Conversazioni

img_2418Arrivato a quella rotatoria l’autista sembrava faticare a convincere il bus a rimanere in strada perché sentiva che in realtà se ne sarebbe andato volentieri da un’altra parte, libero di infrangere la routine del solito tragitto e andarsene a spasso, da solo, nel buio della città.
Ed era poco dopo, alla fermata appena successiva, che una giovane donna dai lunghi capelli bruni, avvitata in un giubbino blu informe, saliva sul bus dopo aver fatto segno al mezzo, in ritardo, di fermarsi.
Non era possibile darle un’età. Nonostante infatti lui non mancasse mai di incontrarla, non era mai riuscito a vederla in volto: i capelli sciolti finivano per mascherarne le sembianze, persino quando scendevano alla stessa fermata in prossimità dell’ufficio: lei si avvicinava alla porta centrale con il busto di tre quarti, quasi di spalle, per poi passargli davanti all’ultimo momento ostacolandone la discesa.
Di lei però sentiva la voce: da quando la vedeva sul marciapiede in attesa di salire sull’autobus fino a quando, dopo la discesa, non la scorgeva sparire in una delle tante vie traverse in prossimità del suo ufficio, lei era sempre al telefono che parlava con qualcuno. Ogni volta, immancabilmente, senza quasi neppure prendere respiro, nonostante fossero le 6 del mattino.
Un giorno salì il controllore e, nel momento in cui le chiese il biglietto con insistenza, visto che lei era assorta al telefono, ne nacque una discussione; la donna si stava giustificando, per qualche motivo, mostrando visibilmente di sentirsi a disagio più per il fatto di aver dovuto interrompere la comunicazione che per essere stata colta senza biglietto. Il controllore le parlava e lei guardava il display scuro del cellulare come per chiedersi come fosse possibile che le stesse accadendo tutto ciò; e il controllore si era finalmente appena allontanato quando il cellulare si mise a suonare.
«Non ci crederai mai…» disse lei con un largo sorriso che le spuntava da sotto la chiostra di capelli «ero qui buona buona che stavo telefonandoti quando mi è arrivato all’improvviso di lato il controllore e…» Le altre parole vennero mangiate dal rumore del motore e lei abbassò il tono della voce voltandosi verso il finestrino.
Trascorsero altri giorni in cui, a parte il controllore, si ripeté più e più volte la stessa scena. La donna era sempre al cellulare che fosse bello o brutto tempo, che fosse buio o ancora chiaro, che fosse estate o pieno inverno.
Poi, una mattina, mentre erano appena scesi entrambi alla solita fermata, mentre lei si camminava davanti a lui con l’orecchio incollato al telefonino, nell’attraversare la strada, una macchina che sopraggiungeva dallo stradone la prese in pieno. La vide volare, come se un gigante l’avesse presa in braccio e scaraventata lontano. Come altri, prese a correre. Trovarono la donna sbalzata contro un cassonetto e con la testa che perdeva sangue. Era attorniata da alcune persone che le prestavano i primi soccorsi. Era immobile, scomposta e pallida, almeno per quel poco che si poteva intravvedere, visto che i capelli le coprivano quasi interamente la faccia.
«Poverina…» disse una signora anziana mettendosi una mano tremolante sulla guancia «era così giovane…»
Nell’attesa che arrivasse l’ambulanza, nello strano e minaccioso silenzio che aleggiava sugli astanti, si sentì squillare un telefonino. La donna semi-svenuta ebbe un fremito. Con la mano tastò il marciapiede vicino a lei fino a quando non prese in mano il suo cellulare.
«Non ci crederai mai…» fece con un filo di voce tirandosi su a stento a sedere  «ero qui buona buona che stavo telefonandoti quando mi è arrivato all’improvviso di lato una macchina e…»

