Prendimi per mano

istanbulNon era stato facile ma alla fine aveva trovato quel libro. Nell’affrontare il capitolo, nello studio che stava preparando, sulle abitudini predatorie di quelle particolari formiche verdi si era accorto che gli mancavano dei dati; certo, avrebbe potuto, e forse anche dovuto, documentarsi sul campo, magari partendo per l’Australia ed esaminare quegli insetti nel loro habitat, ma quella parte del manoscritto, in fondo, era marginale e serviva solo per completare un altro argomento ben più importante e già di per sé ampiamente trattato. E poi i soldi per andare un mese in Australia proprio non ce li aveva, né l’Università glieli avrebbe mai dati. Così, documentarsi altrimenti poteva essere una soluzione.
Matteo era così curioso di leggere il libro ordinato che, non appena lo ritirò in quella biblioteca sconosciuta della città, si sedette nella piccola sala a leggerlo. Sfogliandolo capì però subito che non era affatto un’opera scientifica: era un romanzo, uno stupidissimo romanzo da cui avevano tratto persino un film. Come poteva essere stato così ingenuo? E adesso? Mancava pure poco tempo al termine di consegna del suo lavoro.
Si alzò scuotendo la testa e riconsegnò il libro al desk.
«Già letto?» chiese la ragazza con un sorriso molto dolce. «Mi avevano parlato bene della lettura veloce ma lei è stato strabiliante.»
«No, è che mi sono accorto di aver sbagliato libro…» disse lui meravigliandosi per quella ironia inaspettata.
«Succede, sa?» aggiunse lei ritirando il volume e riponendolo in un carrello. «Molto più spesso di quello che crede».
Matteo rispose al sorriso con un’espressione che voleva dire ‘a me non dovrebbe succedere’ ma la ragazza già non lo stava più guardando. Fece per andarsene.
«Aspetti!» disse ancora la ragazza, gentile.
«Sì?»
«Questo foglio deve essere suo…» disse lei estraendo una carta piegata in quattro dall’interno del libro.
«No, guardi, si sbaglia…»
«Beh, mio non è di certo» insistette lei allungandogli decisa il foglio. Matteo non seppe cosa obbiettare, prese il foglio e uscì. Lo avrebbe gettato nel primo cestino della spazzatura.
Scese le scale. Poi si fermò, aprì il foglio e lo lesse:

Prendimi per mano, amore mio. Tienimi stretto, perché non mi perda nei miei pensieri scuri. Perché non è sufficiente la luce di queste stelle vaporose per vedere dove sta andando la nostra vita. Potrei accorgermi che quanto mi hai dato durante tutti questi anni è stato in realtà solo un sogno o solo la fotografia stinta sul banco di un rigattiere o un racconto, ascoltato distrattamente, di due, proprio come noi, che hanno vissuto, così, banalmente felici di essere insieme. No, fammi vedere dove sono i tuoi occhi: guardami; dimmi che mi sceglieresti ancora un’altra volta e cento e mille altre volte ancora; dimmi che vorresti che tutto intorno a noi si fermasse adesso mentre sorridiamo senza imbarazzi in questo silenzio avvolgente.
Respiriamo profondamente nella notte di questo quadro infinito, tesoro mio, gli occhi semi chiusi, nel gesto di spiccare il volo sopra la campagna addormentata e sentire il desiderio intatto di ritrovarsi uno accanto all’altra per il tempo che ci rimane.

