Ginger

I due anziani erano seduti sulla loro solita panchina vista lago. Un ampio cedro del Libano protendeva verso di loro i propri robusti rami gentili come a volerli proteggere. Accanto a ciascuno di loro una gabbietta dentro alla quale saltellava un usignolo cinguettante. Si ritrovavano sempre lì, nella tarda mattinata del sabato, per far prendere un po’ d’aria ai loro compagni piumati.
«Lo so che mi ripeto spesso, Fred, ma il tuo usignolo canta che è una meraviglia… fa gorgheggi che il mio non imparerebbe neppure se facesse mille corsi di canto… se ovviamente esistessero corsi di canto per usignoli…»
«Sì, hai proprio ragione, Stan…»
In quel mentre, un bambino su una carrozzina aveva fatto cadere a terra un guantino di lana; si spinse fin che poté per seguirlo con gli occhi, guardando anche la mamma senza dire però nulla. La donna, chiusa nella sua bolla di pensieri, non se ne era accorta, come i due amici del resto, che sembravano ipnotizzati dal luccichio del sole che aveva appena rilasciato della polvere d’oro sulla superficie dell’acqua.
«Ah… ho ragione, quindi…» gli disse l’altro un poco risentito «anche tu sei d’accordo sul fatto che il tuo usignolo canta molto meglio del mio…»
Fred si girò a osservarlo. Si capiva dal suo sguardo che erano molti i pensieri che gli stavano agitando la mente; ma poi decise di dar sfogo solo a uno di essi.
«No, dicevo, che hai ragione quando dici che ti ripeti spesso… Me lo fai notare quasi ogni volta che ci vediamo. ‘Ginger ha un piumaggio più bello del mio, canta meglio del mio, saltella come nessuno mai, ha l’occhio più vispo che si sia mai visto…’. Ginger mi è stata regalata da un mio vecchio commerciante di tè Gyokuro… viene dallo Kirishima nel sud del Giappone… È una usignola speciale.»
«Ginger? Tu ti chiami Fred e il tuo usignolo Ginger?» gli chiese Stan sbarrando gli occhi.
La domanda rimase sospesa nell’aria, come le due piccole nuvole che si stavano rincorrendo nel cielo in quel momento.
«Da quanto tempo ci conosciamo, Stan?» gli chiese sospirando.
«Praticamente da sempre…» rispose l’amico, contento di sapere la risposta.
«E da quanto tempo ho Ginger?»
«Da quando sei andato in pensione, pari a me… cioè quindici anni fa circa.»
«E ti accorgi solo ora che io mio chiamo Fred e la mia usignola Ginger? Perché Ginger è oltretutto una femmina, Stan, una F-E-M-M-I-N-A! Sennò si chiamerebbe Gingerino, il che sarebbe orribile.»
Stan aveva aperto la bocca giusto per ribattere, ma si era accorto di non avere a disposizione le parole giuste.
In quel momento arrivò Albert, il terzo amico. Era così alto che, nonostante fosse curvo di spalle, sovrastava gli altri due minacciosamente. Spingeva un’asta da fleboclisi davanti a sé solo che, anziché far penzolare un flacone di medicinale, c’era attaccata una gabbietta, anch’essa con dentro un usignolo. Albert abitava vicino al parco, diceva, e gli faceva fatica portarsi la gabbietta in mano; così aveva inventato quel sistema.
«Buongiorno, giovani…» esordì come se li avesse notati all’ultimo momento.
E poi, come d’abitudine, si mise goffamente sull’attenti aspettando che Fred gli dicesse di sedersi. Fred era stato il suo comandante in guerra, e quel legame, dopo tanti anni, per gioco o per rispetto, era rimasto tra loro irrisolto.
«Riposo, sergente, riposo…» gli disse Fred accondiscendente «siediti pure con noi.»
«Grazie» gli rispose lui tirandosi dietro rumorosamente l’asta della flebo. «Allora ne approfitto.»
E poi tutti e tre presero a guardare in silenzio il riverbero del sole sullo specchio immobile del lago. Le giornate si erano fatte più tiepide e i primi fiori stavano colorando i rami spogli dei mandorli.
«Chissà cosa pensano di noi…» fece a un certo punto Fred.
«Cosa pensano di noi, chi?» chiese Albert non smettendo di guardare il luccichio.
«I nostri usignoli. Cosa pensano del fatto che li teniamo in gabbia… che li portiamo un po’ fuori perché respirino l’aria fresca del mattino, perché capiscano che c’è tutto un mondo qui fuori, per poi impedir loro di godersi la libertà; e questo solo per l’egoismo di volerli sentir cantare.»
«Cosa pensano?» fece Stan stralunato. «Ma cos’hai oggi? Sei strano forte. Gli uccellini non pensano e poi senti come cantano!» e mise teatralmente il palmo della mano attorno all’orecchio.
«Che ne sai tu che è un canto di felicità?»
«Guarda che la tua, come del resto i nostri» osservò Albert fermando la gabbietta davanti a sé che si era messa a dondolare per la brezza «è nata in cattività e non saprà neppure cosa significhi volare….». E indicò Ginger con un mezzo sigaro spento che si mise tra le labbra.
«È arrivato il momento di scoprirlo» masticò Fred tra sé e sé; poi, d’un tratto, si alzò andando a posare repentinamente la sua gabbietta su un masso piatto di fronte. Aprì la porticina della voliera tornando subito dopo alla panchina proprio nel momento in cui i due amici esclamavano all’unisono un sonoro: ‘NOOOOOOO!!!’.
Ma poi i due rimasero immobili, come in una istantanea, con il braccio teso verso la piccola voliera come per ripararsi da chissà quale pericolo. Si ricomposero seri, lentamente, senza dire più nulla; tutto sommato erano curiosi di vedere cosa sarebbe successo.
Ginger si arruffò le ali, guardando prima lo sportellino aperto, poi i tre anziani davanti a sé e infine i due usignoli in gabbia. Ma non si mosse.
Albert aveva appena avuto il tempo di dire ‘VISTO?’ che Ginger saltò dalla mangiatoia fin davanti all’uscio della gabbietta. Quindi in un attimo spiccò il volo nell’aria tersa di quel sabato di marzo prendendo, senza il minimo ripensamento, la direzione del sole.
Ben presto fu solo un puntino.
Fred finalmente sorrise.