L’annaffiatoio

annaffiatoio3Il bus arrivò frenando come se si fosse accorto all’ultimo momento di tutta la gente che era assiepata sotto la pensilina. La vettura era già strapiena e la gente era spazientita che il bus si dovesse fermare ancora per far salire altre persone.
«Ma va alla stazione questo bus?» chiese un’anziana signora al guidatore appena riuscì ad aver ragione del predellino. L’autista, con un berrettino da baseball calcato in testa alla rovescia, la guardò incuriosito. «Va alla stazione questo bus?» ripeté la donna pensando che quello sordo, dopo tutto, fosse lui. L’uomo, dopo un ampio sorriso, rispose: «sissì» e, chiuse le porte, accelerò come per guadagnare il tempo perduto.
«Che giro sta facendo?» fece un uomo robusto, incartato in una tuta arancione sporca di grasso.
«Il giro del 30! Che giro vuole che faccia, suvvia…» rispose una donna dall’età indefinibile con tono stizzito.
«Questo è il 25, non il 30!» annotò un ragazzo con capelli ricci così gonfi che ci avrebbe potuto nascondere una coppia di canarini.
«Ma si figuri lei se questo è il 25! E che non lo so bene io? Lo prendo tutti i giorni per andare dalla mi’ mamma, poverina, che l’è tanto ammalata…» incalzò la donna stizzita.
«Hanno diminuito le corse e le macchine di servizio…» sbuffò un uomo distinto con il trench mentre stava cercando di togliersi da una costola il manubrio di un passeggino. «Le vetture che sono rimaste fanno giri più lunghi… i numeri sono saltati tutti, non corrispondono più a nulla.»
«Ma certo! Di bene in meglio!» se ne uscì l’uomo dalla tuta arancione «e allora come si fa a sapere dove si sta andando?»
«Passa un po’ dappertutto e prima o poi passa anche da dove deve andare lei…» cercò di rassicurare l’uomo in trench.
«Allora io voglio scendere subito, facevo prima a piedi…» sbottò una donna dalla carnagione pallida agitando una busta della spesa da cui faceva l’occhiolino la testa di un astice. «Mi faccia scendere per favore!» urlò.
L’autista si aggiustò un paio di volte il berretto come volesse toglierselo di torno e, squadrando la donna pallida che nel frattempo, facendosi largo tra i passeggeri, gli aveva messo sotto il naso l’astice, le rispose sorridendo: «sissì
«Insomma ci faccia scendere!» gridò un uomo che si trovava in fondo al bus vedendo che la vettura neppure rallentava. Istericamente si associarono altre persone mentre una ragazza giovane si mise a piangere e una donna a battere con l’ombrello contro le porte.
Poi, dopo qualche minuto di totale confusione, il bus inchiodò in pochi metri come un mustang avrebbe fatto incontrando un serpente lungo il sentiero. Le porte si aprirono e la vettura si svuotò in pochi attimi.
Era una giornata radiosa, il cielo azzurro sembrava imprestato da una mattina d’alta montagna: l’aria era profumata e dolce come un abbraccio.
«Ma dove siamo?» chiese l’anziana signora ad alta voce voltandosi tutt’attorno. Davanti a sé, a perdita d’occhio, si apriva un prato infinito di un verde morbido e rassicurante. Era aperta campagna e la città era da qualche parte, lontana, sotto forma di un’idea astratta. Nel prato, diverse persone chiacchieravano tra loro godendosi la temperatura mite, altre avevano un annaffiatoio in mano e, passeggiando, davano l’acqua in alcuni punti dell’erba.
«Cos’è questo posto?» chiese l’uomo in trench con gli occhi che gli brillavano. Una donna dalle lunghe trecce bionde, che si trovava di spalle, si girò:
«Benvenuti, questo è il posto degli arcobaleni» fece lei accompagnandosi con un largo gesto della mano destra.
«Il posto di cosa?» chiese il giovane dai capelli ricci.
«Sì, qui si coltivano arcobaleni e si esportano in tutto il mondo. Si mette nell’erba questo seme colorato qui» e lo tirò fuori dalla tasca del grembiule mostrandolo a tutti quasi fosse una pepita «lo si piazza nell’erba e lo si innaffia. Dopo qualche giorno nasce un arcobaleno.»
«Ma io devo andare a lavorare, non ho tempo da perdere con queste stupidaggini…» sbottò l’uomo in trench voltandosi per tornare al bus che però era sparito.
«Non sono affatto sciocchezze, cosa dice?, e poi anche il suo capo ufficio è qui, così come del resto tutti tuoi colleghi: è arrivato persino il commendator Caliendo» fece con tono avvolgente.
«Sì, ma se me ne sto qui non posso andare a lavorare» protestò ancora l’uomo in trench «e se non lavoro non pago il mutuo. E poi cosa do da mangiare ai miei figli? Gli arcobaleni? A meno che a venderli non si faccia un mucchio di soldi…»
«Gli arcobaleni non si vendono affatto, sono gratis ovviamente: com’è divertente, lei. Comunque non si deve preoccupare, sono qui anche i suoi figli e pure sua moglie… sono in attività già da qualche ora e sono bravissimi, sa?» disse la donna allungando l’annaffiatoio verso l’uomo. «Provi, provi anche lei, è molto facile e i risultati sono garantiti.»
In quel mentre un arcobaleno dai colori nitidi e potenti sgorgò alle loro spalle da un punto dell’erba creando un arco ampissimo che sparò luce colorata nel cuore del cielo. L’uomo in trench rimase a bocca aperta.
«Sì, va bene, ma non si può mica rimanere qui per sempre…» obiettò la donna, un po’ meno stizzita, che si era fatta avanti piazzandosi davanti a quell’altra signora il cui astice si era nascosto nel fondo della busta «tanto l’autista fa il giro che deve fare e prima o poi torna qui, vero? Che c’ho la mi’ mamma poverina che l’è tanto ammalata.»
«La sua mamma è attesa in giornata. Se aspetta qui, la vedrà presto. E comunque gliel’ho chiesto anch’io, all’autista, prima che ripartisse, se sarebbe tornato…» rispose la donna dalle trecce bionde.
«E cos’ha detto, eh? Cos’ha detto?» domandò l’uomo in trench che raccolse finalmente dalle mani della donna bionda l’annaffiatoio.
«Mi ha guardato incuriosito e mi ha sorriso.»
«E poi?» chiesero tutti in coro.
«Mi ha detto ‘sissì’.»
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Cinthia

