Il prete di prossimità

putto-al-servizio-del-prete

Il giovane prete era seduto dietro a una antica scrivania in legno, piazzata su di un lato dell’unica navata. Sembrava fosse il suo studio e invece era una delle più belle chiese barocche del paese, meta di turisti e visitatori di ogni parte del mondo. La postura dell’uomo era composta, come di chi fosse pronto a rispondere alle più svariate domande della gente. Lui però era concentrato su di un cellulare, sistemato davanti a sé su un apposito supporto. Mentre seguiva ciò che scorreva sul display, si grattava lievemente la parte della fronte più vicina alla tempia in un gesto che sembrava più un tic che una necessità.
«È libero?» si sentì dire con un po’ di eco. Una signora di una certa età, con un foulard scuro sulla testa, una camicetta con gonna abbinata piuttosto vintage, gli si era piazzata davanti. «È libero?» insistette con voce più squillante, visto che l’uomo non le prestava nessuna attenzione.
Il prete alzò la testa e la osservò per metterla a fuoco. Poi si mi mosse di scatto riponendo il cellulare nella tasca della tonaca. «Oh sì, certo» fece alzandosi.
I due si diressero lentamente verso il confessionale più vicino, come se dovessero salire su una vettura per un lungo viaggio; si sistemarono, ciascuno al proprio posto, facendo scricchiolare il legno.
«Non l’ho mai vista in chiesa, però, figliola…» principiò il prete.
«Sì, in effetti, padre, sono di Alvona e sono venuta qui con mio marito e mio figlio per una gita fuori porta…» disse indicandoli nel buio come se il sacerdote potesse accorgersene. «E all’improvviso, vedendola, ho sentito la necessità di confessarmi.»
«Di Alvona? E allora dovrà rivolgersi al parroco di prossimità della sua città.»
«Come dice, scusi?»
«Deve rivolgersi al suo parroco di Alvona. Sono le nuove disposizioni del Concilio Vaticano III, non lo sapeva? Per non creare disparità di penitenze tra i cristiani ci si deve affidare al proprio sacerdote, che infatti, conoscendo meglio la storia di ciascun parrocchiano, può meglio valutare i suoi peccati alla luce del suo vissuto da credente. In tal modo è possibile valutare con più accuratezza la gravità o meno della nuova mancanza; le Avemaria e i Paternostro non si possono mica sprecare…»
«Sì, certo, immagino…»
«Oppure, meglio ancora» continuò il prete, ora con un certo trasporto «potrebbe confessarsi on line sul sito dimmiiltuopeccato.org dove può scegliere la sua parrocchia di appartenenza già al momento della creazione dell’account e confessarsi comodamente dal suo computer o dal cellulare, persino da casa sua o, se è in viaggio, dalla stanza d’albergo o dalla cabina della nave… o in mezzo alla campagna. Comodo no?»
«Sì sì, per carità… per essere comodo lo è senz’altro, ma io sono, come dire, tradizionalista, sa com’è…»
«Certo, capisco, ma bisogna anche stare al passo con i tempi e poi se lei usa il sito che le ho nominato, ogni dieci confessioni ha diritto a un bonus che può spendere per una gita parrocchiale in un santuario di sua scelta oppure aiutare le missioni in Africa cui sarà garantita una donazione o anche adottare un prete…»
«Adottare un prete?»
«Sì, in senso metaforico, ovviamente… può contribuire cioè alla sua formazione, al suo vestiario ma anche, perché no, ai suoi hobby… il Vaticano ha sempre meno soldi, sa, è anche per la crisi delle vocazioni…»
«Capisco…» fece lei poco convinta.
«Oppure, e questa è la vera novità del Concilio Vaticano III, nell’ottica di un panintegralismo monoteistico, può cambiare religione con pochi semplici passi; può diventare, per esempio, musulmana, che è ormai la religione più emergente per via dell’immigrazione massiccia e incontrollata, oppure può abbracciare l’ebraismo che prevede al momento della conversione anche la stipula di una vantaggiosissima polizza assicurativa kasko con la SaremoAngeli S.p.A. contro tutte, e sottolineo tutte, le avversità possibili… e a prezzi, le dico, veramente stracciati. In questo modo non avrebbe il problema di doversi confessare.»
Seguì un silenzio lunghissimo. Poi la donna chiese:
«Ma lei è proprio sicuro di essere un prete cattolico?»

