Japamala

Per la mia laurea mi ero regalato un viaggio in India. Avevo messo da parte i soldi già da diverso tempo: volevo farmi un giro nella parte più antica e autentica del Paese.
E così dopo tre settimane in cui avevo vissuto esperienze suggestive, conosciuto persone meravigliose e visti paesaggi indimenticabili, mi ritrovavo a Jaipur pronto per prendere la corriera sino all’aeroporto di Nuova Delhi per l’aereo del ritorno. Per far venir l’ora, mi ero messo a gironzolare tra i banchi di un mercato improvvisato, quando mi sono sentito tirare per la camicia. In India le persone prima ti toccano e poi parlano. Di solito sono bambini, nugoli di bambini, che chiedono denaro ma soprattutto cibo, ma a volte sono adulti, come in quel caso.
Il vecchio, dall’aria di un santone, mi voleva vendere un japamala di legno di sandalo e semi di loto. Il suo sguardo oltre che esprimere una profonda e definitiva serenità, come nella maggior parte delle persone che avevo incontrato in quelle settimane, era anche intenso, profondo e vero. Mi decisi così a comprare la ghirlanda anche perché volevo fare un regalo a una persona che mi era molto cara e che lo avrebbe apprezzato. Frugai nelle tasche. Avevo ancora un mucchio di spiccioli, rupie e paise, che non sarei mai riuscito a cambiare in Italia, né avrei più utilizzato altrimenti perché non sarei più tornato in India. Presi allora tutto quello che mi ero rimasto e lo consegnai all’uomo il quale si lasciò andare a un’espressione sbalordita. Per lui doveva essere una somma ragguardevole. Mi indicò solo una delle tante monete che avevo in mano facendomi capire che sarebbe stata sufficiente. Io insistetti e gli diedi tutto. Lui per tutta risposta cominciò a inchinarsi più volte davanti a me con le mani giunte sul viso, pronunciando in rapida successione delle parole ripetute in una specie di mantra. Dopo un po’, mi apprestai a salutarlo, ma lui mi trattenne delicatamente per un braccio facendomi capire di aspettare. Girò intorno al suo traballante banco e da sotto le assi tirò fuori un barattolo di vetro. Quindi, da una scodella piena di acqua sporca, tirò su con una cannuccia di bambù alcune gocce che riversò nel barattolo che subito richiuse. Sorridendo soddisfatto, me lo consegnò come se si separasse da una cosa sacra. Probabilmente mi spiegò anche di cosa si trattava ma ovviamente non capii. La lingua in cui si era espresso non mi pareva neppure tamil, che tanto non sarei stato comunque in grado di capire.

Mi rigirai il barattolo tra le mani durante il viaggio di ritorno. Chissà cosa rappresentava. Era già vuoto. Le poche gocce del liquido che vi erano state versate erano oramai evaporate per il caldo intenso di quei giorni. Riposi tutto nello zaino e non ci pensai più.

Passarono diversi anni, da allora.
Tornai un giorno nella mia casa di studente per portar via alcune cose. Mi stavo per sposare e volevo avere con me, nella mia nuova vita, qualche vecchio libro, la mia lampada da comodino, cui ero molto affezionato, e poco altro. Nell’armadio della mia camera da letto ritrovai, buttato da una parte, lo zaino, fedele compagno dei miei viaggi. Mi venne un tuffo al cuore nel ritrovarlo, venendomi in mente i bei momenti passati in giro per il mondo. Era più vecchio e consunto di quello che ricordavo e non me la sentii di lasciarlo lì.

«Cosa ti sei portato dietro?» mi domandò lei, curiosa come sempre, mentre, davanti alla casa nuova, mi aiutava a scaricare la macchina.
«Alcune cose mie, senza molta importanza; le ho infilate nel mio vecchio zaino» risposi indicandolo con noncuranza.
«Voglio vedere!» fece lei che già stava sciogliendo i lacci. «E questo cos’è?» chiese prendendo in mano il barattolo.
Me ne ero dimenticato. Era rimasto lì dentro per tutti quegli anni.
Lei non aspettò la risposta e svitò in un attimo il coperchio.
E subito ci fu un’esplosione di luci e colori. Contro il cielo azzurro si proiettò con forza irresistibile un arcobaleno sgargiante che, traendo origine dal barattolo, sfondava le nubi per poi fuoriuscirne un chilometro più in là nella curva discendente dell’arco.
Ecco, cosa mi aveva regalato quel vecchio santone.
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dietro il racconto
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L’annaffiatoio