mongolfiere

Mia dolce Cinthia,
finalmente ti scrivo dopo mesi dall’ultima volta che ci siamo visti.
Devo essere sincero: ci sono rimasto piuttosto male non incontrarti più e avevo deciso di rispettare la tua decisione, come d’accordo.

Ma poi, durante tutto questo tempo, mi sono tornati in mente i bei momenti passati insieme. Ho ripensato in particolare alla prima volta che ci siamo incontrati, sul 15, su cui ero salito anch’io per far un giro per Alvona e tu era lì che invece cercavi una strada per un colloquio di lavoro. Ti ricordi? Avevi sul volto preoccupato un’espressione curiosa, intensa e tenera e, d’un tratto, mi hai rivolto la parola. Lo facesti in modo che, ti confesso, mi si annebbiò il cervello. Forse mi chiedesti se quella era la via taldeitali ma a me suonò come: ‘ti andrebbe se ora io e te scappassimo insieme?’
Così sono sceso, dietro di te, anche se era mia attenzione proseguire; e siamo andati tutti e due a quel colloquio dove, non so per quale motivo, ho improvvisato la parte del tuo ultimo ex datore di lavoro costretto per ragioni economiche a ridurre il personale, ma deciso a raccomandare le tue doti professionali. Ci siamo divertiti un sacco. Ma poi il tizio con cui parlammo non ti piacque e rifiutasti un lavoro già tuo.

