«Ciao Maria, come stai?»
«Chi è?»
«Sono Giulia, non ti ricordi più di me?»
«Oh Giulia… sì, ciao, quanto tempo… cosa sono? Vent’anni? Sì vent’anni, forse ventuno… eh… come sto? Come vuoi che stia?» Il tono di voce della donna da sorpreso si era fatto di nuovo triste con una sfumatura lamentosa.
«Ti ho voluto telefonare per dirti che mi spiace molto…» continuò Giulia.
«Ah… ti dispiace molto? Dopo quello che ci hai fatto? Dopo tutto quello che hai fatto a Paolo? Ti rendi conto che hai reso la nostra vita un inferno? Abbiamo dovuto cambiare casa e città, non potevamo più sopportare gli sguardi della gente. È stato terribile. Ricominciare tutto daccapo, con i figli, il lavoro, gli amici, la nostra vita, insomma.»
«Avevo le mie buone ragioni. Non sono affatto pentita.»
«Ah no? Non sei pentita? Guarda, Giulia, non è proprio il momento… non riesci a fartene una ragione… è possibile? Dopo tutto questo tempo? Ma come dobbiamo fare con te?»
«Sei tu piuttosto che hai rovinato la vita a me e ai miei figli, ai figli che ho avuto da Paolo, prima che tu sbucassi dal nulla. Sono rimasta da sola, con loro a crescerli ed educarli. Senza un centesimo in tasca. Sono stata fin troppo comprensiva con te. Dovevo farti ben altro.»
«Allora perché hai chiamato?» chiese Maria alterata.
«Sono una persona sincera, Maria, al contrario di te. Volevo dirti che sono davvero dispiaciuta… per Paolo, voglio dire.»
«Dispiaciuta? Per Paolo e… e per cosa?»
«Volevo farti le mie sincere condoglianze, davvero.»
«Ma che stai dicendo, Giulia? Cosa ne sai tu della sua malattia? Non lo sa nessuno.»
«…»
«E poi… come sarebbe a dire “condoglianze”? Ma sei matta? È a letto sì, c’è il medico con lui proprio adesso,… sta molto male, è vero, ma è in terapia… si rimetterà presto, ne sono sicura, ci sono ottime speranze e poi siamo in contatto con un luminare di Berna e anche lui dice…»
(rumori di sottofondo. Si sente un grido in lontananza. Un rumore di passi, qualcuno che si avvicina. Una voce maschile dice:).
«Maria… Maria…»
«Un attimo, Giulia…»
(la donna mette una mano sul microfono per non far trapelare la discussione. Ma si riesce ugualmente a sentire, attutita, questa frase: ‘Maria, Paolo è appena spirato…’)
«…»
«Come ti dicevo Maria…» riprese dopo un po’ a dire al telefono Giulia con voce di circostanza «mi dispiace davvero molto per Paolo, dopotutto era una brava persona. Non lo meritavi. Condoglianze vivissime. Non ti disturberò mai più.»
(e riattaccò).
Due gocce d’acqua
«Cosa abbiamo?»
Wilburn era arrivato di corsa, i capelli spettinati, gli occhi stanchi. Solo la divisa era in perfetto ordine.
Jack lo vide arrivare, ma lo aspettò comodamente appoggiato al muro.
«Un Jögger 1600, impazzito!» gli rispose quando era a una distanza tale che avrebbe potuto sentire la sua voce grave.
«Perché, ne fanno ancora?» domandò Will guardando in alto in direzione del terrazzino del nono piano della palazzina di fronte dove un geminoide urlante, stava buttando in strada tutto quello che gli capitava a tiro.
«No, li hanno ritirati dal mercato da almeno vent’anni. Se ne trovano solo al mercato nero. Fanno quasi lo stesso lavoro dei roboidi moderni ma costano un decimo. Un surrogato perfetto, se non fosse…»
Will era come ipnotizzato dalla scena che aveva sotto gli occhi. Da lontano l’illusione che si potesse trattare di un umano, nello specifico di una donna, era pressoché perfetta.
«Se non fosse…?» incalzò il sovrispettore che aveva sentito zittirsi improvvisamente il collega.