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Melissa

MelissaCapitava spesso di ritrovarsi in biblioteca a studiare. Il lunedì, il mercoledì e il venerdì, il vicino di casa dava lezione di pianoforte e il volume era così alto che gli vibravano persino le penne nel portamatite. E così aveva scelto quell’oasi di silenzio del cuore di Lughi, un antico monastero medioevale, riadattato a biblioteca, che aveva saputo conservarsi un proprio spazio discreto tra le mura antiche di pietra gentile.
E lui l’aveva notata subito. Una bellezza dolce, pensosa, non appariscente, gli occhi scuri e profondi, uno sguardo sempre altrove come non volesse dar fastidio al mondo. Era lei, dolcissimamente lei. Ogni volta che la vedeva, il cuore gli pulsava fin nei polpastrelli e si sentiva una miriade di stuzzicadenti incastrati nella gola. Il suo nome era Melissa, almeno così un giorno aveva sentito chiamarla un’amica. Ma nonostante lui la fissasse, a volte in modo finanche imbarazzante, la ragazza non aveva mai dato l’impressione di essersi accorta della sua presenza, anche quando si spostava di corsa nella sala per uscire e rispondere al cellulare o quando succedeva che, per qualche motivo, gli passava nei pressi.
«È libero questo posto?» si sentì chiedere una mattina. Era Melissa. Non l’aveva vista entrare e ora si trovava davanti a lui, dall’altra parte del tavolo, che lo stava guardando con aria interrogativa e distratta. «È libero questo posto?» insistette lei con assente gentilezza toccando la sedia; il ragazzo finì per annuire. E con delicatezza, quasi fosse un rito, Melissa iniziò a posare sul tavolo un libro di anatomia, l’astuccio delle penne, un block notes, il cellulare e un pacchetto di fazzoletti. Poi si sedette e, senza alzare più lo sguardo verso di lui, che ogni tanto ne sbirciava il profilo, si mise a studiare il testo e a scrivere appunti con la massima concentrazione. Non ci poteva credere: le era così vicino da poterla sentire respirare e si trovava così a poca distanza da lei da poterle rubare il calore e sentirne il profumo. Già, così vicina e così inaccessibile. Pensò anche che quella sarebbe stata l’occasione giusta per parlarle. Magari poche parole soltanto, giusto per stabilire un contatto. Pensò a una battuta. Sul fatto che facesse caldo o piuttosto che facesse freddo oppure che ci fosse tanta gente o che non ce ne fosse affatto. Poteva inavvertitamente toccarle un piede o far scivolare la propria matita fin dove si trovava lei e poi chiederle scusa. No, sarebbe stato tutto troppo banale, troppo infantile: avrebbe fatto solo una gran brutta figura.
Ci pensò su, tormentandosi sulla cosa giusta da dire; fino a quando non sentì rintoccare le campane del vicino duomo: era mezzogiorno. Lo sapeva, lei se ne sarebbe presto andata. E infatti subito si alzò e con la stessa cura con la quale aveva riposto le sue cose sul tavolo, le rimise nel suo zaino. Il ragazzo cercò di incrociare di nuovo il suo sguardo. Chissà, magari avrebbero potuto da quel giorno cominciare a salutarsi e da cosa sarebbe nata cosa… Ma lei si limitò a guardare lo spazio strettamente intorno a sé e in un attimo era già sulla porta e un secondo dopo non c’era più.
Ora il tavolo davanti a lui era desolantemente vuoto. Si sentì uno stupido. Un maledetto ragazzo solo e timido. E stupido. Un’occasione così non gli sarebbe capitata una seconda volta. Era stata lì, davanti a lui, e non aveva saputo dirle nulla. Sembrava persino non ci fosse mai stata. A testimoniare il contrario c’era sul pianale un biglietto scaduto del bus che la ragazza aveva usato come segnalibro. Allungò la mano e lo prese. L’avrebbe tenuto per ricordo. Se lo girò tra le mani.
Su un lato, con pennarello, c’era scritto in bella grafia: Melissa: 358 9900473.

Sulla panca di pietra serena

Era seduto sulla panca di pietra serena al riparo del portico ottocentesco. Uno dei dipendenti della biblioteca, nella sua casacca rossa su cui spiccava la scritta bianca STAFF, faceva buona guardia perché nessuno entrasse prima del tempo.
Persone di ogni tipo stavano arrivando dalla strada alla spicciolata: ragazzi universitari carichi di libri, extracomunitari dall’aria di essere capitati di lì per caso, ma che avrebbero approfittato dell’accesso gratis alla Rete, ragazzini che avevano sgamato la scuola in cerca di un rifugio, alcuni impiegati in giacca e cravatta che lui vedeva spesso, tutti i giorni, senza  aver mai capito che cosa ci facessero in quel luogo.
Tra i giovani lo colpì una ragazza grassa, sola, con una borsa larga color fucsia a tracolla. Fumava prendendo larghe boccate dalla sigaretta, gettando il fumo con la testa in alto, come dovesse mandare un segnale atteso a qualcuno al di là del cortile. Masticava a bocca aperta la gomma che sballottava da una guancia all’altra con tanto di schiocco; lo sguardo era rapido, curioso, e si posava nervoso su tutto quanto la circondava. I jeans erano malamente tagliati sia sulle ginocchia che all’inguine da dove fuoriusciva un rotolo di ciccia informe; altrettanto debordava da sotto la maglietta attillata decoltè non in grado di contenere il seno generoso e straripante. Una collana a doppio filo di pietre di plastica adornava il collo tozzo su cui s’innestava a baionetta un viso tondo dalla forma di una palla da bowling. I capelli biondotinti, con una ciocca di lato color della borsa, scendevano come spaghetti sul volto inespressivo. Per alcuni minuti la ragazza se ne stette in piedi, con l’aria scocciata di dover aspettare, quindi venne a sedersi proprio accanto a lui. Gli si sedette così vicino da impedirgli di tenere aperto il quotidiano.
Trascorsero alcuni attimi; poi, come un’onda calda, gli arrivò alle narici il profumo di lei. Gli aveva dato l’impressione di essere una persona sporca, trasandata, volgare, e invece quell’odore sapeva di pulito, di tenero, infantile: era il profumo delle cose che lo avevano circondato quand’era ragazzo: verbena, lavanda, gelsomino, un fondo di arance amare, una vena di cuoio. Ma c’era probabilmente dentro anche l’odore unico e irripetibile di quella pelle fragrante che sapeva rievocare speranze inespresse, giornate spensierate in compagnia di Lei, progetti arditi per un futuro lontanissimo che appariva però, allora, come una terra facile di conquista. Note brevi e poi più lunghe, persistenti, rassicuranti come una carezza sincera, un sorriso dolce, un abbraccio.
Si accorse che si era messo a fissarla da qualche minuto. Sì, avrebbe voluto improvvisamente stringerla a sé, in uno slancio del tutto irragionevole, vergognandosi persino, subito dopo, di averlo anche solo pensato. La ragazza, che nel frattempo si era messa gli auricolari per ascoltare l’iPod, sentendosi osservata, squadrò l’uomo con i suoi occhi verdazzurri. Passarono alcuni secondi, eterni, in cui lei sbatté più volte le palpebre. Poi gli disse a voce alta:
«Ma che cazzo ti guardi?»