Pomodori rossi

La prima avvisaglia l’ebbe al mattino mentre stava andando in ufficio. Fu solo un attimo e gli fu facile far finta di nulla. Gli fu sufficiente concentrarsi su quello che avrebbe dovuto fare la mattina e quella specie di carezza grigia passò veloce come avesse fretta. Alla pausa pranzo si ripresentò. Un po’ più acuta, un po’ più subdola. Forse era stato un profumo o un riflesso di luce chiara. Difficile dirlo. Affogò il malumore nell’aroma del caffè. Di solito un buon caffè poteva bastare. E un sorriso al barman per essere gentile. Sì, un caffè e un sorriso  amaro e la lama della disperazione gli sfiorò il cuore senza abbagliarlo. Era preoccupato. Due attacchi anche se lievi di spleen non presagivano affatto bene, ma non doveva mollare. Il cielo si incupì. L’aria raccolta si mise a giocare con i refoli di una pioggia solo promessa. I piccioni sul cornicione della chiesa si erano fatti sotto l’un l’altro per tenersi al caldo. Arrivò al portone dell’ufficio, per entrare nuovamente, ma poi tirò dritto senza indecisione, come avesse fatto sempre così. Si fermò a comprare il giornale in un’edicola fuori mano. La copia tenuta apposta per lui dal suo edicolante a quell’ora già giaceva nel buio d’uno scaffale. Si voltò in giro, voleva orientarsi, quasi non fosse neppure la sua città. Nel pomeriggio optò per il supermercato. Aveva fatto diligentemente la lista della spesa, ma l’aveva lasciata a casa, sulla scrivania. Improvvisò. Procedette un po’ qua è un po’ là, in modo disordinato, spingendo il carrello che doveva avere una ruota storta. Forse cercava un pomodoro rosso da fare in insalata. Si fermò davanti al cumulo di ortaggi. Li guardò. Erano di un colore debordante, incontenibile. Dall’altoparlante s’irradiò la musica. Dilagò come una malattia: era ovunque, sugli scaffali, tra le dita delle cassiere, nelle sue tasche, nei corridoi bui dei ricordi. E lo spleen rimasto nascosto come una belva nella sua mente scattò all’improvviso prepotente e si ingigantì devastante, a onde successive. Si sentì cedere le gambe. Una tristezza inesauribile lo prese alla gola e lo circondò più volte d’una fitta nebbia a spire. Si sedette per terra, stanchissimo, tra il carrello sghimbescio e alcuni pomodori caduti con lui. Rimase lì, accovacciato, senza difesa, le mani sulla faccia e l’universo sulle spalle. E si mise a piangere senza ritegno, senza un perché.

11 pensieri su “Pomodori rossi

  1. Attacco di panico, sì, è vero. Ne ho sofferto anch’io, io che credevo di essere inattaccabile, sempre forte da fare rabbia a molti, mi sono ritrovata preda dell’ansia e della paura, paura di non farcela, paura di essere rimasta sola. Poi passa però. La paura, se la guardi in faccia, cessa di turbarti e tu riprendi in mano la tua vita. Perchè, come disse Seneca “Non è perchè le cose sono difficili che non osiamo farle, è perchè noi non osiamo farle che sono difficili”. TT

  2. Zaritmac: sì, il petto di una donna sarebbe la cura migliore, non ho dubbi. Non ho mai avuto dubbi. Anestesie e profumi. Parole e languori. E anche la tristezza, per fitta che sia, si dissolverà.

  3. Ci porti per mano, in questa tristezza che dilaga. Come se fossimo seduti in una barca che tu conduci al largo piano piano, con la nebbia che, intorno, diventa più fitta e cancella il mondo intorno. E’ particolarmente bella questa tua scrittura; ha i toni – sempre nitidi – di una musica struggente che non aggredisce, ma ci perde lentamente, senza ritorno. Seguo i passi di quest’uomo e mi risuona in mente “Oblivion”. Una di quelle cose che ti accarezza, graffiandolo, il cuore. E, vedi, non è tanto sui toni più alti, le note più chiare e distinte; è sul mormorio delle piccole risonanze che si gioca la partita del sottile dolore: l’immaginabile tristezza del giornale abbandonato, l’attesa vana del pomodoro rotolato giù, la fatica del carrello mentre incede senza un lamento… E’ bello, sì. Che vien voglia di accarezzarlo quell’uomo accovacciato. Di stringerselo contro il petto, come fanno le mamme con un bambino disperato, a cui si è rotto l’universo.

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