La pinolata di Werther

Ero seduto sotto il portico. Mi godevo l’ombra e gli effluvi stordenti di una generosa cascata di gelsomini quando una figura magrolina uscì inaspettatamente dalla sagoma del pioppo affacciandosi alla mia recinzione, la manina tesa sulla fronte per ripararsi del riverbero ancora forte del tardo pomeriggio. ‘Svaldi, il nipote di otto anni del mio vicino Nello, mi stava cercando in fondo al prato basso.
«‘Svaldi…» gli faccio voce «sono qui! Entra, il cancello è aperto.» Lui, obbediente, trotterellò dentro. Aveva una canottiera larga, cascante, non della sua misura, come di quelle di una volta, tutta fuori dai calzoni.
«Ciao.»
«Ciao, vieni, siediti.»
‘Svaldi appena può mi viene a trovare. La vita con il nonno non deve essere elettrizzante. Non ho mai saputo la vera storia dei suoi genitori. So che è tristissima e che un giorno o l’altro me la racconterà.
«Vuoi qualcosa di fresco?» gli chiedo mentre una ghiandaia sopra alla mia testa si lancia dal nido con il suo verso assordante.
«Tipo?»
«Potrei vedere se c’è ancora del gelato…»
Lui fa di sì con la testa, chiudendo un occhio per il riverbero. In realtà nel freezer ho una scorta di coppe alla pinolata che, il gelataio di Lughi, Werther, prepara in modo magistrale. E so che ‘Svaldi ne va matto. Di lì a poco, infatti, senza neppure prender fiato, si riempie la bocca a forza di cucchiaiate di gelato. La sua espressione è però indelebilmente malinconica.
«Buono, eh?»
Lui fa di sì con la testa, esagerando nel gesto, come spesso fanno i bambini. Poi, mentre ancora sta raschiando il fondo della coppa, mi domanda:
«Come fanno gli scoiattoli a sapere quando è arrivata la primavera, rinchiusi come sono nella loro tana?»
Forse l’associazione era stata gelato -> pinoli -> scoiattoli. Ma non indagai.
«Non saprei, ‘Svaldi, penso semplicemente che lo avvertano per istinto.»
«Uhmmm…» fa lui deluso «non ci credo.»
La ghiandaia nel frattempo era tornata. Aveva qualcosa nel becco ma non feci in tempo a veder meglio perché subito dopo sparì tra le foglie fitte della quercia.
«Hai ragione tu» dico assumendo un’aria pensosa. «Adesso che mi ricordo mi pare di aver letto da qualche parte che mettono fuori dal nido un pinolo. Dopo qualche minuto lo ritirano: se è freddo vuol dire che è inverno, se invece è a temperatura ambiente, è primavera.»
«Lo sapevo» fa lui gongolante. «Lo dico sempre, io: sono troppo avanti gli scoiattoli.»

Gusto cioccolato

Si era levato un vento fastidioso che in poco tempo aveva raffazzonato in cielo nubi scure raccolte alla rinfusa. L’uomo in canottiera verde militare, con pochi abili gesti, aveva riempito il carrello verticale con scatole fumanti di gelo e ora lo stava trascinando obliquo, con pronta leggerezza. Erano solo le sette del mattino, ma l’olezzo di selvatico dell’uomo avrebbe potuto già stordire un alce in amore. Schivò con abilità il cordolo del marciapiede, rasentò rapido la fiancata del furgone-frigo e si diresse spedito davanti al ristorante. La porta era chiusa. L’uomo, vibrando un sonoro calcio alla porta, urlò:
«E ALLORAAA?!?»
Di lì a poco un signore con un curioso naso affilato si affacciò dalla finestra tenendo la persiana sopra di sé come un tettuccio sotto cui ripararsi: «Mi scusi… scendo subito.»
«‘Scusi’ un beneamato caz….» masticò l’uomo rigirando le mani grosse sulle manopole del carrello come se stesse tenendo su di giri il motore. Il vento si rafforzava: si sentirono sbattere le porte del suo furgone e ripetutamente alcune ante di una finestrella dell’edificio di fronte, un vetro persino si ruppe, mentre l’ombrellone accanto lui, lasciato aperto, stava gemendo sotto la folata intensa.
«Mi scusi, ancora…» fece il proprietario imbrogliandosi nella ricerca della chiave giusta per aprire il suo locale. «Avevo mandato giù Carletto, mio figlio, doveva essere già qui, non capisco.»
L’operaio rispose qualcosa di assolutamente incomprensibile. Subito dopo, quasi transitando sopra le scarpe del gestore, entrò di volata scaricando davanti al bancone, in un sol colpo, i gelati e le cassate in una pila che prometteva di cadere anche solo a passarci accanto. «La prossima volta glieli mollo sull’uscio» biascicò l’uomo severo scodellando la fattura ciancicata.
«No, per carità, non lo dica neppure. Sparirebbero in un attimo prima ancora di squagliarsi.»
L’uomo in canottiera girò il carrello lisciandosi nervosamente la barba il che evocò un sinistro rumore di raspa. Il suo afrore riempì l’androne e saturò le narici del proprietario. Pareva che stesse pensando a qualcosa di feroce da dire, ma poi sbuffò: «Non lo dica a me. Ad ogni fine viaggio mi manca sempre qualcosa dal furgone.» Poi, prima che il ristoratore riprendesse a respirare, l’operaio risalì in cabina gettando il carrello nel posto lasciato libero dall’assenza dell’altro sedile, e ripartì sgommando.
Intanto Carletto, nascosto all’interno del furgone-frigo, per il freddo, aveva persino smesso di mangiar gelati, domandandosi come sarebbe potuto uscire di lì senza farsi scoprire.