Gavrò

fontanellaMi piaceva abitare in paese. A quel tempo chi stava in campagna se la passava persino meglio di chi era in città. Perché qualcosa da mangiare si rimediava sempre nell’orto o nel bosco e, anche se beccava poco la Guendalina, un uovo te lo faceva sempre.
Quelli erano anche i tempi di Gavroche. Era un bambino cicciottello ma terribile; più grande di noi di appena un anno aveva già la faccia vissuta; aveva una strana cicatrice sul mento che gli prendeva parte della guancia e spesso fumava davanti a noi con l’ostentazione di un Bogart in miniatura. Sua madre era un’appassionata dei ‘Miserabili’ per averli visti in televisione. Voleva chiamare il figlio Jean Valjean poi scelse, chissà perché, Gavroche. E così fu.
Noi cinque eravamo inseparabili. Anche se Gavrò, come avevamo imparato a chiamarlo, faceva il capo-tiranno indiscusso, ci divertivamo molto: stavamo sempre in giro a giocare, a far dispetti alla gente, a rubare la frutta nei casolari, a sentirci grandi, insomma. Fino al 17 gennaio di quell’anno.
Era successo che Gavrò mi avesse sfidato. Mi aveva detto che non sarei mai stato in grado perché io nel gruppo ero il più piccolino e, secondo lui, il più fifone. E non era vero. Non che non fossi il più piccolino, per carità, ma che avessi paura. Vabbè, forse solo un pochino. Ma lui non avrebbe dovuto dirlo davanti a tutti perché poi gli altri cominciarono a prendermi in giro e a ridere di me.
Insomma, per farla breve, Gavrò sosteneva che non avrei mai avuto il coraggio, in una notte di plenilunio, di andare alla fontanella della piazza. Perché con il plenilunio, la fontana, anziché buttare acqua, faceva uscire sangue. Nel medioevo, infatti, gli aveva raccontato il nonno, proprio dove c’era la fontana, avevano trucidato una vecchia in odor di stregoneria. E così attorno alla fontana, con la luna piena, le streghe avevano preso a riunirsi per celebrare il loro sabba: cantavano, ballavano e bevevano sangue; se disturbate, però, si arrabbiavano e ti portavano via lontano con loro.
Difficile dire, a quel tempo, se fosse vera o no questa storia. Piuttosto non potevo permettere che i miei amici continuassero a canzonarsi di me. E allora mi feci coraggio e il primo plenilunio dell’anno, appunto la notte del 17 gennaio, ci andai. Gavrò mi disse che però avrei dovuto portare le prove della mia impresa. Mi diede una siringa di vetro che aveva trovato nella spazzatura dietro all’ospedale. Con quella avrei dovuto aspirare il sangue dalla fontana e portarla con me.
Cenai poco quella sera e, dopo che tutti erano andati a dormire, mi vestii e uscii di casa. Era iniziato a nevicare già dal pomeriggio e pareva che il silenzio avesse risucchiato ogni suono nella via. Persino la luna si nascondeva e l’unica luce spiovente dall’angolo della casa era fioca e schermata dalla neve. Avevo voglia di tornarmene a letto perché faceva freddo e la nonna poteva scoprirmi; e forse anche perché quella storia che le streghe mi potessero portare via, in fondo in fondo, non mi piaceva affatto.
Percorsi tutta la via, la traversa con l’edicola e infine, dopo la farmacia, arrivai in prossimità della piazza. Non c’era nessuno, ma forse era troppo presto. ‘Meglio‘, pensai. ‘Prendo il sangue dalla fontana e me ne torno a casa‘. I passi sulla neve non sembravano i miei e le scarpe inadatte sgusciavano sotto il mio peso. Ero quasi vicino alla fontana quando avvertii una presenza. Mi sono nascosto dietro a un platano con il cuore che dovette essermi rotolato nella neve per lo spavento. Trattenni il respiro: non volevo che si vedesse neppure il vapore del mio alito. ‘È finita‘. Pensai. ‘Sono loro e mi scopriranno. Che cosa ho mai fatto!
E, invece, da dietro una panchina ho visto comparire una volpe. Si guardava attorno guardinga odorando l’aria. Aveva la neve attaccata al mantello che luccicava sotto la luce del lampione. Sembrava finta tanto era irreale e procedette lenta fin quasi a toccare la fontana; poi deviò decisa sparendo nel buio. Avevo il cuore a mille. Decisi di far presto. Potevano arrivare da un momento all’altro. Aprii il rubinetto e un fiotto violento di sangue si sparse tutt’attorno. Ci rimasi di stucco. Non ci potevo credere. Con le mani che mi tremavano ho aspirato con la siringa il liquido e sono scappato a casa.
Trascorsi il resto della notte agitatissimo. Mi sognavo che le streghe mi venivano a prendere nel letto. Poi d’un tratto mi svegliai, tutto sudato, realizzando che poteva succedere davvero: avrebbero infatti potuto seguire le mie orme sulla neve e arrivare fino a casa. Ho afferrato allora la siringa e l’ho gettata fuori dalla finestra. Almeno il sangue non l’avrebbero trovato. Poi mi vestii di nuovo: era mia intenzione andare a cancellare le mie tracce prima che fosse tardi. Ma appena sulla porta mi accorsi che la neve, anche se aveva smesso di nevicare da qualche ora, aveva coperto ogni cosa. Fu quello il momento, vedendo la coltre intonsa della neve, ad avere la precisa sensazione di aver sognato tutto quanto.
Al mattino mi svegliò la nonna perché andassi a scuola. Mi sentivo sollevato, leggero. Quando arrivai in classe, gli altri del gruppo mi vennero subito incontro con la faccia incupita.
«Gavrò è sparito» mi disse tutto d’un fiato Giannasio.
«Come sparito?» chiesi incredulo.
«Era sicuro che all’alba saresti andato alla fontana. Così ieri mi ha detto che si sarebbe nascosto per sorprenderti e farti paura. Poi non so cosa sia successo. Dicono che le sue orme sulla neve finiscano alla fontana.»