Padre Ercole a quel punto del sogno si svegliò di soprassalto mettendosi seduto sul letto. Era tutto sudato e gli mancava il respiro, il cuore gli batteva forte nella gola. Era già la terza volta in quel mese che faceva un incubo simile. Nella penombra della sua camera da letto sentì in lontananza, nella notte, il rassicurante raglio dell’asino del vicino. Poi si voltò verso la sveglia luminosa. Era ancora presto per la messa del mattino. Si risistemò tra le lenzuola e provò a riprendere sonno.

dietro il racconto
Leggi –> Dietro al racconto

E calò anche il silenzio

Aveva avvertito nella stanza un sommesso tramestio. Sulle prime credette fosse la sua gattina. Lo faceva spesso di uscire durante la notte dalla camera da letto per poi rientrare, di soppiatto, attraverso la porta lasciata accostata. Ma no, non era affatto lei.
Capì invece che era sua moglie che di solito si alzava molto prima di lui, più per abitudine che per necessità. Gli si era accostata pian piano, al bordo del letto, in un modo che di solito non faceva mai. O lo lasciava infatti sempre dormire fino a quando non era il momento in cui lui decideva di alzarsi di suo oppure, se proprio aveva necessità di parlargli, lo svegliava subito, direttamente, senza attendere nemmeno un secondo; come quella volta in cui, nel cuore della notte, aveva sentito un rumore in giardino ed era venuta a chiamarlo, spaventata perché potevano essere i ladri. E invece si scoprì che era una bellissima volpe, che già da qualche tempo arrivava furtiva la notte, dal vicino bosco, a caccia di qualche tortora ritardataria.
E ora lei era vicino a lui, titubante, incerta sul da farsi. Lui non poteva vederla perché era girato su un fianco dando le spalle proprio al lato del letto in cui lei si trovava. Non si decideva. Lui rimase così in ascolto, tanto da credere addirittura che lei se ne fosse andata, che ci avesse ripensato, che, dopo tutto, qualunque cosa avesse voluto chiedergli, avrebbe potuto aspettare.
No, lei era ancora lì, dubbiosa, accostata al lenzuolo, tanto che il letto al contatto tremava appena; la sentiva spostare il peso, nervosamente, da un piede all’altro: deglutiva, si schiariva sommessamente la voce.
Sentì poi all’improvviso la sua mano lieve sulla spalla. Lo scuoteva in modo dolce, chiamandolo.
Così lui finalmente capì.
Passando davanti alla camera da letto, non lo aveva sentito respirare in quel suo solito modo un po’ rumoroso, né lo aveva sentito russare. Allora si era insospettita. Forse c’era qualcosa che non andava, avrà pensato. Era solo una fuggevole stupida sensazione che l’aveva portata in quella stanza e voleva essere rassicurata. Ma nello stesso tempo lei non voleva spaventarlo, né svegliarlo; per quella sciocchezza poi, che le era passata per il capo. Di lì a un momento, avrà sicuramente pensato, lui mormorerà qualcosa tra le labbra intorpidite girandosi verso di lei, e chiedendole cosa stesse accadendo. Perché non poteva che essere così. Era sempre successo così.
Ma quella volta la mano sulla spalla non sortiva alcun effetto; allora iniziò a scrollarlo in modo più deciso facendo il suo nome con insistenza, in modo più chiaro e a voce normale.
Lui avrebbe voluto a quel punto voltarsi per dirle che l’amava, anche per quelle attenzioni che, dopo trentacinque anni di vita insieme, sapeva ancora riservargli. Ma non ce la faceva. Il cervello comandava di muoversi ma i suoi muscoli erano come scollegati, immobili, di sasso.
Nel frattempo, sua moglie cominciò a chiamarlo sempre più forte e alla fine lo girò con forza tra le lenzuola. Accese anche la luce sul comodino. Così si accorse che i suoi occhi erano immobili, aperti, la pupilla sbarrata. Lui la vedeva ancora in una maschera impietrita. Lei si mise a urlare, a disperarsi, a piangere. Sarebbe stato bello consolarla. Asciugare le sue lacrime. Dirle che, dopotutto, non doveva preoccuparsi, che andava tutto bene. Era la cosa più naturale che potesse succedere. Ma non riusciva a pronunciare nemmeno una parola, gli era impossibile. Era come se avesse visto il mondo attraverso un vetro che cresceva in spessore ogni attimo di più. Non sentiva dolore, in realtà non sentiva più niente. Solo una pace interiore, profonda, infinita. Il cuore privo di battito. Il sangue fermo, tra vene e arterie che si stavano seccando.
Poi, delicatamente, come in una muta, si sentì staccare dal letto per galleggiare verso il soffitto.
Vide lei, appena sotto, che abbracciava il suo corpo oramai vuoto, un guscio che stava andando a male ed era buono solo per essere nascosto sotto terra.
Avrebbe desiderato tanto avvertirla che lui non era più in quel letto, che lì non c’era più nessuno, ringraziarla un’ultima volta per l’amore e la felicità che aveva saputo dargli in tutti quegli anni.
Ma non c’era più tempo. Ogni cosa cominciava a sbiadire lentamente. Il cervello si stava spegnendo per scivolare in un buio indelebile e impenetrabile.
E calò anche il silenzio.
Per sempre.

