gli fu davanti, si accorse però che era una persona molto anziana, gli occhi acquosi e un sorriso mielato. Appena i loro sguardi si incrociarono, l’uomo lo anticipò:
«Stavo parlando a voce troppo alta, vero? Mi scusi, sono mortificato. Me lo dice sempre mia moglie, da quarant’anni oramai, ma non riesco proprio ad accorgermene. È che ho insegnato per tanto tempo e in classe, se non urlavo, i miei ragazzi si distraevano. Mi scusi davvero tanto.»
E nel pronunciare queste frasi mostrò al suo interlocutore, come in una resa senza condizioni, i palmi aperti e vuoti. Sì, non aveva nessun telefonino in mano, né ce n’era sul tavolino, né vi erano tracce di microfoni o auricolari alle orecchie. Nulla di nulla. Mauro non seppe più che dire. Era sconcertato. Annuì per poi tornare, confuso, a posto. Trascorsero pochi secondi e poi sentì dire: «No no, niente, Emma, solo un seccatore, cosa mi stavi dicendo, allora?»

* * * * *

La storia minima ‘Emma’ è stata pubblicata, in via esclusiva, per la prima volta il 17 febbraio 2013 su:

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Il conto del ristorante

Pietro stava armeggiando con la moka: cercava di svitarla senza riuscirci.
«È questo cos’è?» fece la moglie giungendogli alle spalle con tono inquisitorio.
Lui si voltò; la moglie aveva un fogliettino in mano che sventolava all’altezza del naso come fosse un qualcosa che mandasse un pessimo odore.
«Che cos’è?» ripeté Pietro come un pappagallo imbambolato.
«Te lo dico io che cos’è! È la ricevuta di un ristorante della sera in cui mi hai detto che festeggiavate il vostro collega che andava in pensione. Solo che dovevate essere una ventina se non sbaglio, invece questo è il conto per due persone soltanto e pure in un locale romantico».
La moglie doveva aver frugato nella sua giacca. Pietro si morse le labbra per quell’errore imperdonabile. E dire che di solito ci stava attento.
«Vedi Carla,» cominciò lui prendendo un tono di voce suadente «questa tua gelosia ingiustificata mi addolora se non addirittura mi offende». Sapeva che fino a quando non avesse incrociato lo sguardo della moglie e avesse continuato a parlare sarebbe riuscito a cavarsela. «Posso spiegarti: quel conto l’ho raccolto dalla scrivania del mio collega, uno che quella famosa sera, appunto, non è venuto proprio perché impegnato in una serata galante; l’ho preso perché avevo bisogno di un pezzo di carta su cui appuntarmi una cosa poi, chissà perché, l’ho messo in tasca, così senza volerlo…» Poteva funzionare, pensò tra sé e sé soddisfatto. Alzò quindi gli occhi verso la moglie che però fissava un punto indefinito oltre la finestra, le braccia incrociate e un piede che tamburellava per terra. Il viso era contratto e pallido. I segnali non erano affatto buoni. Qualcosa era andato storto. Si fece coraggio e domandò:
«Non parli, tesoro?» chiese lui in modo esplorativo.
«Perché mi hai chiamato Carla? Chi è Carla?!?»

Rewind

Gianni era contento di aver trovato parcheggio, a quell’ora e in quella zona. Proprio un colpo di fortuna insperato.
«Dove stai andando così di corsa?» le chiese lei avendolo visto allungare il passo dopo aver chiuso la macchina.
«È che non ho prenotato, Helena…»
«Dici che non ci hanno lasciato il nostro tavolino preferito?»
«Questa è una serata speciale e potrebbe essere tutto pieno. E poi noi siamo in quattro.» All’improvviso lui non aveva più sentito dietro di sé il rumore dei suoi tacchi e si voltò.
«Come quattro? Cosa stai dicendo?» fece lei.
«Io, te e i ragazzi: Paula e Massimiliano.»
Helena e la figlia Paula lo guardarono stralunate.
«Se questo è il tuo modo di rimproverarmi perché non ti ho dato il figlio maschio che desideravi, trovo che sia di pessimo gusto. Hai scelto la serata giusta per le tue recriminazioni.» Il lampo negli occhi della moglie non ammetteva repliche. Gianni si guardò attorno spaesato e non disse più nulla fino al ristorante. Entrò e tenne la porta aperta alla moglie. Poi lei, vedendo che il marito si attardava gli chiese di pessimo umore:
«Ma cosa stai aspettando? Si può sapere?»
«Sto aspettando nostra figlia, Paula.»
Helena tornò indietro inviperita:
«Paula? Chi è Paula? Lo sai benissimo che non abbiamo figli… Questa sera vuoi proprio litigare…»
«Solito tavolo per due?» fece il cameriere cordiale appena vide entrare la coppia. «È accanto al caminetto, come sempre…»
Gianni entrò nel ristorante arrendevole, ma a testa bassa, poi, mentre la moglie andava a sedersi, l’avvertì che sarebbe andato a lavarsi le mani. Si lavò invece il viso, più volte, e con l’acqua fredda, rimanendo a fissarsi a lungo allo specchio. Poi entrò qualcuno con un vestito elegante e una cravatta chiassosa; lui si asciugò la faccia con una salvietta di carta e uscì subito. Ritornò nella sala e si sedette accanto a lei, ancora confuso.
«Meno male che almeno tu esisti, Helena.»
«Prego?» fece lei impietrita.
«Ma cosa fa?» disse a quel punto il cameriere prendendo delicatamente sottobraccio Gianni per farlo alzare. «Il suo posto è quello là» e indicò un tavolino apparecchiato per uno. La donna lo guardò andare via infastidita, proprio mentre al tavolo arrivava un uomo distinto con una cravatta strana.
«Tu non sai cosa è successo, caro…» bisbigliò lei imbarazzata. «Si è seduto qui per sbaglio un tizio. Mi ha fatto quasi paura, ti assicuro. Aveva una faccia…»