«Se non fosse che, per qualche motivo ancora sconosciuto, quando meno te lo aspetti, danno fuori di matto… e diventano pericolosi.»
«… pericolosi… » fece eco Will non distogliendo lo sguardo dal terrazzino «… e ovviamente al mercato nero si sono persi il telemetro per disattivarlo a distanza.»
«Ovviamente.»
Seguirono alcuni attimi di silenzio.
Si udiva solo lo Jögger che sbraitava invettive contro la proprietaria. Aveva appena sradicato dal muro la caldaia termica e l’aveva fatta volare giù di sotto senza alcuno sforzo. Ora era il turno dei vasi dai fiori. Uno aveva appena centrato il parabrezza di una costosissima Hoover Stunt mandandolo in frantumi.
«Cos’è che attira così tanto la tua attenzione, Capo? È solo un ammasso di metallo sintetico» gli chiese Jack che conosceva bene il suo partner.
Per un po’ il sovrispettore Wilburn stette zitto, poi disse: «È che da qui assomiglia tanto a Carla, la mia povera moglie… soprattutto quando si arrabbiava… aveva quel piglio lì… che mi piaceva tanto» fece con la voce incrinata dall’emozione.
Passò ancora qualche secondo; continuavano a piovere sedie e suppellettili.
«Che dici allora Capo… lo abbattiamo? La faccenda si sta facendo critica» chiese Jack tirando fuori dalla macchina il fucile di ordinanza, giusto per rompere l’imbarazzo del momento.
«Sei impazzito?» gli chiese Will. «Le conosci le regole, no? Solo quando diventano pericolosi per gli umani e non mi sembra che quella…»
«Poco fa ha buttato giù un gatto… la signora Miggersmith ci teneva molto…»
Will si girò a guardare il sottoposto. Era serio e ora stava fissando anche lui il terrazzino. A Will non gli era chiaro se stesse scherzando oppure no. Jack era fatto così. Faceva le battute di spirito stando serissimo per poi dire le cose più serie sorridendo. Ma non era sempre così.
«In ogni caso un gatto non è una persona…» sentenziò Will rendendosi conto di quanto suonasse ridicola quella frase.
«Per alcuni lo è…» insistette Jack che continuava a essere serio.
«Faremo invece al solito modo… come da protocollo… non vorrai avere una denuncia del Sindacato Androidi, vero? Sai che scocciatura sarebbe. Lascia lì l’arnese e andiamo.»
I due arrivarono in un attimo al nono piano della palazzina. L’anziana signora Miggersmith era sulla soglia in attesa.
«Avete fatto il vostro comodo, eh? E intanto quella mi sta sfasciando tutta la casa…» li rimproverò l’anziana.
«Sì, buongiorno anche a lei, signora… guardi che lo Jögger l’ha comprato lei… e nonostante il divieto di legge: dovremmo farle la multa» gli ribatté Jack passandole sui piedi.
«E questo cosa vuol dire?» fece la donna irrigidendosi e indurendo la voce.
I due poliziotti erano già entrati circospetti cercando il terrazzino.
«E allora voi che ci state a fare? Lei è proprio un insolente caro giovanotto! Lo sa?» alzò la voce la signora Miggersmith, per farsi sentire senza però mollare la presa sulla maniglia della porta.
Appena il geminoide vide i due poliziotti scavalcò rapidamente la ringhiera e si buttò giù dal nono piano. Cadde malamente.
Il sovrispettore Wilburn e il gerente scelto Jack si sporsero dalla balaustra a guardarlo mentre si rialzava a fatica. Una gamba si era storta nella caduta e stava rilasciando liquido bluastro.
«È spacciato» sentenziò Jack, questa volta sorridendo. «Non esistono più sul mercato i pezzi di ricambio, né tantomeno quel fluido.»
Will rimase un po’ lì a guardare l’androide che, zoppicando, si stava allontanando a fatica. Lasciava dietro a sé una triste macchia scura.
«Andiamo, Capo?»
«Peccato… potevamo arrestarla e chissà… una volta riconvertita, con un adeguato programma educazionale, io avrei potuto…»
«Potuto cosa, Capo?» chiese Jack spazientito per quelle parole.