Boxwood Manor

«Vedi cara? Tutto questo un giorno sarà tuo.»
La ragazza, seduta sulla comoda sedia da giardino, alzò appena gli occhi su una fetta del parco della villa.
«Proprio tutto?» fece lei sorridendo verso lo zio Albert che invece, serio, aveva appoggiato il mento sul manico d’osso del bastone da passeggio.
Era un mattino di pieno sole. Le rane gracidavano sguaiatamente nello stagno. I giardinieri stavano domando le siepi di bosso, mentre Philip, il garden designer, dava loro ordini precisi con la sua solita voce da zitella isterica.
«La Signorina prende il solito, per colazione?»
Ginevra sobbalzò. Non aveva sentito arrivare il maggiordomo alla sua sinistra. Il suo passo flemmatico questa volta non era stato tradito dal cigolio delle scarpe nuove.
«Solo un cappuccino, George.»
«Subito, Signorina Ginevra… posso servire qui, nel gazebo?»
«Sì, grazie.»
Lo zio fece solo il gesto che non voleva nulla quando incrociò lo sguardo del domestico. George fece un impercettibile cenno con il capo e sparì in direzione delle cucine.
«Zio, tu che sai tutto… Ma è vero che c’è una realtà… ‘differente’ da questa?»
Zio Albert la guardò preoccupato.
«Ma chi ti mette in testa queste sciocchezze?»
«Così, ho sentito in giro…»
L’anziano uomo aveva sempre saputo che quella ragazza così intelligente prima o poi gli avrebbe fatto quella domanda.
«La realtà è quella che hai sotto gli occhi, Ginevra, non ti basta?»
Il verde attorno a loro era così rigoglioso da essere penetrante. Rufus, il King Cavalier che si era accucciato ai piedi della ragazza alzò per un attimo la testa per guardarla meglio, come se aspettasse anche lui una risposta.
«Sì, certo, è che a volte tutto questo mi sembra… come dire?… precario, provvisorio, come se dovesse finire da un momento all’altro…» precisò lei.
«Siamo proprietari di Boxwood Manor sin dal ‘500; i nostri antenati hanno contribuito a fare la storia di questa Nazione; siamo ricevuti da sovrani e capi di Stato e tu parli di precarietà?»
«Non mi sono spiegata bene, zio; è che… è che a volte ho come l’impressione che quella in cui viviamo sia una realtà… come dire… già scritta.»
«Voi giovani pensate troppo… credevo che il Prof. Lassiter fosse un ottimo precettore…»
«Sì lo è, zio, ti ringrazio, ma è proprio lui che in questi giorni mi sta aprendo gli occhi. Lui mi parla di una vita diversa da questa, parallela, ma vera, reale, contrapposta a questa… totalmente finta.»
«Finta? Ma che assurdità è questa, ragazza mia? Non ti riconosco più.»
«Ma allora perché sono perfettamente consapevole di cosa accadrà fino alla fine di questo episodio?»
«Perché è la nostra natura, Ginevra. Siamo tutti fatti così, non possiamo farci niente.»
«Già, appunto… e perché si parla sempre di altri ‘episodi’, di ‘stagioni’, di ‘serie’, che potrebbero persino non essere rinnovate? E che fine faremmo noi se non lo fossero?»
«Mi stai facendo paura, Ginevra. Boxwood Manor non finirà mai, questa è una saga, la nostra saga, e ha uno share di ascolto altissimo; vivremo ancora in questa unica vera realtà per molte serie a venire. Del resto, io ero ancora un ragazzo quando tutto è iniziato e ora ho ottant’anni e tu non eri neppure nata. Non ti devi minimamente preoccupare. Non esiste nulla al di fuori di tutto questo» disse alzando platealmente il bastone e spostandolo in aria da sinistra verso destra. «Mia cara, ho sentito dire anch’io di queste baggianate» proseguì un po’ affannato «ma ti garantisco che sono senza alcun costrutto e totalmente insensate…»
«Mi sono permesso di portare anche una fetta di torta di mele con un ricciolo di panna acida» disse George comparso ancora una volta all’improvviso. «La sua preferita, Signorina.»
Ginevra lo guardò svogliatamente, immersa nei suoi pensieri. Poi disse sorridendo:
«Grazie, George, ogni volta che vengo qui tu mi vizi sempre.»

