Da MacDonald’s

Ero seduto su di una panchina all’interno dell’iper di Tòdaro e stavo facendo la guardia a un carrello enorme semivuoto che sembrava guardarmi con grande tristezza. Ero in attesa di Amina che si era infilata in un negozio di abbigliamento per comprare non so più quale accessorio che proprio le mancava. Io mi ero già arreso un’ora prima. Il crollo psicofisico si era verificato esattamente all’interno dello spaccio delle scarpe dove, nonostante l’assortimento faraonico, lei non aveva trovato le scarpe del numero che poteva calzare o anche se l’aveva trovate non aveva ritenuto tuttavia che avessero le nappette giuste o se casomai le avessero avute non sarebbero state comunque del colore che s’intonavano (a cosa poi?!?).
Insomma, rassegnato, aspettavo sulla panchina… sicché lo sguardo si fece ballerino fino a posarsi su di un signore seduto qualche metro davanti me, da solo, a dal panino un tavolino della McDonald’s: stava addentando un MacQualchecosa, a tre piani di carne, ma con sottilette, pomodori, insalata, cetriolini e salsine multicolori che fuoriuscivano dall’insieme alla ‘sisalvichipuò’. Sembrava che il panino avesse una vita propria e che quel tizio gliela stesse togliendo ad ampi morsi. Il buffo era che, dinanzi a sé, aveva altre quattro scatolette tutte uguali e del medesimo tipo di quella che doveva aver contenuto l’hamburger che stava sbranando. Gli involucri in questione erano poi inframmezzati da un numero spropositato di contenitori di patatine fritte, molti dei quali ancora pieni. Lo spazio rimasto libero sul tavolo era infine occupato da bicchieri colmi di coca-cola, bustine di altre salse e un gelato.
Sulle prime pensai che fosse la quantità di cibo sufficiente a sfamare una intera comitiva di turisti che, attardatasi da qualche parte, sarebbe all’improvvisa comparsa urlante reclamando il pranzo, ma poi notai che l’unico cliente di quel banchetto era proprio lui. Il fatto che più colpiva era peraltro il forte contrasto tra quella voracità ferina e la corporatura tendente al magro di questo signore che era pure ben vestito a giudicare da quanto emergeva da sopra il tavolo: l’insieme, dunque, non collimava affatto con lo scempio che quello andava combinando.
Inoltre, nonostante che il tavolino fosse situato pressoché al centro della saletta, nessuno dei presenti gli prestava la minima attenzione anche se lui non mancava di mangiare con la bocca aperta – in modo da far intravedere che fine infausta può fare un manzo di pochi mesi – succhiandosi ad intervalli regolari (con relativo schiocco) le dita sporche di maionese e di ketchup.
Dopo aver divorato e bevuto ogni cosa (per un hamburger ebbi pure il sospetto che lo avesse mangiato senza toglierlo dall’involucro) si appoggiò quindi con aria sfinita allo schienale della sedia. Aspettò qualche istante, giusto per far riposare, forse, le sue mandibole tritatutto, dopodiché, preso un bel respiro, lanciò un rutto baritonale della durata di circa un paio di eternità.
Tutti gli astanti finalmente smisero di mangiare per osservare l’autore di cotanto richiamo. Persino la musica diffusa dall’altoparlante sembrò interrompersi.
Poi, per uno di quei moti spontanei di cui solo la gente è capace e che rimangono inspiegabili anche ai più eminenti sociologi, scattò l’applauso.
Senza vergognarsi neanche per un attimo, il tizio si alzò per prendersi e godersi ancor più i ‘meritati’ applausi, accennando persino ad un inchino sia a destra che a sinistra.
 Io, temendo che quel tipo, spinto dall’entusiasmo del momento, si cimentasse anche in altri rumori corporei, mi alzai in fretta e furia e, brandito il mio carrello malinconico, mi misi alla ricerca di Amina, deciso a stanarla in qualsiasi camerino si fosse nascosta.