Dulcis in fundo

 

Tirava vento forte, come a volte accade a Poggiobrusco. A ogni folata si vanificava il mio tentativo di raccogliere le foglie in grossi mucchi. Chissà perché, ero convinto che dovesse smettere da un momento all’altro.
«Ne hai da tirarne su» mi fece ‘Svaldi, il nipotino di Nello, nella sua pausa pomeridiana. Con le mani dietro alla schiena accennò quasi ad un giro completo del corpo tenendo però ben salde al terreno le sue gambette nude. Quando cominciò a perdere l’equilibrio, smise.
«Sì, sono più di trenta querce» gli risposi io con rassegnazione.
Lui si guardò ancora attorno e si capiva che stava rimuginando qualcosa. Si morse un paio di volte un labbro quindi sparò:
«Ma perché gli alberi anziché far cadere le foglie, non le ritirano dentro, nei rami? A primavera potrebbero averle già belle e pronte senza doverle rifare.»
Mi appoggiai al rastrello. Quel bambino aveva sempre la facoltà di stupirmi.
«Le foglie cadono perché sono diventate vecchie, è il ciclo della vita» feci io cercando di non assumere un’espressione paternalistica.
«Eh… ma in questo modo si spreca un mucchio di roba e mio nonno mi dice sempre che non si deve mai buttare via niente» così dicendo aveva chiuso gli occhi facendo no con l’indice mosso nell’aria: stava ripetendo a memoria un gesto tipico di Nello.
«Ha ragione tuo nonno. Infatti le foglie non vanno sprecate, servono a nutrire il terreno. Diventano secche, si frantumano e si trasformano in cibo per la terra.»
«E allora perché tu le stai togliendo?»
Cominciavo ad essere a corto di argomenti. Poi aggiunsi:
«Perché a lasciarle sul prato soffocano l’erba.»
«Ho capito» fece lui sorridendo. «Allora avrai un’erba molto bella, ma affamata.»
Avrei voluto spiegargli che, a tempo debito, avrei sparso il concime, ma il discorso si sarebbe fatto più complesso. Ripresi così a rastrellare e a lottare contro il vento anche se stavo meditando di lasciar perdere. Nei miei movimenti a trottola mi girai e vidi che il bambino aveva le mani nell’erba.
«Cosa fai, ‘Svaldi?» gli chiesi incuriosito.
«Le ho dato un cioccolatino così l’erba può mangiare intanto qualcosa. Poi vado a vedere in casa, deve essere rimasto del panettone.»

Le foglie e le nuvole

Era già il secondo giorno che, subito dopo pranzo, me ne andavo a leggere il giornale al Giardino della Maddalena, poco distante dalla piazzetta principale di Lughi. È a pochi passi dal centro, eppure si ha come l’impressione di essere in aperta campagna.
Come la volta precedente, in mezzo al parco, c’era una bambina seduta sul prato. Se ne stava accovacciata come un piccolo capo indiano a scrutare l’immensità della prateria. In realtà, muoveva ogni tanto, quasi in modo impercettibile, l’indice della mano destra, come se stesse dirigendo un’orchestra invisibile.
Cominciai a dare un’occhiata al quotidiano, ma non resistetti a lungo: mi avvicinai.
«Ciao» le dissi.
«Ciao!» mi rispose aggrottando la fronte. «Scusa potresti metterti di lato, sennò non vedo» mi disse subito dopo.
«Scusami…» feci imbarazzato come se avessi capito cosa intendeva dire.
La bambina continuava a indicare un po’ da una parte e un po’ dall’altra, davanti a sé, facendo svolazzare i capelli castani tagliati a caschetto. Fino a quando capii.
«Cosa stai contando?» le domandai.
«Le foglie» mi ribatté con un tono che sottolineava la ovvietà della risposta.
Mi guardai attorno. Effettivamente era pieno di alberi lì attorno e l’autunno, benché da poco iniziato, aveva già sfoltito abbondantemente, complice la siccità estiva, i rami dei tigli e dei platani maculati.
«E perché conti le foglie?» insistetti petulante.
La bambina, aggiustandosi la gonnellina scozzese, mi squadrò come se avesse avuto davanti un alieno e per di più poco sveglio. Poi sbuffò:
«Perché se nessuno si accorge che le foglie ci sono, gli alberi magari, un giorno o l’altro, si stufano di essere ignorati e non le fanno più crescere sui rami. Ho deciso di contarle, così faccio capire loro che per me sono importanti.»
La bambina aveva un’espressione seria come se mi avesse appena rivelato uno dei segreti della vita.
Diedi un’occhiata all’orologio: era tardi.
«Ora devo andare: domani quando torno, se vuoi, ti posso aiutare.»
Lei mi sorrise, mostrandomi un dentino rotto. Poi riprendendo a contare, bofonchiò:
«Alle foglie di penso io. Tu potresti occuparti delle nuvole. Non posso fare tutto io. Ci sono un mucchio di nuvole nel cielo che tutti ignorano. Ce ne sono di bellissime: di piccole piccole, di buffe con enormi nasoni, di grosse nere e grigie…»
«Di nuvole, eh?» feci io facendo finta di saperla lunga. «Perché no?»
«Allora a domani, socio» mi fece lei indicando una manciata di foglie gialle che stava planando sull’erba.
«Sì, a domani.»