L’ospite in giardino

Guardavo l’erba del giardino e non ci volevo credere. Il manto era rialzato, la rosa sbilenca, il muretto sembrava scricchiolare. Una cicatrice irregolare color bruno inferta da un gigante arrabbiato.
«È una talpa» mi diede di voce Nello appoggiato alla recinzione.
«Una cosa?» feci sorpreso.
«Ce ne sono, ce ne sono…» mi rispose passandosi subito dopo la mano grinzosa sul viso come faceva spesso. «Se hai il fucile ti merita spararle!» sentenziò con la brevità concreta del contadino.
«Il fucile non ce l’ho e non ho nessuna voglia di spararle».
«Te lo presto io…»
«Non mi sembra il caso».
«Allora non te ne liberi».
Allora non te ne liberi. Mi ritornò mille volte in mente quella frase mentre nel reparto giardinaggio dei magazzini ‘Comprabene’ di Lughi cercavo qualcosa che facesse al caso mio. Raccomandavano unicamente aggressivi chimici peraltro poco efficaci appena dopo una sola pioggia. Poi su internet scoprii l’esistenza di un talpifugo a ultrasuoni: una sorta di grosso piolo di plastica verdastra che ogni quaranta secondi emette una vibrazione ad altissima frequenza. Tu non la senti, la talpa sì e non le piace, così se ne va.
Allora non te ne liberi. Pensai ancora dopo aver liberato il dispositivo dalla variopinta confezione piantandolo soddisfatto in mezzo alla trincea. Il reticolo di gallerie nel frattempo si era allargato attorno al nespolo che pareva voler tenere le foglie ancor più sollevate dalla terra non capendo cosa fosse. Ci vuole una settimana per avere un qualche effetto, c’era scritto sulla confezione. Perché mai? È il tempo che la talpa ci mette a stancarsi di tenere le zampe sulle orecchie? Pensai. Ma una settimana fu. I cunicoli sul terreno si erano diramati ancora, ma allo scadere della settimana il complicato ricamo era cessato di colpo. Feci una ricognizione per constatare i danni. Avrei dovuto seminare di nuovo, questo è certo, ma solo a marzo, intanto me lo sarei tenuto così. Il nespolo aveva inoltre un’aria offesa, alcune rose stavano già appassendo e il muretto andava ripreso.
«Marilè, Marilè!!!» sentii gridare all’improvviso. Era il mio vicino. «O Gesummio… o Gesummio, come m’ha conciato le piante! Marilèèèè… c’è una talpa nell’orto!»
Allora non te ne liberi mi venne ancora in mente. Le devi sparare: sennò quando avrà finito con lui tornerà da te.

La spada di Dio

L’alpinista risaliva il sentiero a passo svelto a dispetto dell’attrezzatura che gonfiava lo zaino sulle spalle. L’altipiano brullo si rispecchiava negli spessi occhiali d’alta quota mentre il respiro si addensava sulle guance appena brunite da un velo di barba. Dopo una roccia, dalla curiosa forma di testa di gatto, gli apparve all’improvviso la montagna: bianca, inaccessibile, incombente come una minaccia. Si arrestò trattenendo il respiro.
«Buongiorno» si sentì alla sua sinistra. Un altro uomo, seduto a terra, dava le spalle ad una tenda. Una testa di capelli disordinati fuoriusciva dal piumino blu, il viso asciugato dal vento secco di montagna. «Un tè caldo?»
«No… no, grazie» rispose l’altro infastidito dalla presenza in quel luogo di un altro essere umano.
«È una montagna che ipnotizza, vero? La ‘Spada di Dio’, la chiamano. Levigata, imponente, senza pietà».
L’uomo in piedi, la osservò in tutta la sua assolutezza e perfezione, poi abbassò la testa:
«Già…» sospirò. «…anche lei, è qui per l’arrampicata?»
«Mi chiamo Mark» fece l’uomo per tutta risposta, sporgendosi per allungare la mano guantata.
«Paul» rispose l’altro stringendogliela a sua volta.
«No, sono arrivato qui sei mesi fa. Avevo l’intenzione di scalarla, ma poi mi sono accampato. Ora mi limito ad ammirarla».
«E perché non hai proseguito?»
Mark ebbe difficoltà a rispondere anche se quella domanda era scontata. «Perché scalare quell’ottomila è sempre stato il mio sogno. Sono salito in cima a tante montagne, ma questa è diversa: è un dito puntato verso Dio, la disperazione della terra per non potersi innalzare al cielo…» Fece una pausa. «E… e se poi non ci riesco?»
«E se poi ci riesci, invece?» lo incalzò subito Paul.
«Peggio ancora. Di cos’altro potrei sognare ancora?»
«Avrai la soddisfazione di essere riuscito nell’impresa…»
«E una simile soddisfazione potrà mai colmare il vuoto che lascerà il non avere più sogni?»
Paul strinse gli spallacci dello zaino tra i guanti. Raspò con lo scarpone la ghiaia fine della mulattiera. Respirò ancora in direzione della sua montagna. Poi disse:
«È davvero caldo, quel tè?»