La Rana fatata

La signora consultava il biglietto stropicciato e ogni tanto metteva nel carrello un barattolo o un pacchetto colorato che sfilava dal bancale.
«Vuoi stare ferma, per favore, Cecilia?»
La bambina, dieci anni appena, svolazzava il vestitino bianco e blu guardando la madre con aria di rimprovero come se chiedesse perché mai non avrebbe dovuto giocare. Ma non disse nulla, continuò a saltellare indifferente con le mani alla vita. La madre scosse la testa e, rituffato lo sguardo nella lunga lista, si portò al reparto alimentari.
«Insomma, basta Cecilia! Mi stai facendo venire mal di testa» sbottò d’un tratto la donna buttando una scatola di biscotti nel carrello.
«Non posso mamma…» fece di rimando la bambina quasi quella risposta facesse parte del suo gioco.
«Sta ferma, ti dico!»
«Non posso, sono una rana e le rane saltano». E raccogliendo le mani al petto, cominciò a gracidare voltando la testa da un lato e dall’altro.
La madre chiuse gli occhi, stringendo il collo di una bottiglia di passata. Poi, sfoderando un sorriso stanco e tirato, domandò con dolcezza: «Perché ti comporti così? Non hai più tre anni…»
«Devo fare bene la rana, mamma, così vinco il premio».
«Premio? Che premio, Cecilia?»
La bambina si fermò per un attimo, assumendo l’espressione di chi volesse dire: ‘Mamma, proprio non capisci niente’, ma si limitò a sospirare: «un vestitino verde, quello della Rana fatata».
«Quale vestitino? Di cosa parli?»
«Me lo ha promesso quel signore là» disse Cecilia indicando un uomo sulla cinquantina, brizzolato, che si allontanava manovrando un portapancali. «Mi ha detto che se imparavo bene a fare la rana dovevo poi andare da lui che mi regalava il vestitino tutto verde della Rana fatata. Ma non dovevo dirti niente perché sarebbe stata una sorpresa per Natale.»

2-2-8

La sentiva spesso, ogni volta che andava all’iper. Poteva accadere di udirla appena entrava o mentre più tardi si aggirava tra i banconi. La voce all’altoparlante scandiva la comunicazione con la solita insopportabile cantilena:
‘Il responsabile di reparto Tonini è pregato di recarsi al 2-2-8’
‘Cassa 7 in chiusura, interpellare il 2-2-8’
‘L’interno 5-6-9 è pregato di mettersi in contatto con il 2-2-8’.
Il tono della voce saliva dal primo numero al secondo per poi impennarsi roca e spegnersi in tono inespressivo. Sempre allo stesso modo, come un messaggio in codice. Ma cosa ci poteva essere al 2-2-8? La domanda finiva per rovistargli nella testa, come un roditore in un magazzino di sementi. C’era la Direzione? L’Ufficio relazioni con il Pubblico? La Presidenza? Il Nulla? Poi meditabondo si infilava alla cassa, pagava e non ci pensava più fino alla volta successiva quando quella comunicazione ricominciava in una serie infinita di variazioni sul tema.
Un sabato nell’iper stavano ristrutturando il reparto ‘prodotti per la casa’ quando superò per errore la linea dei lavori. Forse era caduto un divisorio o forse se ne erano dimenticati di metterlo. Sta di fatto che, anziché tornare indietro, svoltò l’angolo trovandosi davanti alla porta fatidica; un faretto sul muro opposto illuminava discretamente la superficie in plastica lambendo con un bagliore una targhetta di plastica trasparente e la scritta in rosso. Non c’era dubbio: era il 2-2-8. Attese per un po’ che qualcuno entrasse o uscisse di lì. Avrebbe chiesto cortesemente: ‘Scusi, ma cosa c’è al 2-2-8?’ E se ne sarebbe andato. Poche parole, una sola risposta. Ma non passò nessuno. Le voci e i rumori del supermercato arrivano attutite e lui sentiva solo il battito del cuore, ovunque fosse andato a finire. Strinse forte le mani sul carrello e poi lo spinse lateralmente. Si avvicinò. La manopola dorata era lucida, la accolse nel palmo e la girò. C’era un lungo corridoio davanti a sé; poco distante sembravano provenire i suoni e le voci di una festa. Si fece avanti mentre la porta alle sue spalle si chiuse così lentamente che non se ne accorse neppure.
‘C’è nessuno?’ chiese inoltrandosi. ‘Si può? Volevo solo un’informazione…’ Arrivò in fondo al corridoio: le voci ora sembravano provenire da un punto più lontano, forse da dietro l’angolo successivo. E andò avanti e avanti…

