La pioggia sul tettuccio della macchina stava facendo un fracasso assordante. Erano gocce pesanti e violente, per il freddo e il vento. Amìna mi aveva chiesto di andarla a prendere all’angolo di via Tebaldi e non avevo saputo dirle di no. E così mi trovavo fermo accanto al marciapiede, in attesa, per fortuna al riparo da quel nubifragio; ogni tanto azionavo i tergicristalli: la via era semibuia e temevo che lei potesse non vedermi.
Ad un certo punto scorsi, ad una decina di metri da me, in mezzo alla strada, una figura immobile. Osservai meglio: era un uomo. Indossava un impermeabile scuro, ma era senza ombrello. La pioggia era così fitta che quasi cancellava quella scultura monolitica, inquietante per la sua insensibilità all’acqua gelida che le si stava rovesciando addosso. Ogni tanto alzava il viso verso una luce accesa al primo piano. E lo faceva ritmicamente, come se quella fosse la superficie del mare e lui emergesse dall’abisso per poter respirare.
Una macchina, poco dopo, imboccò lentamente la via: proveniva dalla piazza vicina e il fascio degli abbaglianti finirono per contornare in modo netto quella silhouette innaturale, ma anche tragicamente semplice nell’esser di pietra nata dall’asfalto. La vettura fece i fari; una, due, tre volte, ma senza ottenere strada. Poi si acquietò, come se avesse rinunciato.
Quella scena mi ricordava quella vissuta da me tanti anni addietro e mai rimossa. Avvertii un brivido nell’anima nel riprovare tutta la cupa disperazione di allora, la forza devastante dell’abbandono, il senso di nausea per la vita.
Poi l’uomo alzò per l’ennesima volta gli occhi alla finestra fino a quando la luce si spense. Fu quello il momento in cui si mosse, a testa bassa, verso di me. Me lo vidi arrivare come un fantasma, scivolando sulle bolle d’acqua che la pioggia insistente gonfiava qua e là sulla strada lucida. Per un attimo sfiorò la mia macchina mentre il riverbero debole di un’insegna mi restituì il suo volto. Mi assomigliava. Anzi, chiunque fosse stato al mio posto, in quel preciso attimo, l’avrebbe scambiato per me. La gola mi si fece secca e lo specchietto retrovisore incorniciò la mia faccia sbiancata. Mi voltai al suo passaggio come fossi intenzionato ad attirare la sua intenzione; forse volevo parlargli, forse volevo solo capire meglio.
Ma di scatto la portiera si aprì.
«Ti ho fatto aspettare molto?»
Era Amìna. Mi ero completamente dimenticato di lei. Il suo sorriso radioso entrò in macchina e mi parve persino che avesse smesso di piovere.
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