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L’armata invincibile

Quando apparve sulla sponda del fiume aveva un’aria trasandata e goffa. Nessuno avrebbe potuto credere che fosse un Mago potente, che parlava con gli Angeli Buoni e quelli Maligni con la stessa naturalezza e semplicità con cui avrebbe potuto parlare con te ti avesse incontrato un giorno per via. Aveva con sé il suo asino, mal in arnese, che molti dicevano essere stato il suo Maestro stregone; aveva imparato da lui ogni arte magica e raffinato sortilegio ma non aveva esitato a tramutarlo in un ciuco una volta partorita l’insensata idea di diventare per sempre l’unico uomo davvero sapiente su questa terra. E ora il Mago si trovava al grande fiume a guardar fiero le terre lontane, oltre l’orizzonte, oltre il tempo presente.
«Togliti da sopravento, pezzente» gli comandò il Cavaliere facendo scalpitare lo stallone sulla terra umida. «Mandi un fetore che toglie il respiro…»
Il Mago trasalì e si girò a guardarlo stupito. Il Cavaliere, al di là del corso d’acqua, era maestoso, imponente, la luce del sole faceva brillare gli schinieri lucidi tramutandoli in metallo prezioso. Il Mago si avvicinò:
«Perché m’insulti, mio nobile Cavaliere? Sono un uomo pacifico e non faccio male a nessuno…»
«Invece sì: dai noia al mio naso delicato e mi fai ombra… vattene o dovrai assaggiare il mio dardo…» disse mostrando la balestra.
«Il vento e il sole sono dietro le tue spalle, non posso arrecarti nessun disturbo, Signore; ma nonostante ciò ubbidirò ugualmente al tuo volere: me ne sto già andando, vedi? Ho preso la strada del ritorno. Sono sulla mia terra e attraverso la mia terra subito me ne andrò.»
«Villano d’un bifolco, mi stai dando forse del bugiardo? Come osi?» e rapidamente gli scagliò contro un dardo che solo perché il Mago mosse la testa all’ultimo istante gli strappò via solo un orecchio.
A quel punto il Mago, indispettito e sanguinante, compreso che il Cavaliere non l’avrebbe mai lasciato andar via vivo, batté per tre volte con il suo bastone la terra e dichiarò con voce poderosa: «Tra una settimana tornerò qui con un’armata potentissima e condurrò a morte chiunque mi si parrà innanzi. Porterò distruzione, desolazione e sterminio. Dillo al tuo Re: ha una settimana di tempo per abbandonare le sue ricche terre.»
Il Cavaliere frenò il cavallo quasi avesse voluto di sua iniziativa saltare il fiume da sponda a sponda, proprio in quel punto in cui le onde gonfiavano l’alveo per più di cinquanta piedi. Quella voce così inaspettata e così antica scosse però il Cavaliere nel profondo, come avesse intorbidito d’un tratto la sentina dimenticata dei suoi incubi più cupi. E senza aggiunger nulla, abbassò la visiera dell’elmo, girò il cavallo e lo lanciò al galoppo.
Dopo sette giorni esatti, il Mago tornò su quella stessa riva. Davanti a lui, a perdita d’occhio, migliaia e migliaia di fanti, cavalieri e arcieri, schierati in ordine di battaglia, con complicate e costose macchine di guerra: fremevano di gloria all’ombra di vessilli e porta insegne sgargianti.
«Dov’è il tuo temibile esercito, pezzente?» lo schernì il Cavaliere vedendolo da solo. Il Mago smontò dall’asino e avvicinandosi alla riva adagiò davanti a sé un ramo di frassino affidandolo alle acque. Il Cavaliere che non riusciva a capire cosa stesse accadendo scese a sua volta dal suo superbo lusitano. C’era qualcosa che si muoveva sul ramo approssimandosi sempre di più a lui, ma non era in grado di distinguere meglio. Quando il pezzo di legno gli fu finalmente accanto vide agitarsi su di esso un piccolo roditore che subito balzò tra l’erba scappando tra le gambe degli arcieri. I militari, a quel punto, assistita a quella scena buffa, si misero a ridere sguiatamente facendo battute salaci. Alcuni addirittura lanciarono picche e frecce nel tentativo di colpire la povera bestiola senza però riuscirvi.
«È questo tutto quello che sai fare, meschino? Sarebbe questo topolino la tua armata invincibile?» domandò arrogante il Cavaliere montando nuovamente a cavallo con un balzo.
«Quel ratto apparentemente innocuo sarà la causa della vostra perdizione» sentenziò il Mago voltando le spalle. «Correndo fra di voi sta già seminando morte e disperazione. Voi ancora non conoscete questa nuova sciagura che sta per annientarvi, ma ben presto imparerete a chiamarla con il suo vero nome: è peste nera, miei miserabili, una malattia feroce e terrificante che quel topo vi ha appena trasmesso. Quando tornerò, di voi non rimarrà che un pallido ricordo.»