L’Uomo che Nessuno Conosceva

yerkaLa sera precedente la maggior parte del paese aveva fatto un gita notturna al colle. Da lassù, in assenza di inquinamento luminoso, avrebbero visto il passaggio della cometa proprio nel momento dell’eclissi di luna. Se ne era parlato tanto negli ultimi tempi anche perché era la prima cometa dell’anno e avrebbe portato bene, dicevano. Lo spettacolo fu in effetti meraviglioso e un appassionato Fuzz Mansfield fu prodigo di spiegazioni su tutti i segreti della volta celeste. Nessun poteva immaginare cosa sarebbe successo di lì a qualche ora.
Nel cuore della notte, dopo che tutti già avevano da tempo fatto ritorno alle proprie case, si sentì un boato provenire dallo spazio profondo e subito dopo un rumore più vicino, leggero, come se sui tetti fosse caduta un’unica grande secchiata d’acqua. Molti si svegliarono scendendo in strada. Non sembrava fosse accaduto nulla di anormale se non fosse che, un po’ ovunque, sui rami degli alberi, sui lampioni, sui semafori, colava una sostanza gelatinosa rosata e trasparente che si appiccicava alle dita. Il cielo era scuro, anzi nero; le stelle non si vedevano più. Tornarono a dormire: fenomeni di quel genere non erano poi così tanto strani. E poi avrebbero aspettato la luce del giorno per capire meglio.
Chi si svegliò verso le sette per andare a lavorare si accorse però che qualcosa non andava.
«Dov’è il sole?» chiese il farmacista del paese girandosi su se stesso a braccia spiegate e mostrando a sua moglie quello che mancava.
«Gia! Dovrebbe essere l’alba» fece il suo vicino grattandosi la barba.
Si recarono tutti in piazza come per raccogliere le idee. Il faccendiere Brass Stenton, sempre risoluto nelle sue azioni, trascinò il proiettore usato di solito il 16 aprile per la festa del Saint Cross Party. Ci illuminavano il cielo perché lo vedessero dai paesi vicini e accorressero numerosi: un faro da 3000 lumen che avrebbe messo a fuoco a trecento metri di distanza l’occhio di un grillo che avesse cercato di nascondersi in un campo di grano. Lo accesero. E subito si vide sopra alle proprie teste una fitta rete di impalcature di legno; alcune vicine, altre più lontane, ma tutte sconnesse, venate e in parte schiodate. Erano incastrate l’una all’altra a creare una volta che abbracciava tutto lo spazio sopra di loro.
«Ma cos’è?» fece il sindaco ad alta voce.
Brass spaziava da una parte all’altra con il fascio di luce alla ricerca di una spiegazione e soprattutto del cielo. Ma non si vedeva nulla di diverso dalle impalcature. «Non c’è più il cielo!» fece disperato, dopo un po’, indicando un punto indefinito sulla sua verticale dove sarebbe dovuto essere e ci potessero essere dubbi di cosa stesse parlando.
«Il cielo è qui» fece l’Uomo che Nessuno Conosceva. E con la mano raccolse dal selciato un po’ di quella sostanza gelatinosa rosa che ancora stava colando dall’insegna del bar. «Il cielo si è rotto.»
