Oramai era una settimana che Uhr, il caldeo, si trovava nella Dispensa. La chiamavano così gli altri disperati come lui. Una buca nella sabbia di quattro metri per tre e profonda due, chiusa in cima da una massiccia grata in ferro. E la grata era così pesante che le guardie del Signore di Lochnor usavano un elefante per poterla spostare.
Là sotto l’aria era irrespirabile, non solo perché la fossa era al sole della Nubia, ma soprattutto per l’odore acre di sudore, misto a quello di feci e urina e perché le persone erano così tante che non era possibile rimanervi se non in piedi, per tutto il giorno. Anche se le guardie buttavano attraverso le sbarre i resti della cucina, molti morivano ugualmente di stenti, di dissenteria, di sete ma anche per sopraffazione. Spesso, infatti, per la mancanza di spazio, scoppiavano risse violente e improvvise e i più deboli finivano per soccombere.
Nonostante la buca fosse angusta, le guardie continuavano a farvi entrare nuovi prigionieri, ritirando, quando se ne ricordavano, i cadaveri. Se non lo facevano chi dei più forti rimaneva nella Dispensa usava i corpi senza vita dei compagni come basamento per montarci sopra e avvicinarsi alla grata e respirare così, almeno per un po’, aria più pulita anche se bollente.
Uhr aveva imparato a stare da un lato della buca. Si era accorto che era relativamente più sicuro. Mangiava quel poco che gli pioveva addosso, prima che cadesse a terra nel liquame alto una ventina di centimetri cercando di muoversi il meno possibile.
Poi, un pomeriggio nell’ora più calda, come sempre più spesso accadeva, scoppiò una lite furibonda. Jassamar, un gibutiano enorme e attaccabrighe, in un attimo di insofferenza, si era fatto spazio a pugni e gomitate, con una ferocia bestiale. Due prigionieri erano morti sul colpo, mentre il terzo si era accasciato a terra e subito calpestato. Nel parapiglia, come un’onda maligna, Uhr si era ritrovato al centro della buca. Era caduto più volte rischiando di affogare nella melma putrida del fondo. Ma poi, per la forza della disperazione, si era ogni volta rialzato a fatica. Appena in tempo comunque perché le guardie aprissero la grata.
Subito un sacerdote della dea Nach’Aimoss, in una veste ricca e sontuosa, si mise a strillare degli ordini incomprensibili e immediatamente due guardie lo prelevarono di peso dalla buca. Uhr pensò che fosse arrivato il suo momento. Sapeva che la Dispensa, alimentata costantemente con i prigionieri delle battaglie, ma anche con i reietti del regime, altro non era se non il serbatoio di carne per il serraglio dei sei ghepardi del Signore di Lochnor. Ma qualcosa non tornava, pensò lui: l’ora non era quella giusta e poi era da solo. Non avrebbe mai potuto garantire il pasto per tutti quei felini.
Fu condotto infatti alla sorgente di Alaki e qui, dopo essere stato denudato, fu lavato e profumato. Dovevano evidentemente avere in serbo per lui ben altra sorte.
Fu poi portato dentro la Sacra Dimora e quindi in un locale ben arredato. Sempre sotto la vigile attenzione di due guardie armate, il sacerdote che lo aveva fatto prelevare lo fece avvicinare a un tavolino su cui era riposto un vaso chiuso. Mentre una guardia legava a Uhr le mani dietro la schiena, un sacerdote aprì il vaso e ne tirò fuori del miele denso e aromatico. Con una spatola di bambù ne prese una buona dose e cominciò a spalmarglielo addosso. Continuò così per una buona mezz’ora fino a quando tutto il corpo di Uhr non fu cosparso di quella sostanza.
Terminata l’operazione, Uhr fu condotto al cospetto del Signore di Lochnor che non badò però alla sua presenza. Uhr proprio non capiva cosa stesse succedendo. Cosa ci faceva il quel posto e perché era stato conciato in quel modo?
Poi pian piano comprese.
Attratti dal miele arrivavano e si posavano su di lui, vespe, tafani e scorpioni in modo che non andassero a disturbare il Divino Signore e la sua corte durante il loro ozio. Ogni tanto una guardia, quando lui si ritrovava completamente ricoperto di insetti, lo frustava più volte con un nerbo di montone per ucciderne il più possibile. Uhr, si accorse che analoga sorte era capitata anche ad altri due uomini che si trovavano nella sua stessa condizione sotto il medesimo porticato.
