Le utopie del vivere…

Era una giornata tiepida, di intimorita primavera, e Oreste, l’oste del Bar del Cinghiale, a Lughi, ne aveva già approfittato per sistemare i tavolini sulla piazza. E l’uomo era lì, seduto proprio ad un tavolino poco distante dal mio: era impettito, rigido, con due baffi sottili e lunghi. Sembrava uscito da un quadro risorgimentale per quella sua faccia fuori moda, antica, segnata dai buoni principi e dalle utopie del vivere. Dalle espressioni del viso e dalla sua gestualità si comprendeva benissimo che stava rimproverando aspramente i due ragazzi che gli sedevano accanto. Spezzettava la brioche con misurata rabbia facendone piccoli bocconi; poi si azzittiva per quell’attimo che gli era sufficiente a consentirgli di accomodarli delicatamente in bocca; quindi riprendeva con durezza e severità il suo rimbrotto che non sembrava avere mai fine. I due ragazzi erano pallidi, ammutoliti, mortificati per quel diluvio di parole. Mi ricordò il mio professore di greco del liceo, tanto che pensai che quelli fossero i suoi studenti anche se il luogo e l’ora rendevano più plausibile fossero piuttosto i suoi figli. Poi, proprio mentre l’uomo si stava portando alle labbra la tazza calda del caffellatte, un piccione intraprendente, partito da lontano, cabrò su quel tavolino per arrestarsi a poco centimetri dal piatto con i resti della brioche. Forse il volatile calcolò male la manovra di atterraggio perché finì con l’assestare un forte colpo d’ala al volto dell’uomo che, spaventatosi, si rovesciò addosso il liquido bollente spostando all’indietro la sedia che cadde rumorosamente. I due ragazzi iniziarono a ridere a crepapelle come se avessero risposto all’unisono a un comando. Sciolsero in quel riso scomposto tutta la tensione accumulata fino a quel momento. L’uomo, invece, se ne rimase in piedi, con la camicia imbrattata di caffè che gli gocciolava sulle scarpe: la sua credibilità si era frantumata in quell’improbabile schiaffo assestatogli dal piccione. Gettò allora con stizza il tovagliolo a terra dando un calcio alla sedia; e senza neppure voltarsi attraversò tutta la piazza sino a sparire.

Il tortino alla crusca

“Mi fa piacere che lei venga a trovare il dottore, sa? Lavora sempre così tanto ed è anche così sciupato che se ci fosse la sua povera madre, che Dio l’abbia in gloria, non lo riconoscerebbe…”.
La signora Maria, una vecchietta simpatica e dinamica, che fa da infermiera, da donna di servizio e da badante a Tonio, aveva assunto una di quelle sue facce da mamma chioccia che tanto infastidiscono il mio amico.
Ero venuto a trovarlo, il mio amico Tonio, bussando, come spesso faccio quando vado di fretta, alla finestra che dà sul retro del suo studio: è un nostro segnale convenzionale e lui, appena ha finito con il paziente che ha davanti in quel momento, mi fa entrare per far due chiacchiere.
“Per fortuna gli faccio il mio tortino alla crusca e pinoli con le uova fresche di giornata che lo tirano un po’ su.”
In quel mentre Tonio si girò appena, dando le spalle a Maria; fu quello l’attimo in cui alzò gli occhi al cielo in segno di insofferenza.
“Accidenti, ancora quel piccionaccio” esclamò Maria lanciandosi verso la finestra che dà sulla piazzetta principale di Lughi. “E’ sempre qui a insudiciare il davanzale. Se ne sta tutto il giorno sulla testa della statua e poi, appena girò l’occhio, vola fin qui.”
In effetti un piccione grasso come un fagiano spiccò a fatica il volo e dalla finestra di Tonio raggiunse ondeggiante il cappello a punta di Poggi Perti, da dove squadrò la donna con aria scocciata.
“Va bene, adesso devo andare a riordinare un po’ di schede” disse la donna aggiustandosi sul naso gli occhiali e guadagnando l’uscita “torni quando può, mi fa sempre piacere vederla.”
“Anche a me signora” le dissi sincero.
Maria non fece in tempo a chiudere dietro di sé la porta che Tonio sbottò:
“Mi fa venire un’acidità di stomaco quel suo malefico tortino, che non ne hai idea… solo che non ho il coraggio di dirglielo, me lo prepara con tanto amore.”
“E allora lo mangi lo stesso?”
“Non ci penso neppure… perché pensi che il ‘piccionaccio’, tanto grasso, sia sempre alla mia finestra?”