«Come, si è rotto? Il cielo non si rompe!» fece Fuzz alzando la voce e gonfiando la vena sul collo.
«Ma allora le stelle che abbiamo visto ieri sera? La cometa? L’eclissi di luna?» chiese qualcuno.
«È tutto un’illusione. Non esiste nulla di tutto ciò!» fece l’Uomo Sconosciuto scuotendo la testa come fosse un dottore che avesse appena diagnosticato un tumore all’ultimo stadio.
«Ma cosa sta blaterando?» si alterò ancora di più Fazz andandogli vicino quasi volesse picchiarlo. «Sono un astronomo, io… non si permetta!»
«Guardate!» fece Brass dirigendo il fascio di luce da un lato. «C’è una scala!»
«Dove, dove?»
«A circa dieci metri di altezza, lassù, in quel punto!»
«Se prendiamo la mia gru a cestello possiamo arrivarci» lanciò l’idea Jim Karovitz.
In pochi minuti Jim fu di ritorno con la gru della sua impresa edile. Si scelse un gruppo di volontari per andare a ispezionare la scala e saperne di più su cosa fosse successo. Brass fu il primo a montare sul cestello, seguirono Jim, Fuzz e l’Uomo che Nessuno Conosceva.
«Ma cosa farete una volta che sarete sulla scala. Siete matti? Scendete di lì, è pericoloso» disse preoccupata la moglie di Karovitz cercando di trattenerlo per la maglia.
«Devono andare…» disse qualcuno. «Dobbiamo sapere!»
«Almeno prendi il cellulare» gli disse la moglie.
Il braccio della gru si avvicinò lentamente alla scala. Da vicino sembrava anch’essa di legno, come tutto il resto, ma poi si notò che le assi apparivano ancora più vecchie e fatiscenti. Dal cestello scese giù per primo Fuzz, con circospezione, seguito via via da tutti gli altri.
«Vedete qualcosa?» chiesero da terra con il telefonino.
«Poco» fece l’Uomo che Nessuno Conosceva. «Ma saliamo!»
«Ma cosa salite a fare? Torna giù, Jim» gli disse la moglie sempre più agitata «che soffri di vertigini.»
Gli uomini si avventurarono con determinazione sparendo ben presto alla vista di chi era rimasto più sotto a illuminarli con l’occhio di bue. Le torce erano diventate l’unica fonte luminosa a loro disposizione anche se la luce diventava sempre più scarsa perché il buio attorno la assorbiva. Trascorsero diversi minuti senza che gli uomini dicessero qualcosa.
«Tutto bene lassù?» chiesero da terra.
Nessuna risposta.
«Jim, per carità, rispondi, dove siete?»
Dopo qualche attimo si sentì un sussurro:
«Ma è bellissimo qui: è bellissimo!»
«Chi parla?» fecero da terra.
«È meraviglioso, continuiamo a salire…» ripeté.
«Jim dove sei?»
«Jim è caduto e anche Fuzz» si sentì dire al cellulare in modo confuso. «L’altro è rimasto indietro ma respira male, forse è svenuto. Ora sono solo, proseguo lo stesso. È troppo bello qui per fermarsi.»
«Caduti? Dove sono caduti? E chi si è fermato? Pronto, pronto? Non si sente più niente. Chi sei tu? Pronto?!?»

