Le lumache arcobaleno

Quando si mise in macchina, Linda capì che era troppo stanca per tornare a casa. Anche se fosse andata a velocità sostenuta non sarebbe mai arrivata prima delle 5 del mattino. Il ritardo del cliente era stato determinante per la durata della riunione e aveva fatto tardi. Decise che si sarebbe fermata per strada rimandando gli appuntamenti dell’indomani mattina.
Partì, ma gli occhi le divennero pesanti che non erano neppure le 22. Attivò il navigatore che le segnalava una pensioncina a Marina di Torregrilli appena uscita dall’autostrada. “Nonno Charlie” si chiamava l’alberghetto; ma anche fosse stato di infimo ordine le sarebbe andato bene lo stesso, visto che doveva schiacciare solo qualche ora di sonno.
La ragazza che l’accolse al bancone era rimasta in silenzio alla sua richiesta di una camera. Linda aveva persino avuto l’impressione che fosse straniera e che non capisse la lingua.
«Vorrei una stanza solo per questa notte» scandì bene le parole, Linda.
«Guardi che avevo capito bene anche la prima volta; pensavo che la sua fosse una battuta» rimbrottò la ragazza un po’ seccata scostandosi nervosa da un lato il ciuffo. «È che non c‘è una stanza libera nel raggio di cinquanta chilometri… lo sanno tutti.»
«Ma io non sono di qui» cercò di giustificarsi Linda «come mai è tutto occupato?»
La ragazza di nuovo non rispose. Linda si stava spazientendo.
«Per la sagra della Lumaca arcobaleno!» sbottò la ragazza  dopo un po’ reagendo al tono della donna. «Lo sanno tutti!»
«Gliel’ho già detto, non sono di qui!» Poi, accortasi che stava alzando la voce, si riprese. Lesse il nome della ragazza sul distintivo che aveva sul petto e disse nel mondo più gentile possibile.
«Senta, Aurora… io sono stanchissima… mi andrebbe bene anche un divano, sono disposta a pagarla bene… purché non debba passare la notte in macchina: fa piuttosto freddo e…»
«Ci sarebbe l’appartamento di Nonno Charlie…» buttò lì la ragazza inteneritasi per quei modi diventati garbati.
«Perfetto, andrà benissimo…»
«Non le darà nessun fastidio… ci sono due stanze da letto e…»
«Le ho detto che andrà benissimo, preferirei pagare ora, però, perché domattina mi devo alzare molto presto.»
«No, per carità, niente soldi…» fece Aurora agitando davanti a sé un dito grassoccio e scuotendo vistosamente la testa. «L’appartamento non fa parte dell’albergo e non è per i clienti. Si tratta di un’eccezione. Diciamo così… lei sarà ospite di mio nonno. Vada quindi su per questa scala, all’ultimo piano, sulla destra… Non ha bisogno di chiavi, è aperto.»
«Grazie… infinitamente» rispose Linda sincera. Salì in fretta i gradini di legno che scricchiolarono al suo passaggio e arrivò alla porta. “Casa di Charlie” era ricamato su un panno a punto croce in una cornice di palissandro. Bussò.
«Nonno Charlie?» fece la donna spingendo adagio l’anta «c’è nessuno?»
Non avendo avuto alcuna risposta, esplorò l’appartamento. Era in effetti molto ampio. Ci si potevano ricavare comodamente almeno altre quattro stanze. Poi trovò una camera da letto piccolina piuttosto disadorna, vicino a un’altra di più grandi dimensioni e ingombra di oggetti e vestiti probabilmente del nonno. Si sistemò in quella più modesta, si lavò e senza neppure mangiare si mise a letto non prima di aver chiuso la porta a chiave.
«Dorme bene?» si sentì chiedere dopo una mezz’ora nel buio della stanza.
«Chi è?» chiese spaventata Linda svegliandosi di soprassalto.
La voce proveniva dal fondo del letto. C’era come un chiarore evanescente che vagheggiava sulle lenzuola, ma forse era solo il riflesso della luna.
«Sono nonno Charlie» sentì bisbigliare «la ringrazio per essersi offerta di farmi compagnia, è da molto che non viene più nessuno a trovarmi. Con la scusa che sono morto mi evitano tutti quanti…»
«Come sarebbe a dire che lei è morto?»
«Sì, dieci anni fa… mi è venuto addosso il trattore… pensavo lo sapesse… lo sanno tutti nella zona. Be’, in ogni caso, abbiamo tutta la notte per parlarne.»