SI sorprese però di non sentire più dolore.
Notò alla sua sinistra che il sole stava lentamente tramontando dietro le basse case bianche.
Sorrise. Dopotutto, era ancora vivo.
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Barbarella
Lens guardava le sue arnie e aveva voglia di piangere. Era il terzo mattino di seguito che trovava diverse api morte all’ingresso dei ripari. Alcune erano a zampe in su, con l’addome rigonfio, altre erano agonizzanti, le ali sbattute all’impazzata nell’aria come fossero rinchiuse in una bolla invisibile; altre ancora vagavano in tondo spaesate.
«Venegutt, hai ripreso ad utilizzare il pesticida, è vero?»
Lens aveva scavalcato la recinzione e si era inoltrato nel terreno del vicino. Ora gli era davanti con la faccia furibonda. La voce gli tremava dalla rabbia.
Venegutt, dall’alto del trattore, procedeva lento nel campo. Teneva le mani ben salde sul volante come se dovesse far attenzione a evitare le vetture che gli sopraggiungevano contromano. Dopo un po’ il contadino si tolse la sigaretta dalle labbra e fece segno al vecchio che non sentiva bene quello che gli stava dicendo: il rumore del motore era troppo forte. Anche se in realtà aveva capito benissimo.
«Spegni questo catorcio di trattore e dimmi se stai usando di nuovo quel pesticida vietato che mi avevi promesso di non utilizzare più» gli urlò il vicino puntandogli contro il dito ossuto. «Mi stai massacrando tutte le api, maledetto testone…»
Ma Venegutt, fece segno che si stava facendo tardi e che avrebbero parlato con lui più tardi. E lo lasciò lì in mezzo al campo come uno spaventapasseri da buttar via.
Il vecchio se tornò indietro furibondo. Dando calci da tutto quello che trovava sul suo cammino.
E anche il giorno dopo Venegutt non ebbe tempo per parlare con lui, avendo trovato non so quante e quali scuse mentre le api, una dopo l’altra, morivano nel peggiore dei modi.
Lens non riusciva a darsene pace. Aveva messo tutti i suoi risparmi in quelle nove arnie e con quello che riusciva a ricavare con il miele arrotondava anche se di poco la magra pensione. Senza contare che si era affezionato alle sue api e non sopportava di vederle soffrire così.
Pensò e ripensò cosa poteva fare. Denunciare il vicino? Far intervenire le forze dell’ordine? Passare alle maniere forti? Tutto però gli sembrava inutile e soprattutto non tempestivo.
Poi l’indomani accadde quello che qualsiasi apicultore non vorrebbe mai voler sentire. Nessun ronzio si levava più dalle arnie. Solo il silenzio. Un pesantissimo silenzio.
Lens si aggirò incredulo tra le cassette di legno. Le scoperchiò una dopo l’altra: erano completamente vuote. C’erano qua è là solo delle nuove api morte, ma l’intera colonia non c’era più. Avevano dunque preso con evidenza la decisione più saggia per la loro sopravvivenza; erano semplicemente sciamate via.
Centinaia di metri più in là, Venegutt stava guardando la tv nella saletta di casa sua. Stava aspettando che fosse pronta la cena.
Rose, la sua piccola di sette anni, stava cercando la bambola preferita. Non era sotto il letto e neppure tra i cuscini della poltrona. La bambina controllò nella lavatrice e, visto che c’era, anche nel frigo. Poi aprì con le sue manine l’armadio dei suoi. Doveva essere lì, pensò. A volte Barbarella faceva la stupidina e si nascondeva nei posti più impensati, perché le piaceva tanto fare la preziosa. Lei la conosceva bene.
Quando aprì l’anta la sua attenzione fu attirata, però, da una forma oblunga che sembrava viva tutta attorcigliata com’era al cappotto della mamma. E poi quella forma strana emetteva un ronzio grave e melodioso. Quasi ipnotico. Era proprio bella. Rose sorrise e allungò la mano per saggiarne la consistenza.