«Sono… sono davvero due gocce d’acqua, Jack… davvero» disse Will sporgendosi ancora di più per vedere meglio l’androide.
«Quello che stai dicendo, Capo, lo trovo molto morboso… con tutto il rispetto.»
«Hai ragione… Jack» ammise. Poi riprendendosi: «ti va un cheeseburger?»
Barbarella
Lens guardava le sue arnie e aveva voglia di piangere. Era il terzo mattino di seguito che trovava diverse api morte all’ingresso dei ripari. Alcune erano a zampe in su, con l’addome rigonfio, altre erano agonizzanti, le ali sbattute all’impazzata nell’aria come fossero rinchiuse in una bolla invisibile; altre ancora vagavano in tondo spaesate.
«Venegutt, hai ripreso ad utilizzare il pesticida, è vero?»
Lens aveva scavalcato la recinzione e si era inoltrato nel terreno del vicino. Ora gli era davanti con la faccia furibonda. La voce gli tremava dalla rabbia.
Venegutt, dall’alto del trattore, procedeva lento nel campo. Teneva le mani ben salde sul volante come se dovesse far attenzione a evitare le vetture che gli sopraggiungevano contromano. Dopo un po’ il contadino si tolse la sigaretta dalle labbra e fece segno al vecchio che non sentiva bene quello che gli stava dicendo: il rumore del motore era troppo forte. Anche se in realtà aveva capito benissimo.
«Spegni questo catorcio di trattore e dimmi se stai usando di nuovo quel pesticida vietato che mi avevi promesso di non utilizzare più» gli urlò il vicino puntandogli contro il dito ossuto. «Mi stai massacrando tutte le api, maledetto testone…»
Ma Venegutt, fece segno che si stava facendo tardi e che avrebbero parlato con lui più tardi. E lo lasciò lì in mezzo al campo come uno spaventapasseri da buttar via.
Il vecchio se tornò indietro furibondo. Dando calci da tutto quello che trovava sul suo cammino.
E anche il giorno dopo Venegutt non ebbe tempo per parlare con lui, avendo trovato non so quante e quali scuse mentre le api, una dopo l’altra, morivano nel peggiore dei modi.
Lens non riusciva a darsene pace. Aveva messo tutti i suoi risparmi in quelle nove arnie e con quello che riusciva a ricavare con il miele arrotondava anche se di poco la magra pensione. Senza contare che si era affezionato alle sue api e non sopportava di vederle soffrire così.
Pensò e ripensò cosa poteva fare. Denunciare il vicino? Far intervenire le forze dell’ordine? Passare alle maniere forti? Tutto però gli sembrava inutile e soprattutto non tempestivo.
Poi l’indomani accadde quello che qualsiasi apicultore non vorrebbe mai voler sentire. Nessun ronzio si levava più dalle arnie. Solo il silenzio. Un pesantissimo silenzio.
Lens si aggirò incredulo tra le cassette di legno. Le scoperchiò una dopo l’altra: erano completamente vuote. C’erano qua è là solo delle nuove api morte, ma l’intera colonia non c’era più. Avevano dunque preso con evidenza la decisione più saggia per la loro sopravvivenza; erano semplicemente sciamate via.
Centinaia di metri più in là, Venegutt stava guardando la tv nella saletta di casa sua. Stava aspettando che fosse pronta la cena.
Rose, la sua piccola di sette anni, stava cercando la bambola preferita. Non era sotto il letto e neppure tra i cuscini della poltrona. La bambina controllò nella lavatrice e, visto che c’era, anche nel frigo. Poi aprì con le sue manine l’armadio dei suoi. Doveva essere lì, pensò. A volte Barbarella faceva la stupidina e si nascondeva nei posti più impensati, perché le piaceva tanto fare la preziosa. Lei la conosceva bene.
Quando aprì l’anta la sua attenzione fu attirata, però, da una forma oblunga che sembrava viva tutta attorcigliata com’era al cappotto della mamma. E poi quella forma strana emetteva un ronzio grave e melodioso. Quasi ipnotico. Era proprio bella. Rose sorrise e allungò la mano per saggiarne la consistenza.