Ticket to ride

Le due ragazze erano sedute una di fronte all’altra. Il treno viaggiava a velocità sostenuta mentre la campagna, tra quadrati colorati di marrone e giallo, si stava svegliando. Si raccontavano chissà quali segreti e, ogni tanto, si abbandonavano a risate sonore godendosi il viaggio. Tanto da non sentire il controllore che chiedeva loro i biglietti.
Alla reiterazione della richiesta, sempre cortese, dell’uomo in divisa le due ragazze mostrarono il loro titolo di viaggio. Poi, una di loro, quella più carina, si alzò e, dando le spalle all’amica per non farsi sentire, fermò delicatamente per un braccio il controllore.
«Senta, deve intervenire…» gli disse con decisione.
«Prego?» fece lui alzando due sopracciglia a cespuglio. Il profumo costoso di lei gli arrivò alle narici come un’onda tiepida di risacca, riportandogli alla mente dal passato una sensazione piacevole che non riuscì però a mettere a fuoco.
«Deve fare assolutamente qualcosa. La mia amica, qui, non… non è lei…» insistette.
«In che senso non è lei?»
«Nel senso che sembra la mia amica, ma non lo è, me l’hanno sostituita. Poco fa è andata in bagno e quando è tornata non era più lei. Al suo posto c’è adesso un’altra persona. E io ho paura.»
Il controllore squadrò la ragazza facendo un mezzo passo indietro. Si chiese per un attimo se lo stava prendendo in giro. Si convinse però che era seria.
«Mi dispiace signorina ma a me interessa solo che abbia un biglietto valido» fece riavvicinandosi a lei in modo da rientrare nella nuvola di quel profumo che lo turbava. Sarebbe riuscito a recuperare prima o poi quel ricordo. Pensò.
«Che la sua amica non sia davvero… la sua amica è una questione che esula dalla mia competenza.» proseguì lui. «Quando sarà arrivata a destinazione, se proprio è convinta, può fare denuncia alla Polizia ferroviaria.» Quindi la salutò con garbo e proseguì a richiedere i biglietti agli altri passeggeri.
«Cosa ti diceva il controllore?» fece l’altra ragazza, sorridendo, mentre la sua amica riprendeva il proprio posto.
«Niente, niente, Olivia…»
«Come niente? Siete stati a parlare cinque minuti, ti sei pure alzata per fermarlo.»
«Ti ha messaggiato, poi, Carlo? Ci viene a prendere ad Alvòna?» tagliò corto lei.
«No, non ancora… ma che fai… cambi discorso, Rania?»
La ragazza carina adesso era a disagio. Guardava fuori dal finestrone: una catena montuosa innevata era apparsa all’improvviso sullo sfondo del paesaggio e una fascia larga e bassa di nebbia, adagiata lungo tutta la sua base, la staccava dalla terra consegnandola al cielo. In primo piano, invece, si stava avvicinando un ponte strallato, in acciaio, che brillava al sole. Sembrava lo scheletro di un animale preistorico rimasto incastrato tra due colline.
«No no… è che…»
«È, cosa? Dimmelo, ci diciamo sempre tutto, Rania: di colpo ti sei rabbuiata… cosa è successo?»
La ragazza carina non riusciva a trovare le parole. Poi si decise.
«Dunque, lo sai, Olivia… io faccio spesso questa tratta per lavoro e te lo posso quindi dire con assoluta certezza.»
«Cosa, mi puoi dire?» incalzò l’amica.
«Il controllore.»
«Cos’ha il controllore?»
«Appena l’ho visto l’ho capito subito, tanto che ho voluto parlargli per averne la conferma.»
«La conferma di cosa?»
«Il controllore… non è lui… cioè sembra lui… ma non lo è. L’hanno rimpiazzato con un sosia. È un impostore.»
«Oddio, Rania… ma sei proprio sicura?» fece allarmata l’amica «ma è terribile! Chi potrebbe mai fare una cosa simile? E perché?»
«Ma come sarebbe, Olivia, perché? Sei proprio un’ingenua! È tutto organizzato da ‘loro‘, da ‘quelli là‘» disse abbassando il tono della voce e facendo un gesto secco della testa come se si riferisse ai passeggeri dei posti accanto «’Loro‘, ci controllano, sono dappertutto.»