Quelle che sono seguite sono state ore indimenticabili; ci sembrava così naturale perderci per la città parlando e scherzando. Sei una ragazza dolce, appassionata e sai ascoltare con quei tuoi occhioni tristi color del miele. Accidenti se mi manchi.
E così, quando a distanza di qualche settimana sono ritornato ad Alvona, ci siamo rivisti davanti all’anfiteatro, dove ci eravamo dati il secondo appuntamento. Eri bella più che mai e mi sembravi tanto felice di vedermi. E dire che potevi anche non venire. Non ci eravamo infatti mai dati il rispettivo numero di telefono. Avevamo pensato che sarebbe stato più semplice così, qualora non avessimo voluto più incontrarci: sarebbe bastato saltare l’appuntamento convenuto la volta precedente, senza dare troppe spiegazioni, e tutto sarebbe finito lì. In quei giorni, chissà perché, ci sembrava un’idea romantica, persino un gioco, anche se, in cuor nostro, sapevamo che non ne avremmo mai fatto nulla perché eravamo certi che avremmo continuato a frequentarci. Ma così purtroppo non è stato. La terza volta sei mancata all’appuntamento, come sai, e io mi sono sentito morire.
A distanza di tempo mi sono convinto che non potevano essere insincere le tue parole, né i tuoi baci, né ciò che abbiamo provato l’uno per l’altra; inoltre c’era la possibilità concreta che tu non fossi venuta solo per un mero contrattempo, un disguido che non mi hai potuto comunicare proprio perché non avevi il mio numero di telefono. E questo pensiero ora non mi lascia più dormire.
È per tale ragione che ti invio questa lettera. Lo so, fa molto antico, ma non ho altra scelta in mancanza di altri recapiti. Per fortuna è successo che ti ho accompagnato fino a casa: ciò mi ha dato la possibilità di memorizzare il tuo indirizzo. Almeno quello. Insomma, vorrei evitare che uno stupido contrattempo si metta crudelmente tra di noi.
Scusami, sono stato un insensibile a credere esclusivamente che non volessi più vedermi. Ti penso e ho tanta voglia di vederti. Scrivimi, ti prego, o telefonami a questo numero. Un bacio.
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Piegò la lettera nella busta e andò subito alla posta per spedirla. Non poteva aspettare un giorno di più e la inviò con una tariffa tale che ci mettesse il più breve tempo possibile ad arrivare.
Spiò il giorno seguente l’arrivo del postino. Ma fu solo il giorno successivo che lo vide far scivolare nella sua casella di posta una busta. ‘Aveva risposto, aveva risposto!’ si disse eccitato come un ragazzino. In un salto fu subito nell’androne. Aprì lo sportellino. Era la busta che aveva inviato lui. Sopra, qualcuno ci aveva scritto con grafia tremolante: “destinatario sconosciuto all’indirizzo”.