Gemelli diversi
«Sei già qui?»
«Buongiorno anche a te, caro fratellino…» disse Helmet entrando in casa. Si era appena addentrato di un metro nel corridoio e già lo avevano assalito i mille odori della sua infanzia. E si sentì schiacciare.
Dag gli diede le spalle in un attimo, tornandosene nella sala. Una credenza in noce aveva le ante aperte, lo scrittoio aveva i cassetti che penzolavano nel vuoto e il contenuto di una cassapanca era sparpagliata sul pavimento.
«Sembra che ci siano stati i ladri!» commentò sarcastico Helmet guardandosi in giro con le mani in tasca.
I due fratelli si assomigliavano oramai solo per lo sguardo. Mentre quando erano giovani parevano uno la replica dell’altro, la vita li aveva profondamente modificati nel carattere e nell’aspetto. In particolare, Dag, per colpa di un improvviso rovescio economico, si era ammalato di una forte depressione che gli avevano fatto perdere peso e capelli imbruttendolo. L’altro gemello invece aveva goduto sia di fortuna che di salute: si era trasferito prima a Londra e poi in America ove era diventato un apprezzato e ricco project manager di una grande società internazionale. I rapporti tra loro, con il tempo, erano diventati pessimi.
«Invece è solo una casa vuota dopo la morte di nostra madre…» fece Dag acido «…di cui il Nostro Grand’uomo si sarebbe accorto se fosse arrivato per tempo per il funerale.»
«Non è colpa mia se mi trovavo in Asia per un ciclo di conferenze» disse con sufficienza Helmet lasciandosi cadere su una poltrona. «E dimmi… hai già trovato qualcosa di nostra madre da poter rivendere facilmente?»
Dag si girò a fulminarlo con lo sguardo e poi gli sibilò: «Proprio su quella poltrona ti dovevi sedere?»
«Io e la mamma abbiamo sempre avuto gli stessi gusti.»
«Ah… se è per questo, c’è molto di più!»
«Cosa vuoi dire?»
«Ti ricordi nostra madre che quando eravamo piccini scherzava sempre su fatto che eravamo così uguali che era facile scambiarci l’un con l’altro?»
«Ancora con questa storia?»
«Non è una storia, è tutto nero su bianco, caro il mio fratellino… Ho trovato il diario di mamma.»
«Mamma teneva un diario? Fammelo vedere!» disse Helmet alzandosi dalla poltrona e protendendo una mano.
«A suo tempo… a suo tempo.»
«E cosa c’è scritto?»
«C’è scritto che una sera, al ritorno di nostro padre dal lavoro, era trascorsa sì e no una settimana dal parto, lei lo ha accolto in lacrime confessandogli che facendoci il bagnetto si erano slacciati entrambi i braccialetti con i nostri nomi. In altre parole, non era più in grado di sapete chi era Helmet e chi Dag. Eravamo così identici…»
«Ma non è vero, ti stai inventando tutto…»
«Non è una storia, è tutto nero su bianco, ti dico. I nostri genitori sono rimasti entrambi nell’incertezza fino a quando non hanno dovuto iscriverci a scuola.»
«Insomma, dove vuoi andare a parare?»
«Che ci hanno iscritto a caso, tirando la monetina… abbiamo da allora avuto due istruzioni diverse, due esperienze adolescenziali differenti, due differenti modi di vivere per via di quello sbaglio iniziale.»
«Ma quale sbaglio?»
«Certo, uno sbaglio e ora ne ho le prove. Ho trovato anche la cartella clinica del parto. Bastava leggerla quando era il momento…»
«Cosa c’entra ora la cartella clinica del parto?»
«C’entra centra… durante il parto c’è stata subito una complicazione e per il primo bambino hanno usato il forcipe… L’ostetrico ha lasciato maldestramente una piccola lacerazione, poi subito guarita, sul collo di quello che fu poi chiamato Neonato 1. E al Neonato 1 è stato impartito il nome di Helmet… caro fratellino e tu eri il Neonato 2 con il nome di Dag.»