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Il Programma di Gestione

Programma«Cos’è questo chiarore accecante?» Delio aveva appena strizzato gli occhi in una smorfia di dolore. «Sembra che sia esplosa una bomba atomica» disse ancora con le palpebre serrate.
Il collega, accanto a lui, lo stava fissando senza parlare, come se non trovasse le parole giuste.
«Oh bene, ora è passata…» aggiunse aprendo solo un occhio: «chissà che è stato… dunque, cosa stavo dicendo? Ah sì… il Programma. Il Programma di Gestione stavolta non è stato fatto per nulla bene; Coso lì, come si chiama…»
«Il Guadagni.»
«Ecco, il Guadagni, non è mica ‘bono’, non sa il fatto suo: sarà anche quotato nell’ambiente, uno molto apprezzato nel giro, non lo nego, ma poi sotto sotto, non ha il substrato…»
«Il substrato?»
«Sì il substrato, il background esperenziale… il backspin del sales management; al suo posto ci vedevo invece meglio quell’altro Coso, come si chiama? Ma sì che lo conosci bene anche tu… quello che c’era l’anno scorso, con la barbetta, la faccia un po’ così, come la tua… gli occhiali con la montatura di tartaruga.»
«Il Tanassi?»
«Esatto il Tanassi, è un grande quello lì…»
«Ma come non l’hai saputo?»
«Cosa?»
«Il Tanassi è morto quest’estate, per una brutta cosa al pancreas: sono bastati due mesi e ciao…»
«Davvero?»
«Davvero!»
«Ma mi spiace… era un grande… Vabbè resta il fatto che ora siamo nella palta, se non troviamo un’idea pull up entro il 28 di questo mese anche per questo semestre ce ne usciamo con un fatturato schiscio schiscio che sono dolori. Ci trasferiranno entrambi nel reparto del Baldi che è un bel pezzo di carogna, come sai.»
«Baldi?»
«Baldi, quello del reparto packaging
«Ah, vuoi dire Bardi!»
«Appunto, Bardi!»
«Ma come, non l’hai saputo?» fece l’amico tirandosi gli occhiali di plasticone leopardato fino sopra l’attaccatura dei capelli.
«Oddio, è morto anche lui?»
«Macché è passato alla concorrenza: ora è alla Baumann & Co, è il best direct manager
«Beato lui!»
«Non capisco però perché ti dai tanta pena per il Programma di Gestione…» gli fece il collega facendo un gesto complicato con le dita.
«Cos’è una battuta? Pronto? C’è nessuno?» gli chiese battendogli con le nocche la fronte sudaticcia. «Stiamo parlando del famigerato P-R-O-G-R-A-M-M-A   D-I   G-E-S-T-I-O-N-E, dimmi se è poco…»
«Ma non l’hai ancora capito?»
«Capito cosa? Uè, guarda laggiù…guarda… non è Coso, il Grande che dicevamo prima, lì… il…»
«Il Tanassi!»
«Ecco, il Tanassi, appunto. Non avevi detto che era morto?»
«Appunto!»
«Cosa vorresti dire, Coso? Che anche noi…?»
«Già! Ti ricordi quando stavi guidando come un matto e io ti ho detto vai adagio che la strada può essere gelata e c’è pure la nebbia?»
«Vagamente.»
«Ecco, adagio non ci sei proprio andato e sul viadotto hai fatto un bel testacoda: hai rotto la spalletta del ponte e siamo finiti giù nella scarpata… e… poi c’è stato quel chiarore accecante che hai visto…»
«Ma dai…»
«Proprio così e ora ti tocca passare l’eternità con me che non mi trovi neppure simpatico.»
Delio rimase a bocca aperta. Ci mise un bel po’ per metabolizzare la notizia; quindi finalmente continuò:
«Per fortuna il cielo è enorme!» e fece un largo gesto circolare con il braccio «anche se un po’ spoglio.»
«Già, per fortuna!»
«E così, niente più Programma di Gestione! Proprio adesso che avevamo ritrovato il Tanassi…» disse ancora Delio incredulo.
«Niente più Programma di Gestione! Confermo.»
«Bene, bene… senti, ma com’è che fai tu di nome?»
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Caccia alle balene

