Greenstar

La catena avveniristica Greenstar aveva aperto da poco uno spazioso locale in pieno centro di Lughi. Emilio Zucchelli, il geniale promotore del brand, leader della ristorazione fast food in Europa, aveva fatto della ecocompatibilità il suo punto di forza. Tutto ciò che veniva consumato nei suoi ristoranti era prodotto a impatto zero sull’ambiente. Dall’insalata agli hamburger vegetali (peraltro ottimi in forza di una ricetta segreta di cui andava fiero) dalle patatine di soia alle crocchette di mais, dalla frutta DOC ai gelati artigianali; ogni prodotto era coltivato sul posto o in aree a trattamento rigorosamente biologico per poi essere trasportato sul luogo della trasformazione con furgoni elettrici o in bicicletta.
I lughesi erano però scettici e il giorno dell’inaugurazione si presentarono copiosi all’appuntamento più con la voglia di criticare che di apprezzare la novità.
Tra i clienti c’era Clara, vegan animalisita arrabbiata, che si era messa in fila come tanti altri giovani, pronta però a cogliere la minima incongruenza per confezionare un altro dei suoi articoli di fuoco da pubblicare nella sua rubrica settimanale su Lughi Sera. Aveva già in mente il titolo: La spazzatura verde sbarca in città.
Nonostante tuttavia fosse entrata da qualche minuto, tutto le sembrava gradevole, così come del resto si poteva leggere in tutte le ultime recensioni, TripAdvisor in testa; persino la coda di gente era mitigata da una solerte ragazza in pattini che, con un terminale portatile, prendeva le ordinazioni mentre le persone aspettavano in fila, per poi servirle mentre ancora attendevano il proprio turno. Sì, era tutto perfetto. Clara doveva proprio ammetterlo: l’ambiente era accogliente, il personale gentile, il prezzo conveniente e anche il cibo prometteva di essere molto buono.
Era arrivato il momento di fare la sua ordinazione quando la cassiera, nella sua linda divisa verdina, senza prestarle troppa attenzione, si mise a parlare in modo concitato in quello che si sarebbe detto un semplice orologio:
«Ho una mosca qui, proprio sulla cassa» disse nervosa.
Non aveva finito di fare la sua comunicazione che subito si materializzò un ragazzo di nome Morris, come si poteva apprendere dalla targhetta appesa al taschino della sua divisa anch’essa verdina, che subito si mise a cercare con occhi indagatori l’insetto molesto. Clara capì cosa stava succedendo e inveì:
«Ma bravi! Fate tanto gli amici degli animali e poi appena c’è un’umile mosca che dà fastidio alla vostra scintillante immagine scatenate tutta la vostra bieca ferocia… Cosa farà ora? La brucerà viva con qualche racchetta elettrica? Le spruzzerà con qualche potente insetticida che la farà morire tra spasmi strazianti e atroci tormenti?» domandò indignata lei con entrambi i pugni sui fianchi.
Morris sorrise e con un breve e leggero movimento della mano tolse con due dita un triangolo di stoffa da qualche cosa che aveva sul palmo dell’altra; liberato dal cappuccio, il camaleonte assunse immediatamente il colore delle dita che lo sorreggevano. Poi, ruotati un occhio in senso orario e l’altro all’incontrario, estroflesse in un lampo e con un schiocco sonoro la lingua lunghissima che afferrò la mosca al volo. Morris, sempre con delicatezza, rimise quindi il cappuccio sulla testa del camaleonte e se ne andò.
«Che cosa desidera signorina?» chiese allora con gentilezza la cassiera guardando Clara davanti a lei con la bocca aperta. «Signorina, scusi… signorina?!?»

Big Mac

L’uomo aveva lo sguardo acquoso, il doppio mento prominente e gonfio, i gomiti larghi ben appoggiati al piano del tavolino per avere maggiore stabilità. Stava cercando di mettersi in bocca molto più hamburger di quello che sarebbe stato capace di masticare. Ma non se ne curava più di tanto se non per darsi il tempo giusto per trangugiare avide sorsate dal bicchiere gelato di coca-cola. Ogni tanto, senza fermare il movimento delle mandibole, si schiacciava nella bocca, da una fessura di lato delle labbra, tre o quattro patatine che a stento riuscivano a trovare posto tra i denti e le guance dilatate. Con lui i due figli, un maschio e una femmina, forse gemelli, altrettanto grassi quanto il padre, seduti allo stesso modo e con la medesima espressione impegnata e sognante.
Il cellulare dell’uomo squillò nella sala piena di gente. Per un poco cercò di ignorarlo, ma avendo riconosciuto la suoneria, si arrese. Si pulì una mano sui pantaloni e prese il cellulare dalla tasca.
«Che c’è»? disse sputando pezzi carne masticata. «Sì. Sì. Ci siamo stati. È andata abbastanza bene. Sì. Ma ora siamo da McDonald’s, qui in stazione, poi ti racconto… Ma sì, stai tranquilla, ti ho detto che poi ti racconto…» E senza aggiungere altro allungò il telefonino alla figlia. «È ma’» e riprese a mangiare.
«Che c’è»? chiese Annina con tono brusco. Stette all’apparecchio per qualche attimo, continuando a masticare, poi disse ad alta voce: «Io con Paolo ci faccio quel che mi pare, è chiaro?… Che c’entra che ciò sedici anni? Non sono più una bambina e non mi puoi comandare a bacchetta. Ci piacciamo e allora? Sto attenta sto attenta, chettecredi che siamo ancora ai tempi tuoi? Mi vuoi poi spiegare perché adesso tutt’a un tratto ti interessi a me?» La ragazza stette in ascolto, in silenzio, per qualche secondo quindi allungò il cellulare al padre: «È ma’.»
«Che c’è ancora?» fece il marito gettando l’hamburger sul vassoio con un gesto di stizza. «Ma sì, gli parlo io… lo sai come sono fatti i giovani, parlano parlano, ma non sanno mica quel che dicono… sì certo gli faccio il discorsetto… sì… ho capito, che non lo so che è minorenne?…» l’uomo sbuffò, alzò gli occhi al cielo e diede il cellulare al figlio. «È ma’.»
«Che c’è, ma’?» chiese il ragazzo con falsa cortesia «Ma sì che ho studiato… il quattro in mate? È il professore che ce l’ha con me, non capisce un cazzo, è stronzo, lo sanno tutti… sì sì hai ragione, scusa, non devo dire le parolacce…» Il ragazzo ascoltò ancora per qualche attimo la madre e poi ridiede il telefonino al padre. «È ma’»
«Sto mangiando Anna, come te lo devo dire?… Sì a Marietto gli parlo io. Certo deve studiare di più, si deve impegnare e gli esami sono vicini. E che non lo so che è ‘gnorante come un ciuco? Adesso gliene parlo, ci vediamo a casa…» E riattaccò in malo modo.
L’uomo guardò i figli con aria severa. Apri un paio di volte la bocca come se volesse parlare, ma mostrò solo resti sparsi di hamburger. Scosse davanti a loro un grosso dito indice minaccioso come per iniziare un discorso importante. I due figli avevano fiutato l’aria e stavano guardando il padre con la coda dell’occhio e il capo chino. L’uomo sospirò e disse: ‘E se ci facessimo un altro giro di Big Mac?’