Distrazioni

Camminava distratto come sempre. Come quella volta che, uscito di casa per andare dal commercialista, pensando alle sue faccende, si era trovato davanti alla porta del proprio ufficio. O quando era tornato dal viaggio dal Gabon, portando con sé, in tasca, la chiave dell’albergo, ma lasciando in quella stanza quella di casa.
Era stato così fin da piccolo. Tanto che i suoi genitori avevano pensato che fosse un bambino più che strano e non mancavano, quando ne combinava una delle sue, di guardarsi l’un l’altra scrollando sconsolati la testa.
Solo che quel giorno stava tornando correttamente a casa, anche se c’era quel problema sul lavoro che lo angustiava davvero molto, tanto da assorbirne totalmente l’attenzione. Pensava a tutte le soluzioni possibili, soppesandone i pro e i contro, valutando persino la percorribilità di alternative poco probabili.
E così, quando alzò lo sguardo da terra per evitare una coppia di turisti dall’aria svagata che gli stava per spalmare il cono gelato addosso, vide all’improvviso davanti a sé suo padre. Fu un attimo. Una specie di corto circuito. Era sorridente, forse un po’ stanco, in là con gli anni. Era fermo nella sua posa tipica che tanto conosceva bene: quella che precedeva un suo abbraccio liberatorio, un abbraccio avvolgente, potente, forte. Dove d’un tratto tutto pareva risolversi, ogni cosa ritornare ad avere un senso ritrovando magicamente il suo posto.
Ma cosa ci faceva lì? Lui che abitava ad Alvona, a centinaia e centinaia di chilometri da quel luogo. Venire così, senza avvertire. Che bello però vederlo, dopo tanto tempo. L’antico desiderio di stare un po’ con lui esplose in tutta la sua forza, insieme alla voglia di perdersi di nuovo nelle sue parole, nella sua voce, nella luce dei suoi occhi. Quanto gli era mancato!
E tutto questo avrebbe avuto anche un significato, se il padre non fosse morto ben nove anni prima. E allora come era possibile?
Così realizzò, ma solamente dopo un po’ che ebbe a schivare la coppia svagata, che se ne ristette spaventata a vedere quel suo modo un po’ scomposto di scattare in avanti, che altro non era che lui nel riflesso nitido della vetrina. Era lui che, invecchiando, era diventato l’esatta copia fisica del padre. Non se ne era mai reso effettivamente conto. Forse perché, quando il padre morì, erano già diversi anni che si erano persi di vista. E adesso questo. In una sorta di nemesi, di eterno ritorno, senza scampo e senza derive, perché il tempo mischia ogni cosa, gioie e dolori, rimorsi e rimpianti, perdoni e infingimenti.
Si trattava solo di un vetro, di un banale riflesso, il proprio sorriso spento sulla faccia. Soprappensiero si era ingannato e il suo subconscio aveva fatto il resto: il padre non c’era affatto, non avrebbe mai potuto essere lì; c’era solo lui che invecchiando aveva preso naturalmente le sembianze del padre. Senza quasi accorgersi, nella sua parabola di vita, era diventato l’altro. Non esisteva più un suo doppio, qualcuno contro cui affermarsi e lottare per la propria indipendenza psicologica e far capire il proprio valore. Il passato lo aveva finalmente raggiunto e si era fuso in lui. La trasformazione si era completata. Era stato un flashback a tradimento giusto per farlo tornare indietro per un attimo, dove tutto pareva ancora possibile, il mondo domabile e le ferite curabili. Per comprendere che il passato e il presente erano diventati oramai qualcosa di irrilevante mentre la vita in realtà era andata inesorabilmente avanti ripiegandosi poi su se stessa tornando daccapo.
Restava dunque, ora, ‘solo’ la parte più difficile da fare, prima che davvero fosse troppo tardi: perdonarsi.