blue whaleSulla superficie del mare si venivano a formare di continuo montagne d’acqua e orridi profondi di schiuma grigia e ribollente, mentre la barca beccheggiava come un mostro che cercasse di scrollarsi di dosso un insetto fastidioso. Il capitano, sul cassero di poppa, aveva gli occhi fissi sul sónar che gli rimandava a tratti un punto bianco in lento distacco. L’equipaggio, fatto di uomini scolpiti dall’acqua salmastra, la pelle di cuoio del color del fasciame, era raccolto in un silenzio contratto aspettando un cenno dell’ufficiale. L’arpione, sulla prua, si muoveva assecondando il mare, a destra e a sinistra, all’interno del cannone di lancio, come fosse dotato di vita propria e cercasse anche lui la balenottera che si era appena inabissata. Alle spalle, come un incubo inatteso, la nave fattoria mostrava al mondo la sua bocca spalancata e insaziabile, lo scivolo argenteo che dondolava impaziente in attesa del suo pasto.
Un solo capodoglio all’attivo è davvero ben poca cosa‘, pensò il capitano Yashida Sasaki dalle lunghe ciglia nere. I suoi superiori non l’avrebbero tollerato.
Poi la balenottera, quasi avesse ascoltato i pensieri del capitano, nel profondo dell’oceano si arrestò; girò un poco in tondo e quindi tornò indietro, come avesse dimenticato qualcosa. Quando, dopo qualche minuto, il signor Yashida capì che l’intenzione del cetaceo non mutava e che stava davvero venendo nella sua direzione, diede pochi e secchi comandi agli uomini. L’equipaggio scattò all’unisono come mosso da un unico filo e la barca virò di dritta di alcuni gradi procedendo in obliquo a velocità sostenuta. Azunamaro Akira, nel frattempo, aveva preso posto dietro al cannone controllando la disposizione della sagola. Non resistette dal dare con la mano un bacio alla punta dell’arpione luccicante, e pregò. L’acqua ora frustava violenta le espressioni di marmo dei marinai sotto un cielo che, da un momento all’altro, sembrava doversi spaccare in due tra lampi improvvisi e tuoni assordanti. La balenottera era ormai a pochi metri: stava per riemergere. Complice il frastuono della burrasca, il signor Yashida dovette ripetere una seconda volta il comando di far fuoco, sicché l’arpione vibrò nell’aria in ritardo inabissandosi cieco nell’acqua buia alla ricerca di una vittima che non avrebbe trovato. Il capitano e Akira si guardarono per un tempo indefinibile confrontando le proprie paure, fino a quando Akira non resse più quegli occhi e si mise ad armeggiare con l’arpione per recuperarlo.
«Abbiamo preso qualcosa, capitano» gli urlò subito dopo.
Il sónar evidenziava una massa indistinta rimasta agganciata all’arpione. Era enorme, pesante e soprattutto viva. Eppure non poteva essere la balenottera, Yashida lo sapeva bene. La barca iniziò lentamente il recupero avvicinandosi nel contempo alla nave. Da lì avrebbero agganciato la cattura, qualunque cosa fosse, per poi rimorchiarla sullo scivolo e lavorarla con comodo. L’equipaggio della barca stava comunque stemperando la tensione accumulata levando al cielo grida squillanti e i berretti color della caligine ringraziando il capitano per quella fortuna inaspettata. Ma lui non riusciva a liberarsi del proprio silenzio.
Fu necessario far trainare la preda direttamente dalla nave fattoria con un gancio e un argano supplementari, perché il suo peso aveva paurosamente trascinato la prua verso il pelo dell’acqua. E quando finalmente la sagoma della cattura apparve sullo scivolo lasciando dietro di sé una scia di sangue nero, si vide solo un’ombra gigantesca, ma indefinibile, attraversare minacciosa la pancia della nave. In coperta, i marinai si raccolsero incuriositi attorno a quello strano essere mai visto prima, cercando di capire. Aveva una pancia enorme, muscoli fibrosi e tesi, un sacco di carne solcato da vene grosse e flosce, ma senza pinne, né bocca, né nient’altro che ricordasse un cetaceo. Ma cos’era?, si chiedevano l’un l’altro provando a toccarlo.
«È un cuore» disse a quel punto il capitano Yashida Sasaki, immobile e cereo in volto. «Questo è il cuore del mare. E noi l’abbiamo appena ucciso.»

Arrivederci. Anche se è un addio

porte di sabbiaVa bene, allora ti lascio andare. Se hai proprio deciso, ti lascerò andare.
Sì, sono sicura che ci hai pensato bene. E poi è nell’ordine naturale delle cose.
Ti ho tenuta in grembo fino a ieri, qui, tra le mie braccia, come una cosa preziosa,
come la cosa più bella del creato.
Sono stata tutto il tuo mondo, il tuo orizzonte, il rifugio dei tuoi sogni.
Ho raccolto i tuoi pianti, i primi gridolini di gioia, le incertezze del vivere e i dubbi dell’esistere; ho visto i tuoi primi sorrisi devastanti e le tenere parole per esprimere meraviglia. E ora, in un attimo, è venuto il momento. Un momento che non è più rimandabile, che non si può più far finta che non verrà.
Ma tutto il passato è stato davvero un istante. Il tempo di un tuono, il tempo di un lampo, un ingannevole attimo in cui mi sono illusa che, nonostante tutto, mi saresti appartenuta per sempre.
E ora cerchi solo di sfuggire al mio sguardo, perché tutto quello che vuoi è abbandonare questo posto il più in fretta possibile.
Il tuo imbarazzo è la mia disperazione, la tua determinazione la mia sconfitta.
Sì, lo capisco, è la maledetta ruota che gira e schiaccia ogni cosa. L’urgenza della vita che si rivolta contro la vita.
Ma vedo che non mi ascolti neppure più, Anima mia.
Pregusti già la tua partenza, la nuova avventura.
Sì, non posso più trattenerti, Tesoro. Va bene, vai, se devi andare, vai.
Fai buon viaggio. E ti dico arrivederci, anche se so che è solo un addio.

E la goccia di pioggia si staccò dalla nube soffice e bigia per cadere poco più in giù sulla terra ostinata.