Un errore, solo un errore

GaabQuei corsi di aggiornamento non facevano per lei. Non per l’aggiornamento in sé, perché i temi erano anche interessanti. No, era piuttosto perché si trovava segregata per almeno quattro giorni in un anonimo hotel di periferia a centinaia di chilometri da casa e, per di più, con colleghi spesso noiosi e tutt’altro che simpatici. E anche se i colleghi non erano sempre gli stessi, perché si faceva a turno, poteva capitare, come era successo questa volta, di ritrovarsi con un tipo detestabile come Stefano Binetti, del settore packaging, borioso ometto di un metro e mezzo, che ti guardava dal basso, con gli occhiali spocchiosi e sempre velati di grasso, pronto a vomitarti addosso battute salaci e giudizi moralistici. Sì, non lo sopportava proprio. Per evitare di incontrarlo, Matilde aveva deciso di far colazione prima degli altri, anche a costo di svegliarsi un’ora avanti. E quella mattina, la sala, ancora addormentata nella luce azzurra e indolente del nuovo giorno, la accolse festosa. Il ricco buffet era pronto senza nessun cameriere in giro, cosicché quell’abbondanza, ancora intonsa, sembrava preparata a bell’apposta per lei. Con calma, si fece allora il giro di ogni vassoio e si servì un po’ di tutto, comprese le marmellate fatte in casa e i prodotti da forno ancora caldi. Si sedette soddisfatta a un tavolo d’angolo, immersa in un silenzio rassicurante che aggiungeva un tocco di magia ai profumi che già salivano dal piatto.
Vicino a lei, nel tavolo attiguo, era stato dimenticato un foglio dattiloscritto. Si sarebbe detto un elenco, forse un promemoria. Decise di ignorarlo: qualcuno, con evidenza, l’aveva lasciato lì, confidando nell’ora. Benché si sforzasse però di guardare altrove l’occhio finiva sempre per ricadere su quelle righe. Si arrese: afferrò il foglio e se lo mise sul tavolo. Era l’elenco completo degli ospiti presenti quel giorno in albergo. C’era il nome di Ernesto Guidi, il responsabile del marketing; nella casella accanto vi erano quelle che dovevano essere state le sue richieste all’arrivo: il quotidiano e la sveglia alle 7.45. C’era il nome di Marta Perenni che aveva chiesto un letto aggiuntivo per il marito. Quello di Forestiere e di Baggi e via via di tutti gli altri. Matilde continuò a mangiare. Ci sono tutti i nomi, si disse versandosi il latte. Allora ci deve essere anche quello di Binetti osservò, continuando a masticare. E allora? E allora ci deve essere anche quello di Binetti, si ripeté ossessiva. Non resistette, compulsò i fogli. La lista era formata in base al numero delle stanze. Lesse velocemente e quel nome non c’era. Guardò meglio, ma sì, eccolo lì, stanza 403, Binetti Stefano… e, accanto, la dicitura… ‘h. 23, coperta’.
Coperta? Possibile? L’integerrimo Binetti, il cattolicissimo fustigatore di costumi, lo specchiatissimo dott. Stefano Binetti, aveva chiesto una prostituta in camera? O aveva chiesto davvero una coperta? Ma no, che dico? Che cosa ci poteva fare un uomo obeso come il Binetti con una ‘vera’ coperta a metà luglio?
Mentre si arrovellava su queste semplici domande, una donna in tailleur grigio, con lo stemma dell’hotel all’altezza del risvolto, le arrivò rapida e silenziosa da un lato come una poiana e, senza dire nulla, le strappò via i fogli di mano. Non avrebbero dovuto essere lì, né tantomeno essere letti da un ospite. Questo diceva l’espressione preoccupata del volto di quella donna mentre spariva dietro il bancone della reception.
Una coperta? Si domandò ancora Matilde. Possibile? Sorrise all’idea.
In quel mentre fece ingresso, nemmeno fosse stato evocato, il Binetti. Guardava a destra e sinistra con espressione di sussiego come se a stento trattenesse la voglia di esternare il proprio disgusto al mondo intero che non lo meritava. Incrociò gli occhi di Matilde che non salutò. Il cervello della donna andò, fulmineo, in cortocircuito: qualcosa balenò nelle sinapsi più veloce della sua consueta prudenza:
«E così ieri sera, alle 11, abbiamo avuto compagnia, eh?» fece lei abbozzando un sorriso velenoso.
Il Binetti si bloccò, come se qualcuno gli avesse agganciato ai piedi un ceppo di cemento di qualche tonnellata. Si arrestarono anche alcuni altri colleghi che stavano entrando in sala proprio in quel momento riuscendo tuttavia a percepire ugualmente tutta l’ironia corrosiva della domanda. Il Binetti si voltò con lentezza. Era rosso in volto e il mento gli tremava appena. Balbettò:
«Quel bambino aveva sbagliato camera, ma è andato via subito. Lo posso giurare, io non c’entro niente, è stato solo un errore» disse pressoché urlando. E uscì di corsa dalla sala.

