Lui tornerà

scaleAllora avevo sedici anni. La chitarra a tracolla, la testa fra le nuvole; me ne stavo andando dietro la chiesetta del rione, in una vetreria dismessa dove con i miei amici avevamo ricavato un ‘nostro’ posto dove suonare in pace. E lei mi venne incontro decisa, come se avesse avuto un appuntamento proprio con me. Era una donna ancora giovane, ma dai lineamenti sfioriti, una gonna sgargiante e gonfia, un foulard altrettanto colorato che le nascondeva i capelli facendole sembrare però la testa più grande. Mi si parò innanzi con la sua stazza robusta e io, anziché evitarla, mi bloccai davanti a lei come se non avessi avuto altra strada se non quella che mi impediva. Senza fiatare mi afferrò la mano sinistra e se l’avvicinò al viso. Con l’unghia scheggiata dell’indice segnò una dopo l’altra le linee del mio palmo. Poi abbandonò la mano e, guardandomi fisso negli occhi, mi disse: «Lui tornerà.» Mi aspettavo mi chiedesse dei soldi e invece proseguì per la sua strada con la stessa fretta con cui si era fermata. «Lui tornerà» mi aveva detto, nient’altro.
Dopo qualche giorno che mi interrogavo su quella strana frase mi venne in mente che tempo addietro mia madre mi aveva raccontato che, uscendo in giardino per darmi il biberon, a quel tempo avevo pochi mesi sicché abitavamo ancora ad Alvona, aveva trovato vicino al mio passeggino uno sconosciuto. Si era messa subito a urlare ma l’uomo era rimasto lì, immobile, senza dir nulla, gli occhi allucinati e incerto sul da farsi. Solo dopo un po’, molto lentamente, si allontanò da noi scavalcando la recinzione. Il giorno seguente si seppe dalla Polizia, giunta per il sopralluogo, che quel tizio aveva assestato una coltellata a un uomo in un giardino poco distante, appena una mezz’ora dopo. Ci dissero che non era da escludere potesse tornare e di stare quindi molto attenti: nel timore che questo potesse succedere, i miei genitori traslocarono in un’altra città. ‘Poteva tornare’, era dunque questo il messaggio della zingara più di quindici anni dopo. Per qualche tempo, allora, ci persi il sonno dietro a questa cosa e poi, come spesso accade a un adolescente, mi passò di mente.
Sono trascorsi quarant’anni da allora e adesso vivo solo e da poco sono tornato, dopo varie vicissitudini e peripezie, proprio in quella stessa prima casa, ad Alvona. Mi è venuta in mente la zingara e quella sua frase stramba proprio tre giorni fa quando ho sentito distintamente, nottetempo, qualcuno salire le scale di legno che conducono alla mia camera da letto. Il quarto e il quinto gradino scricchiolano mettendoci il piede sopra: è un rumore leggero, appena avvertibile, ma nel silenzio della casa è una rasoiata nel buio. Anziché reagire mi sono sentito raggelare tanto da non aver avuto neppure il coraggio di scendere dal letto e aprire la porta. Nonostante la mia età, mi ha preso una paura ancestrale, assoluta, paralizzante. Mi sono limitato ad accendere la luce sul comodino e me ne sono rimasto così, tra le lenzuola, ad aspettare che il destino fatalmente si compisse. Ho atteso diverso tempo, non saprei dire quanto. Poi ho ceduto al sonno. Forse il tizio con il coltello ci aveva ripensato e aveva voluto risparmiarmi.
Ma è accaduto di nuovo. Poco fa. Stessa ora, stesso passo, stesso rumore sulla scala. Lui è tornato. Del resto non poteva che essere così: era venuto a terminare il lavoro. Come era il suo stile, la sera precedente era venuto solo a ispezionare il luogo per garantirsi maggiori possibilità di successo. Ho realizzato allora di essere stato un imperdonabile sciocco a credere che fosse tutto finito e a non prepararmi per quella ineluttabile evenienza. Sarebbe bastato mettere una serratura più sicura, avere pronta tra le dita un’arma efficace o semplicemente non farsi trovare lì. Sì, l’ho sentito arrivare sino alla porta e origliare attraverso il legno. Avrei giurato persino di averlo sentito ansimare. Il cuore mi si è fermato nel petto.
Questa volta però, mentre la mia mente era ancora tra le lenzuola, congelata per il terrore, il mio corpo si è alzato come un automa e ha spalancato la porta. Dovevo sapere.
Il corridoio era vuoto. La casa era vuota.
Mi sono solo visto riflesso nello specchio del corridoio e non mi sono riconosciuto.
Lui è tornato’ è vero, ho pensato, dopo qualche attimo osservando a lungo quel tizio allo specchio.
E ho realizzato che non sarebbe stato facile convivere con lui né con tutti i fantasmi del suo passato per quello scampolo di vita che ancora era rimasto da vivere.
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Soddisfazioni

Di ritorno da Pievani, decisi di far sosta a quel supermercato che c’è all’intersezione con la provinciale. Il mio frigo, da qualche giorno, mi appariva tristissimo e inutile, vuoto com’era. Dopo appena qualche slalom, fra bancali e pallets carichi di bendidio, il carrello fu presto ricolmo (anche se di cose che avrebbero fatto morir dal ridere un dietologo); lo stavo spingendo soddisfatto alla macchina quando una zingara, che non avrà avuto vent’anni, subito dopo le porte automatiche di uscita, sbucò all’improvviso dalla penombra crepuscolare strattonandomi il giubbotto.
“Dammi qualche cosa per la creatura che ha fame” – mi disse con una maschera di lucida sofferenza agitandomi sotto il naso un biberon bisunto e macchiato, effettivamente vuoto. Seminascosto da coperte luride, che non avrei usato neppure per riporre la mia motosega, uno scriccioletto di bambino, paonazzo dal freddo, urlava così forte, tra quelle braccia, che sembrava usare i polmoni della madre.
“Dammi qualche soldo per questa creatura, muore di fame, senti come piange, tu sei ricco…” – alludendo al carrello strapieno.
Il mio fu un gesto istintivo e repentino: afferrai un tetrapak di latte che fuoriusciva da una delle buste della spesa e glielo appoggiai tra il bambino e il maglione bucato. E tirai dritto. La ragazza smise di querulare, mentre il piccolo continuava a disperarsi.
Me ne andai alla macchina, turbato. Scaricata la spesa, tornai sui miei passi per mettere a posto il carrello. Ma la zingara, che ora mi dava le spalle, era ancora lì, all’entrata del magazzino. Aveva fermato un altro signore al quale, accompagnandosi con gli stessi gesti che aveva avuto con me, andava ripetendo:
“Dammi qualche cosa per la creatura, che ha fame. Tu sei un bello signore… tu sei ricco!”
Rimisi a posto il carrello, in silenzio, proprio poco distante dal mio tetrapak di latte buttato in un angolo.
Tornato al portabagagli, dalla spesa questa volta tirai fuori un piccolo sottovaso che mi doveva servire per il terrazzo. Andai a riprendere il pacchetto del latte, lo aprii e ne versai parte del contenuto nel sottovaso. Posai il tutto. Ebbi solo il tempo di fare pochi passi quando, con la coda dell’occhio, lo vidi scendere elegante dal muretto da dove non mi aveva mai perso di vista. Al grosso gatto fulvo, dai lunghi baffi argentei, bastarono due soli balzi per essere sopra alla ciotola improvvisata. Mi voltai senza fermarmi:
“Certo che ti avevo visto, furbacchione. Cosa credi?”
Ripartii poco dopo. Con un po’ meno di tristezza nel cuore.