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La storia minima ‘Big Mac‘ è stata pubblicata, in via esclusiva, per la prima volta il 15 luglio 2012 su:

(–> Caffè Letterario)

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Da MacDonald’s

Ero seduto su di una panchina all’interno dell’iper di Tòdaro e stavo facendo la guardia a un carrello enorme semivuoto che sembrava guardarmi con grande tristezza. Ero in attesa di Amina che si era infilata in un negozio di abbigliamento per comprare non so più quale accessorio che proprio le mancava. Io mi ero già arreso un’ora prima. Il crollo psicofisico si era verificato esattamente all’interno dello spaccio delle scarpe dove, nonostante l’assortimento faraonico, lei non aveva trovato le scarpe del numero che poteva calzare o anche se l’aveva trovate non aveva ritenuto tuttavia che avessero le nappette giuste o se casomai le avessero avute non sarebbero state comunque del colore che s’intonavano (a cosa poi?!?).
Insomma, rassegnato, aspettavo sulla panchina… sicché lo sguardo si fece ballerino fino a posarsi su di un signore seduto qualche metro davanti me, da solo, a dal panino un tavolino della McDonald’s: stava addentando un MacQualchecosa, a tre piani di carne, ma con sottilette, pomodori, insalata, cetriolini e salsine multicolori che fuoriuscivano dall’insieme alla ‘sisalvichipuò’. Sembrava che il panino avesse una vita propria e che quel tizio gliela stesse togliendo ad ampi morsi. Il buffo era che, dinanzi a sé, aveva altre quattro scatolette tutte uguali e del medesimo tipo di quella che doveva aver contenuto l’hamburger che stava sbranando. Gli involucri in questione erano poi inframmezzati da un numero spropositato di contenitori di patatine fritte, molti dei quali ancora pieni. Lo spazio rimasto libero sul tavolo era infine occupato da bicchieri colmi di coca-cola, bustine di altre salse e un gelato.
Sulle prime pensai che fosse la quantità di cibo sufficiente a sfamare una intera comitiva di turisti che, attardatasi da qualche parte, sarebbe all’improvvisa comparsa urlante reclamando il pranzo, ma poi notai che l’unico cliente di quel banchetto era proprio lui. Il fatto che più colpiva era peraltro il forte contrasto tra quella voracità ferina e la corporatura tendente al magro di questo signore che era pure ben vestito a giudicare da quanto emergeva da sopra il tavolo: l’insieme, dunque, non collimava affatto con lo scempio che quello andava combinando.
Inoltre, nonostante che il tavolino fosse situato pressoché al centro della saletta, nessuno dei presenti gli prestava la minima attenzione anche se lui non mancava di mangiare con la bocca aperta – in modo da far intravedere che fine infausta può fare un manzo di pochi mesi – succhiandosi ad intervalli regolari (con relativo schiocco) le dita sporche di maionese e di ketchup.
Dopo aver divorato e bevuto ogni cosa (per un hamburger ebbi pure il sospetto che lo avesse mangiato senza toglierlo dall’involucro) si appoggiò quindi con aria sfinita allo schienale della sedia. Aspettò qualche istante, giusto per far riposare, forse, le sue mandibole tritatutto, dopodiché, preso un bel respiro, lanciò un rutto baritonale della durata di circa un paio di eternità.
Tutti gli astanti finalmente smisero di mangiare per osservare l’autore di cotanto richiamo. Persino la musica diffusa dall’altoparlante sembrò interrompersi.
Poi, per uno di quei moti spontanei di cui solo la gente è capace e che rimangono inspiegabili anche ai più eminenti sociologi, scattò l’applauso.
Senza vergognarsi neanche per un attimo, il tizio si alzò per prendersi e godersi ancor più i ‘meritati’ applausi, accennando persino ad un inchino sia a destra che a sinistra.
 Io, temendo che quel tipo, spinto dall’entusiasmo del momento, si cimentasse anche in altri rumori corporei, mi alzai in fretta e furia e, brandito il mio carrello malinconico, mi misi alla ricerca di Amina, deciso a stanarla in qualsiasi camerino si fosse nascosta.