Fiori viola

fiori violaAndava avanti e indietro nella piccola hall dell’albergo. L’amico che doveva venire a prenderlo era in ritardo. Attraverso la porta a vetri dell’ingresso, il sole gettava una pozza di luce sui fiori del cortiletto che rimaneva separato dalla strada da bassi muri di pietra. L’uomo si sentiva addosso lo sguardo della direttrice, una donna corpulenta dai modi spicci che sembrava cresciuta partendo dall’indeformabile e perenne pettinatura di plastica biondiccia che le sovrastava la testa come una bambola d’altri tempi.
«Belli quei gerani, li cura lei?» fece l’uomo senza distogliere lo sguardo dai vasi.
«Come? Ah… quei Pelargonium?» chiese la direttrice con finta noncuranza. «Sì, in effetti mi vengono bene…»
Le piante erano robuste e succose: appena il sole si fosse fatto un po’ più caldo ci sarebbe stata una fioritura invidiabile.
«Beh… allora complimenti» disse sincero.
«Ma ciò che mi viene meglio sono le fucsie» disse lei senza smettere di scrivere nonostante l’uomo si fosse girato verso di lei. «Le ho messe dall’altra parte dello stabile, al riparo; sono piante che non sopportano gli sbalzi di temperatura, non so se ne capisce.» Il tono, adesso, si era fatto odioso e indisponente. L’uomo ci pensò un po’ su poi disse:
«Sì, ha ragione: i fiori possono dare delle gran belle soddisfazioni… io e un mio caro amico abbiamo messo a punto un cultivar di fresia di color viola che l’anno scorso ha vinto il premio speciale Novità all’Interflora 2013 di Amburgo.»
«Un cultivar? Un cultivar di fresia?» fece lei rimanendo a bocca aperta.
«Per carità è ben poca cosa, mi rendo conto…» insistette tornando a guardare i gerani con falsa modestia. «Se vuole, gliene porto uno dovessi ricapitare qui a Collefili…»
Per un po’ la direttrice rimase in silenzio, quindi rilanciò:
«Nel giardino di casa mia coltivo però delle rare rose blu del Madagascar che sono difficilissime da tenere, come del resto le famose orchidee Himantoglossum che però, ovviamente, mi vengono ugualmente una meraviglia; e questo grazie a un particolare concime superintegrato di mia invenzione che sto per brevettare. Se vuole, la prossima volta che viene, gliene do volentieri un gettino…»
«La ringrazio molto, signora, ma alle ‘solite’ orchidee preferisco le ‘originali’ piante carnivore dell’Amazzonia. Nella serra riscaldata di duemila metri quadrati che ho fatto costruire da una ditta fornitrice della NASA ho ottenuto gigantesche piante di Dionaea muscipula così grosse che, mettendone una in soffitta, pensi, mi ha mangiato tutti i topi…»
La signora stava masticando amaro e non sapeva più cosa dire. Nel frattempo era arrivato l’amico e aveva suonato il clacson per segnalare la sua presenza.
«Bene, alla prossima volta, signora, grazie per la piacevole chiacchierata…» salutò visibilmente soddisfatto. Lei gli strinse la mano allungando la sua, molliccia e gelida, aprendogli la porta senza dire nulla. Poi, mentre lo vedeva andar via:
«Ho anche piantato alcune mangrovie e un baobab precoce nel giardino di casa su cui presto farò costruire una casetta-gioco per i miei nipotini…» disse lei ormai straparlando.
«Mangrovie? Baobab?» domandò l’uomo che aveva raggiunto l’amico. «Questi impianti esotici in terreno nostrano sono sempre da sconsigliare perché gli alberi non autoctoni si ammalano facilmente, interferiscono con l’ambiente e inaridiscono la terra. Meglio investire in qualcosa di più utile. Faccia come me: dieci ettari di terra benedetta dal sole da far andare a cabernet franc e sauvignon, e via, uno spettacolo da bere! Arrivederci!»
«Dieci ettari di terra benedetta dal sole?» gli domandò l’amico una volta salito con lui in macchina. «Ma se abiti in un monolocale da 25 metri quadrati, oltretutto mansardati, che quando ci fai entrare un giacinto, devi fare uscire, per ragioni di spazio, il tuo gatto…»
L’amico sorrise. «Sì, lo so. È lei che non lo sa» rispose facendo un cenno con il capo in direzione della donna ancora irrigidita sulla soglia dell’albergo.