annaffiatoio3Il bus arrivò frenando come se si fosse accorto all’ultimo momento di tutta la gente che era assiepata sotto la pensilina. La vettura era già strapiena e la gente era spazientita che il bus si dovesse fermare ancora per far salire altre persone.
«Ma va alla stazione questo bus?» chiese un’anziana signora al guidatore appena riuscì ad aver ragione del predellino. L’autista, con un berrettino da baseball calcato in testa alla rovescia, la guardò incuriosito. «Va alla stazione questo bus?» ripeté la donna pensando che quello sordo, dopo tutto, fosse lui. L’uomo, dopo un ampio sorriso, rispose: «sissì» e, chiuse le porte, accelerò come per guadagnare il tempo perduto.
«Che giro sta facendo?» fece un uomo robusto, incartato in una tuta arancione sporca di grasso.
«Il giro del 30! Che giro vuole che faccia, suvvia…» rispose una donna dall’età indefinibile con tono stizzito.
«Questo è il 25, non il 30!» annotò un ragazzo con capelli ricci così gonfi che ci avrebbe potuto nascondere una coppia di canarini.
«Ma si figuri lei se questo è il 25! E che non lo so bene io? Lo prendo tutti i giorni per andare dalla mi’ mamma, poverina, che l’è tanto ammalata…» incalzò la donna stizzita.
«Hanno diminuito le corse e le macchine di servizio…» sbuffò un uomo distinto con il trench mentre stava cercando di togliersi da una costola il manubrio di un passeggino. «Le vetture che sono rimaste fanno giri più lunghi… i numeri sono saltati tutti, non corrispondono più a nulla.»
«Ma certo! Di bene in meglio!» se ne uscì l’uomo dalla tuta arancione «e allora come si fa a sapere dove si sta andando?»
«Passa un po’ dappertutto e prima o poi passa anche da dove deve andare lei…» cercò di rassicurare l’uomo in trench.
«Allora io voglio scendere subito, facevo prima a piedi…» sbottò una donna dalla carnagione pallida agitando una busta della spesa da cui faceva l’occhiolino la testa di un astice. «Mi faccia scendere per favore!» urlò.
L’autista si aggiustò un paio di volte il berretto come volesse toglierselo di torno e, squadrando la donna pallida che nel frattempo, facendosi largo tra i passeggeri, gli aveva messo sotto il naso l’astice, le rispose sorridendo: «sissì
«Insomma ci faccia scendere!» gridò un uomo che si trovava in fondo al bus vedendo che la vettura neppure rallentava. Istericamente si associarono altre persone mentre una ragazza giovane si mise a piangere e una donna a battere con l’ombrello contro le porte.
Poi, dopo qualche minuto di totale confusione, il bus inchiodò in pochi metri come un mustang avrebbe fatto incontrando un serpente lungo il sentiero. Le porte si aprirono e la vettura si svuotò in pochi attimi.
Era una giornata radiosa, il cielo azzurro sembrava imprestato da una mattina d’alta montagna: l’aria era profumata e dolce come un abbraccio.
«Ma dove siamo?» chiese l’anziana signora ad alta voce voltandosi tutt’attorno. Davanti a sé, a perdita d’occhio, si apriva un prato infinito di un verde morbido e rassicurante. Era aperta campagna e la città era da qualche parte, lontana, sotto forma di un’idea astratta. Nel prato, diverse persone chiacchieravano tra loro godendosi la temperatura mite, altre avevano un annaffiatoio in mano e, passeggiando, davano l’acqua in alcuni punti dell’erba.
«Cos’è questo posto?» chiese l’uomo in trench con gli occhi che gli brillavano. Una donna dalle lunghe trecce bionde, che si trovava di spalle, si girò:
«Benvenuti, questo è il posto degli arcobaleni» fece lei accompagnandosi con un largo gesto della mano destra.
«Il posto di cosa?» chiese il giovane dai capelli ricci.
«Sì, qui si coltivano arcobaleni e si esportano in tutto il mondo. Si mette nell’erba questo seme colorato qui» e lo tirò fuori dalla tasca del grembiule mostrandolo a tutti quasi fosse una pepita «lo si piazza nell’erba e lo si innaffia. Dopo qualche giorno nasce un arcobaleno.»
«Ma io devo andare a lavorare, non ho tempo da perdere con queste stupidaggini…» sbottò l’uomo in trench voltandosi per tornare al bus che però era sparito.
«Non sono affatto sciocchezze, cosa dice?, e poi anche il suo capo ufficio è qui, così come del resto tutti tuoi colleghi: è arrivato persino il commendator Caliendo» fece con tono avvolgente.
«Sì, ma se me ne sto qui non posso andare a lavorare» protestò ancora l’uomo in trench «e se non lavoro non pago il mutuo. E poi cosa do da mangiare ai miei figli? Gli arcobaleni? A meno che a venderli non si faccia un mucchio di soldi…»
«Gli arcobaleni non si vendono affatto, sono gratis ovviamente: com’è divertente, lei. Comunque non si deve preoccupare, sono qui anche i suoi figli e pure sua moglie… sono in attività già da qualche ora e sono bravissimi, sa?» disse la donna allungando l’annaffiatoio verso l’uomo. «Provi, provi anche lei, è molto facile e i risultati sono garantiti.»
In quel mentre un arcobaleno dai colori nitidi e potenti sgorgò alle loro spalle da un punto dell’erba creando un arco ampissimo che sparò luce colorata nel cuore del cielo. L’uomo in trench rimase a bocca aperta.
«Sì, va bene, ma non si può mica rimanere qui per sempre…» obiettò la donna, un po’ meno stizzita, che si era fatta avanti piazzandosi davanti a quell’altra signora il cui astice si era nascosto nel fondo della busta «tanto l’autista fa il giro che deve fare e prima o poi torna qui, vero? Che c’ho la mi’ mamma poverina che l’è tanto ammalata.»
«La sua mamma è attesa in giornata. Se aspetta qui, la vedrà presto. E comunque gliel’ho chiesto anch’io, all’autista, prima che ripartisse, se sarebbe tornato…» rispose la donna dalle trecce bionde.
«E cos’ha detto, eh? Cos’ha detto?» domandò l’uomo in trench che raccolse finalmente dalle mani della donna bionda l’annaffiatoio.
«Mi ha guardato incuriosito e mi ha sorriso.»
«E poi?» chiesero tutti in coro.
«Mi ha detto ‘sissì’.»
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hat_gy
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