«Cosa stai dicendo?…» fece Helmet sempre più agitato.
Dag si girò di scatto e scostando un poco i capelli di lato sulla nuca mostrò orgoglioso al fratello una piccola cicatrice.
«Tu ce l’hai questa?» fece lui con gli occhi severi. «Tu sei Dag e io sono Helmet. Questa è la triste verità. Tutto quello che è capitato a me doveva capitare a te e tutta la tua fortuna doveva essere la mia. Hai rubato la mia vita.»
Per un attimo ci fu silenzio. Helmet era rimasto con la bocca aperta. Poi Dag si accasciò a terra e iniziò a piangere a dirotto.
Sostituzioni
Il treno viaggiava sul filo dei trecento orari anche se la pianura si muoveva pigramente sotto ai loro occhi.
«Cosa vai a fare a Milano?» fece Francesco non smettendo di guardare fuori dal finestrone. Stracci di nebbiolina candida intanto galleggiavano eleganti sopra alle zolle scure smosse nei campi.
«Ho una riunione sindacale, sai, quella semestrale…» gli rispose Mario.
«Una vera scocciatura, allora…»
«Ma no dai… queste cose mi piacciono e inoltre mi hanno offerto la direzione interregionale.»
«Caspita, bel colpo… eh già, è vero, a te garbano questi incarichi. Ma non ti manca fare il macchinista?»
«Un po’ e a volte… soprattutto quando sto un po’ troppo dietro a una scrivania. E tu cosa ci vai a fare, invece?»
«Mi hanno messo sulla tratta Milano-Venezia per un mese, hanno aumentato le corse» gli disse con un velo di preoccupazione.
«Capisco.»
Nel frattempo, era arrivata la hostess di bordo. I tre si scambiarono un cenno d’intesa, segno di una pregressa amicizia. Francesco prese il giornale e Mario uno snack salato. Lo scompartimento era tutto pieno. Per lo più uomini e donne d’affari chini sui loro laptop o su telefonini di tutte le dimensioni.
Il cellulare di Francesco si mise a suonare.
«Ciao, Marta…»
«Ciao, Francesco…»
«Perché hai questo tono di voce? È successo qualcosa?»
«Sì, sono molto preoccupata per Roberto… è uscito questa mattina lasciandomi un biglietto sul tavolo della cucina. Ha scritto che la vuole fare finita… che dopo quello che è successo non ce la fa più ad andare avanti.»
«Ma sta così male?»
«Ultimamente si era un po’ ripreso, ma poi ha avuto un altro tracollo… questa notte è stato un inferno: era agitatissimo, andava avanti e indietro per la casa che sembrava una volpe in gabbia. Piangeva e si disperava come fosse stato il primo giorno. Io non ce la facevo più a vederlo in quello stato e così mi sono presa un sonnifero. Mi sono svegliata solo ora e andando in cucina ho letto questo biglietto… Dio mio cosa vorrà fare, France?»
«Vedrai che non farà stupidaggini… lo conosco bene; ha ancora te e tua figlia del resto… il senso di responsabilità prevarrà sicuramente… Hai provato a chiamarlo al cellulare?»
«Certo, in continuazione, ma risulta sempre staccato. Non so, ho paura. È la prima volta che scrive una cosa simile. Ha sempre reagito ma ora mi sembra un sacco vuoto. E poi… e poi ha anche scritto che ha passato una vita da macchinista su treni e morirà come tale… Guidare un treno è l’unica cosa che lo ha reso felice. Capisci? Come se noi non contassimo più nulla. È andato fuori di testa, France, succederà qualcosa di brutto, me lo sento…»
«Marta, devi avvertire subito il capo servizio per diramare lo stato d’allerta. È estremamente pericoloso per l’incolumità dei passeggeri. Pilota un treno ad alta velocità che, se non sbaglio, va giù a Salerno…»
«No, France…»
«Come no?»
«Non l’hai saputo? L’hanno messo a sostituire il Ganci che si è ammalato improvvisamente. Ora sta pilotando l’AV che porta a Milano. Proprio quello su cui state viaggiando voi.»