Destinazione

Aveva appena chiuso dietro di sé la porta di casa e già stava pensando a come programmare al meglio la sua giornata di lavoro. Scese i pochi gradini verso il cancello cercando di trovare alla luce debole delle scale la chiave giusta per aprirlo; fece infine le altre rampe e si trovò in strada. 
La pavimentazione era bagnata e qua e là pozzanghere scure non riuscivano a riflettere la luna piena che si era nascosta. Un sentore misto di profumi che vagheggiava nell’aria umida, gli fece credere, d’un tratto, che la primavera non poteva essere, dopo tutto, tanto lontana.
Prese a camminare velocemente; a quell’ora del mattino si sentiva solo lo scalpiccio delle sue scarpe come in un monotono audiolibro malfatto, mentre la sua ombra lo seguiva ossessiva sulle pareti di un palazzo, sul selciato della via che improvvisamente gli si apriva di lato, quando non si arrampicava sul portone serrato di una casa.
I pensieri gli si affollavano vispi man mano che la brezza lo svegliava; sì, c’era quella mail da inviare il cui contenuto gli si presentava a sprazzi nella mente, c’era quel discorso da finire per il pomeriggio e da rimodulare perché non molto efficace, c’era quella riunione per la settimana entrante senz’altro da confermare, viste le mutate condizioni di mercato.
Una macchina per la pulizia delle strade nell’incrociarlo spense lo spruzzatore dell’acqua per poi riprendere a zig zag nella via. Pensò come fosse strano che a quell’ora ci fossero così tanti mezzi per le più svariate attività che circolavano frenetici per la città deserta; ognuno con la sua voce particolare, ognuno con i suoi suoni improvvisi e scomposti, come animali preistorici che si richiamavano l’un l’altro nella giungla urbana, pronti a rifugiarsi nelle proprie inaccessibili tane alle prime luci dell’alba.
Controllò l’ora al telefonino. Lo faceva almeno due volte durante il percorso a piedi; una prima volta davanti al giornalaio, vicino alle poste, e una seconda davanti al chiosco per la rivendita del lampredotto; erano i suoi due punti di controllo, giusto per sapere se era in ritardo e sapersi regolare.
E quel mattino era in lieve anticipo e ciò nonostante aumentò ugualmente l’andatura. I pensieri ora gli si affollavano uno sull’altro e forse cominciavano a essere troppi tanto da esigere confusamente una pronta e sollecita definizione.
Giunto alla fine di viale Sorolla, dove c’era il cantiere per il rifacimento del marciapiede, di colpo si fermò. Era contro ogni logica farlo. Il tempo passava e l’ora della partenza del treno si avvicinava, lo sapeva bene. Doveva continuare e subito. Non era ammissibile perdere tempo. E invece se ne rimase lì, immobile e ritto, come uno di quei mezzi frenetici, che barrivano per le strade innocui, rimasto senza benzina; lo sguardo era davanti a sé, le dita della mano attorno la maniglia della borsa pesante.
Vide sopraggiungere come suo solito, con il passo da indossatore, l’uomo di colore, altissimo, magro, elegante.
Vide dalla sinistra, anche lei solita di quell’ora, la donna che, un po’ reclinata con il busto all’indietro, trascinava a fatica il suo trolley minuscolo come fosse di cemento.
Vide il consueto netturbino dall’ampio gesto di spazzata come avesse una falce in mano e stesse mietendo.
Doveva andare, cominciava a essere tardi. Si disse. Ma quanto tardi? Pensò. Forse se avesse tirato fuori il cellulare l’avrebbe saputo.
Scorse un operaio che andava di fretta fumando forse la prima sigaretta della giornata.
Passò una ragazza con una sciarpa spessa che le copriva bocca e naso mettendo in risalto uno sguardo curioso sul mondo.
Sentì il “suo” usignolo che gorgheggiava al di là del muro di una casa patrizia.
Il tempo si era fermato, quasi avesse consumato tutti i suoi secondi, sotto un cielo che cominciava ad aprirsi a sfumate note di azzurro chiaro.
Realizzò per la prima volta nella sua vita, che era sereno, senza più tutti quei pensieri che gli sgomitavano nel cuore. Era davvero in pace con se stesso e il mondo intero.
Non doveva più andare. No. Era già arrivato a destinazione.
Chiuse gli occhi. Si riempì i polmoni dei profumi della primavera. E lentamente si accasciò a terra.

Risveglio

Quell’insistente fischio nella testa aveva finito per svegliarlo. Era iniziato come un ronzio remoto, come se provenisse dalla stanza accanto. ‘Strano rumore’ aveva pensato nel sonno ‘qualcuno ha acceso la lavatrice nel cuore della notte’. Poi gli era parso che fosse una radio fuori sintonia, con sprazzi di parole o di suoni strappati all’etere. Il rumore si era fatto più aggressivo e rifugiandosi come uno scoiattolo spaventato nel suo cervello passando per la bocca spalancata. Nel suo nuovo riparo il rumore covò come un serpente feroce e gravido di rancore. Crebbe e crebbe ancora, agitandosi in modo scomposto, assestando colpi all’impazzata con una coda che ora aveva preso la forma di una sciabola rovente. Era il dolore. Acuto, devastante, soffocante in quella tana angusta nel fondo dell’abisso in cui si ritrovava scagliato. Provò a gridare, ma gli riuscì solo un rantolo informe. Cercò di muoversi, ma si sentì legato per un braccio e una gamba che sapeva essere lì solo come proseguimento del suo corpo. Si fece allora strada nella sua mente l’immagine della sua macchina che scivolava leggera nel buio, veloce come un rondone, libera dai vincoli della gravità e dalle banali forze fisiche del mondo. Una staccionata divelta alla fine di una curva maledetta e quel volo infinito nello spazio aperto, sotto un velo di stelle troppo bello per poterlo vedere per l’ultima volta. Ecco sì, un incidente. Era stato uno spaventoso incidente stradale che lo costringeva da più di un mese in quel letto di ospedale pieno di odori stantii. Aprì gli occhi alla ricerca di un filo di luce, ma era solo una diversa oscurità ad invadergli l’anima. E pianse, pianse a dirotto nel ricordarsi che il parabrezza gli era esploso in faccia cancellando in un attimo i suoi profondi occhi azzurri.