L’uomo che fuma

Paolo andava di fretta, come al solito. E dire che avrebbe avuto tutto il tempo per procedere a passo lento. Aveva infatti puntato la sveglia con congruo anticipo, giusto per fare le cose con calma, secondo i suoi ritmi. Ma era più forte di lui: non appena il portone di casa sbatteva forte dietro alle sue spalle, gli prendeva la frenesia di arrivare in stazione il più presto possibile. E così si trovava a camminare svelto, in modo meccanico, qualunque ora fosse. Come quel giorno.
Dopo aver attraversato la piazza, all’altezza del Bar del Cinghiale ancora chiuso, intravide nella semioscurità un uomo che, in piedi, stava fumando una sigaretta. Non che potesse essere inusuale che qualcuno fosse in attesa che il bar aprisse, ma perché era tutto sommato troppo presto persino per quello; era, piuttosto, l’ora dei netturbini distratti, dei solerti fornitori di brioches ancora calde, degli oscuri pulitori di strada, visto che i nottambuli irriducibili erano appena andati a letto e i turisti di giornata ancora non avevano abbandonato il confort delle loro stanze d’albergo.
Ma l’uomo che fumava lo guardava fisso, con insistenza, come se reclamasse di essere notato. E invece Paolo gli passò davanti senza incrociare il suo sguardo, facendo persino  il minor rumore possibile con i tacchi delle scarpe, come se potesse diventare all’improvviso davvero invisibile.
Percorse tutta la via, senza voltarsi, anche se il disagio per quello sguardo inopportuno gli si era appiccicato addosso. Superò la gelateria, anch’essa chiusa a quell’ora, superò il monumento equestre al Gattamelata con sulla testa il grasso piccione di turno.
Poi si accorse che sul marciapiede di fronte, c’era una coppia di persone che lo fissava attentamente. Cominciò a preoccuparsi. Vide con la coda dell’occhio che la donna bisbigliava qualcosa all’orecchio dell’altro. L’uomo aveva preso a indicarlo.
Paolo accelerò ancora. Traguardato lo spigolo del palazzo nobiliare dei Gentiloni-Severi s’imbatté in un gruppo di persone che, vedendolo, si alzò dai gradini per andargli incontro. La stazione ferroviaria era ormai vicina, ma non voleva mettersi a correre. Sarebbe stato come ammettere di avere paura. E a lui non piaceva avere paura.
Ma le persone che presero ad avvicinarsi, adesso, erano sempre di più. Sbucavano da ogni dove, come se fosse la sua stessa angoscia a partorirle. Uomini, donne, persino bambini. Tutti lo squadravano con intensità, la faccia seria, imbronciata, quasi dolente.
Ecco la stazione. Si disse a voce alta per rincuorarsi.
Oramai attorno a lui si erano formate due ali inquietanti di persone che gli stavano lasciando libero solo un corridoio talmente  stretto che, se avessero voluto, avrebbero potuto aggiustargli la cravatta.
«Cosa volete?» si mise a gridare. «Lasciatemi in pace… non avete nient’altro di meglio da fare?»
Nessuno gli rispose. Il loro volto, i loro occhi, le labbra serrate erano la loro risposta.
Riuscì a raggiungere finalmente l’atrio della stazione. Era vuoto, come era normale che fosse a quell’ora. Anche se si sarebbe aspettato che non lo fosse affatto, considerate quante persone aveva incontrato fino a quel momento. In realtà, notò ben presto, non c’erano neppure altri passeggeri, né il personale ferroviario né un addetto alle pulizie. Il varco per controllare i biglietti non era presidiato. Lo oltrepassò di corsa e, arrivato nello spazio antistante i binari, si accorse che i display dei cartelloni elettronici erano spenti. Ma ciò che più era grave era l’assenza totale dei treni.
«Oddio, cosa è successo? Adesso come farò a raggiungere l’ufficio?»
Forse tutta quella gente che aveva incontrato voleva avvertirlo. Forse loro sapevano cosa era accaduto o cosa stava per accadere.
Senza pensarci un attimo tornò indietro.
Fuori dalla stazione non c’era però più nessuno.

Poi la moglie lo scosse da sotto le coperte.
«Svegliati, Paolo, svegliati. Non ti deve essere suonata la sveglia. Fai presto o perderai il treno.»