Sembrava che l’ascensore si fosse bloccato. L’uomo assestava colpi sempre più impazienti alla pulsantiera come se dipendesse da quella fare in modo che la cabina arrivasse prima al suo piano. Il numero 15 era fisso sul display. Avrebbe detto che quel numero lo stesse guardando, fisso com’era con quell’occhio rosso, ammiccante. Un numero strano il 15. Ora che ci faceva caso era anche quello di quel giorno e pure dell’autobus che lo aveva portato fin lì. Si sforzò di sorridere, mentre il display ricominciò a lampeggiare e l’ascensore nuovamente a muoversi: 14, 13, 12… Era lentissimo. Un edificio così bello, così moderno e un ascensore così lento. 9, 8, 7… Notò sulla sua sinistra il posacenere a colonna con le cicche di sigarette spente affogate nella sabbia, tutte tranne una: fumava ancora. 3, 2, 1… Le porte si aprirono. Entrò con un solo passo ampio e subito spinse il bottone per il nono piano, era in ritardo. L’ascensore ripartì, con comodo, quasi avesse nei circuiti un sovra dosaggio di calmanti. C’era uno strano profumo lì dentro. Profumo di donna, profumo costoso, molto buono. Dove l’aveva già sentito? Frugò nella memoria, ma il ricordo si nascondeva. Forse si sbagliava… Ma no, accidenti, era un profumo particolare… era sicuro che fosse di qualcuna che conosceva… ma di chi? Respirò profondamente guardandosi attorno a interrogare le porte metalliche e luccicanti. E sotto la superficie di velluto di quella fragranza si fece strada strisciando quella calda di una pelle morbida. Laura! Pensò. Ma certo, sì era lei. Erano anni che l’aveva persa di vista. Possibile che fosse lì in quello stesso palazzo? In quella stessa città? Aveva pensato a lei mille altre volte, chiedendo ai vecchi amici, cercando su internet. Si era trasferita altrove, avevano detto, e di lei non si era saputo più nulla. Al nono piano, dove l’ascensore ubbidiente lo aveva portato, uscì: se avesse proseguito per le scale avrebbe fatto prima. Se fosse andato di corsa al quindicesimo forse l’avrebbe trovata ancora lì, ad aggirarsi per i corridoi. Al diavolo l’appuntamento che aveva. Laura, oh sì Laura: doveva vederla, doveva parlarle, che emozione. Tanti ricordi gli si affollarono in mente in un attimo. Salì una rampa con il cuore che gli si gonfiava nel petto e si fermò. Davanti a un muro.
«Scusi…» disse a una ragazza con dei fogli in mano che era appena uscita da una porta. «E gli altri piani?»
La ragazza si mise a ridere. «Gli altri piani? Ma sta scherzando? Questo palazzo ne ha solo dieci».
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Profumato di mirra
«Un giorno o l’altro devo fare in modo che tu ti ricordi di me. Quando sei lontano da qui non mi pensi affatto e magari guardi le altre.»
Me lo diceva sovente, ma la sua aria da bambina imbronciata non richiedeva una risposta, perché era il suo modo di dirmi che ero solo suo e che non doveva esserci null’altro nella mia testa. Il profumo di mirra della sua pelle faceva, come sempre, il resto e il cuore batteva subito all’impazzata, come se fosse la prima volta che naufragavo in quel mare. Erano minuti rubati alla vita cadenzata da altri, sogni prigionieri, gesti fortemente desiderati, ma valeva la pena di viverli sospesi nel baratro senza curarsi di quanto suggeriva la coscienza.
Ieri, invece, il tempo aveva ritagliato solo un refolo di dolcezza.
‘Passo un attimo per salutarti’ avevo detto per telefono, ma poi lei mi aveva accolto alla porta con un sorriso spudorato, dondolando appena quel corpo morbido avvolto dall’alito caldo del peccato.
‘Va bene… ciao… vai pure’ mi sussurrò attorcigliando l’indice nell’autoreggente e con tono di sfida.
So unicamente di aver chiuso la porta dietro di me, di averla chiusa alla riunione che aspettava in quella sala fumosa, all’icona di seria puntualità costruita nel tempo.
‘Pericolosa’ mi confessai spogliandomi alla rinfusa ‘questa donna è pericolosissima’.
Per fortuna la neve aveva bloccato uno dei capi al passo del Gabbio e la riunione era iniziata pochi secondi prima che entrassi in sala. Nessuno mi disse niente e quando andai ad occupare il mio posto ero ancora sottosopra. Non riuscivo a cancellare le immagini di lei mentre giocava con il mio corpo. Mi passavano davanti come tante slides colorate.
Poi qualcuno fece il mio nome ed io subito, come se mi fossi svegliato in quel momento, posai la borsa sul tavolo sfoderando un’espressione di circostanza. Blaterai qualcosa quando estrassi di slancio la pratica. Ma da sotto il fascicolo volò qualcosa di leggero e di scuro. Era come se l’avessi buttato, di mia volontà, in mezzo al tavolo sotto gli occhi di tutti. Era il suo tanga nero, profumato di mirra.