Pomodori rossi

La prima avvisaglia l’ebbe al mattino mentre stava andando in ufficio. Fu solo un attimo e gli fu facile far finta di nulla. Gli fu sufficiente concentrarsi su quello che avrebbe dovuto fare la mattina e quella specie di carezza grigia passò veloce come avesse fretta. Alla pausa pranzo si ripresentò. Un po’ più acuta, un po’ più subdola. Forse era stato un profumo o un riflesso di luce chiara. Difficile dirlo. Affogò il malumore nell’aroma del caffè. Di solito un buon caffè poteva bastare. E un sorriso al barman per essere gentile. Sì, un caffè e un sorriso  amaro e la lama della disperazione gli sfiorò il cuore senza abbagliarlo. Era preoccupato. Due attacchi anche se lievi di spleen non presagivano affatto bene, ma non doveva mollare. Il cielo si incupì. L’aria raccolta si mise a giocare con i refoli di una pioggia solo promessa. I piccioni sul cornicione della chiesa si erano fatti sotto l’un l’altro per tenersi al caldo. Arrivò al portone dell’ufficio, per entrare nuovamente, ma poi tirò dritto senza indecisione, come avesse fatto sempre così. Si fermò a comprare il giornale in un’edicola fuori mano. La copia tenuta apposta per lui dal suo edicolante a quell’ora già giaceva nel buio d’uno scaffale. Si voltò in giro, voleva orientarsi, quasi non fosse neppure la sua città. Nel pomeriggio optò per il supermercato. Aveva fatto diligentemente la lista della spesa, ma l’aveva lasciata a casa, sulla scrivania. Improvvisò. Procedette un po’ qua è un po’ là, in modo disordinato, spingendo il carrello che doveva avere una ruota storta. Forse cercava un pomodoro rosso da fare in insalata. Si fermò davanti al cumulo di ortaggi. Li guardò. Erano di un colore debordante, incontenibile. Dall’altoparlante s’irradiò la musica. Dilagò come una malattia: era ovunque, sugli scaffali, tra le dita delle cassiere, nelle sue tasche, nei corridoi bui dei ricordi. E lo spleen rimasto nascosto come una belva nella sua mente scattò all’improvviso prepotente e si ingigantì devastante, a onde successive. Si sentì cedere le gambe. Una tristezza inesauribile lo prese alla gola e lo circondò più volte d’una fitta nebbia a spire. Si sedette per terra, stanchissimo, tra il carrello sghimbescio e alcuni pomodori caduti con lui. Rimase lì, accovacciato, senza difesa, le mani sulla faccia e l’universo sulle spalle. E si mise a piangere senza ritegno, senza un perché.

La parola giusta, al momento giusto

Imbustavo la spesa con la solita fretta, dimentico come sempre di separare gli alimenti dal resto. Nel frattempo la cassiera, una bella signora mora sui quarant’anni, aveva già iniziato a far passare sul lettore a barre la merce di un altro cliente, un uomo brizzolato di bell’aspetto, in giacca e cravatta. L’uomo, con una certa goffaggine, stava riponendo la spesa sul nastro trasportatore agitandosi più di quello che era necessario. Ad un certo momento, però, si fermò e, come se si fosse ricordato di qualcosa, disse alla cassiera:
«È stanca, vero?»
La donna subito non rispose, anche perché non credeva che il cliente stesse parlando con lei. Poi la frase dovette esserle rimasta nel cervello, perché riprendendosi, chiese:
«Perché si nota?»
«Sono occhi stupendi, ma sono anche arrossati…» mormorò lui per non farsi sentire da altre persone.
I lineamenti della cassiera si addolcirono di colpo, ma non aggiunse nulla. Quando consegnò il resto della banconota, che l’uomo le aveva dato, sussurrò solo un sommesso grazie. Poi alzò la cornetta del telefono di servizio premendo un tasto.
Mi ricordo che pensai: ‘La parola giusta al momento giusto. Con poco ha fatto felice una persona.’ E me ne stavo giusto andando quando la cliente successiva, giunta vicina alla signora mora, le fece subito sottovoce:
«Guardi che quel signore, mentre stava parlando con lei spingeva un cestello d’acqua minerale con i piedi e non l’ha pagato.»
La cassiera aveva nel frattempo recuperato i lineamenti duri del volto:
«Lo so, ho appena chiamato la sicurezza» poi con semplicità le domandò «ha la carta socio?»

Mele e pere

peraClara si era fermata a osservare l’amica mentre stava imbustando della frutta.
«Mi vuoi spiegare con stai facendo?» le chiese con aria di rimprovero.
«Sto comprando delle mele, non vedi?» rispose lei senza guardarla.
«Sì ma alle mele stai mischiando le pere, come farai a pesarle?» 
Paola tirò su la busta di plastica trasparente per controllare meglio, poi alzò gli occhi al cielo:
«Gesù… non ci sono più con la testa.»
«Si può sapere cos’hai?»
«Luca mi ha lasciato» confessò lei di botto assumendo un’espressione persa e confusa.
«Adesso però non dirmi che me lo avevi detto!»
Clara non aprì bocca, cercando solo di abortire un sorriso che le stava spuntando sulle labbra. Poi aggiunse:
«E quando è successo?»
«Una settimana fa.»
«È per questo che non ti sei fatta più viva?»
 Paola cercava nervosa le pere nel suo sacchettino per separarle dalle mele, ma non riusciva a individuarle. Quindi continuò:
«Ah, ma non gliel’ho fatta mica passare liscia, sai?»
«Cos’hai combinato?»
Paola sorrise beffarda.
«Mi sono infilata di nascosto nei gabinetti degli uomini dell’iper di Lughi, dei supermercati Brannad di Collefili e Capoglossa e in quelli di un paio di stazioni ferroviarie.»
«A far cosa?» domandò Clara stupefatta.
«Con un pennarello indelebile ho scritto sul muro ‘Maschio voglioso, superdotato, disponibile per ogni capriccio di soli uomini anche gratis. Chiamare a qualsiasi ora’. E poi ho scritto il numero del suo cellulare, quello di casa e del suo ufficio.»