Rumori e colori

rosaScendeva le scale di corsa. Un paio di volte Saverio mancò il gradino. Le scale ripide del centro non aiutavano quando si andava di fretta. Ed era lì lì per aprire il portone quando si ricordò della rosa: era rimasta nel suo bell’involucro trasparente sul mobile del corridoio. No, non poteva farne a meno. Era il suo primo mese con lei e voleva sottolinearlo anche così, non appena l’avesse incontrata. Ancora non si capacitava di stare con una ragazza simile, dopo averla desiderata per così tanto tempo. Guardò l’orologio con un’espressione di supplica perché non gli dicesse che era davvero tardi. Le lancette furono implacabili. No, doveva tornare su, se ne era reso finalmente conto. Tre minuti dopo era di nuovo al portone, questa volta con le gambe rigide come pilastri di calcestruzzo, ma con la rosa in mano: una baccarat rosso cupo che pareva ritagliata nel velluto; lunghissima, profumata, stordente per la sua bellezza. Resistette al tentativo di mettersi a correre: la delicatezza del fiore non l’avrebbe sopportato. Per fortuna doveva solo attraversare la piazza: la casa di lei era a pochi passi. S’incamminò, ma quello fu anche il momento in cui fu investito da un boato assordante mentre il terreno si mise a sussultare quasi si fosse trovato su un tappeto tirato violentemente da un lato. Una bomba, pensò. E invece a cinquanta metri da lui, in mezzo alla piazza, là ove di solito prendeva posto il mercato del lunedì, si era aperta una voragine. Era proprio come nei film: una depressione al centro e poi uno sprofondo ad allargarsi a raggiera per una ventina di metri di diametro. Un fumo di polvere e detriti si era sparsa nel cielo gettando al suolo una penombra malata e un vento gelido si era levato tutto intorno. Si sentivano grida, suoni scomposti, clacson incantati sulla loro nota più sgradevole. Poi un gatto passò di lì, per curiosità. Si spinse sull’orlo della voragine per annusare l’aria. E un momento dopo non c’era più. È caduto, pensò Saverio avvicinandosi. Ma subito una city car, parcheggiata poco lontano, cominciò a muoversi verso la buca. La sentì gemere sulle lastre di pietra come un animale ferito che volesse sfuggire a una trappola mortale; il proprietario la stava in qualche modo trattenendo, ma il vortice era irresistibile, la forza soverchiante. Per non cadere anche lui, l’uomo si arrese lasciandola andare all’improvviso con un gesto disperato seguendola con gli occhi mentre la vedeva volar giù. Quindi presero ad essere risucchiati nell’enorme spaccatura alcuni ombrelloni di un bar, le sedie più vicine, i tavoli, i cartelloni dei menu. Iniziarono a essere trascinate anche le persone: una giovane donna uscita dalla farmacia, lo stesso proprietario della macchina, una turista giapponese con un buffo ombrellino che agitava sopra la testa. Si tenevano tutti per mano, per fare resistenza, aggrappandosi l’uno all’altra ai cartelli stradali che però si spezzavano in due come bastoncini del gelato. E più le cose e le persone cadevano là dentro, più sembrava che l’appetito di quelle fauci spalancate diventasse insaziabile. Saverio anziché fuggire, ormai dimentico della sua ragazza, si era spinto fin sull’orlo del precipizio, ipnotizzato da quanto stava accadendo. Assisteva impotente a quel cataclisma, osservando infilarsi giù nel baratro, in un unico gorgo buio, piccioni e cani, moto e biciclette, una carrozzella con tanto di cavallo e fiaccheraio e persino un autobus intero che lasciò nell’aria una striscia arancione come una cometa; quindi fu la volta dei rumori, dei colori, dei pensieri e finanche dei ricordi più remoti. Tutto ciò che era nelle vicinanze veniva ingurgitato senza pietà da quell’orrido crudele, muto e silenzioso. Un bimbo di pochi mesi, proveniente chissà da dove, volando come una foglia morta, fu afferrato al volo da Saverio poco prima che finisse nell’abisso. Per far ciò lasciò andare la rosa che cadde luminosa nella voragine torbida fino a quando non la vide più. E il turbinio violento allora cessò di colpo. Tornarono i suoni quotidiani, i colori vividi del mattino, la consapevolezza del presente. Una signora, stravolta nel volto e nell’animo, gli si avvicinò furibonda per strappargli dalle braccia, senza dir nulla, il bimbo che non stava neppure piangendo.
«Con i tempi che ci mette il Comune a riparare le buche delle strade, chissà quanto ci vorrà per ricoprire questa…» sbuffò un vecchietto indicando la voragine con il suo bastone.

Crash test

tramontoL’autobus se lo stava portando via in quel pomeriggio inoltrato con il suo fagotto di pensieri tristi e un peso nel cuore. Se lo trascinava alla stazione e da lì in un’altra città, tra altra gente, tra altre esistenze, come la sua. L’autista maldestro metteva a dura prova il suo equilibrio, diviso tra uno zaino ingombrante e una valigia scura come il fondo della notte che avanzava lenta da est. Aveva lasciato il posto a sedere a un’anziana signora che si era accomodata senza guardarlo negli occhi, con la sollecitudine di chi non avrebbe mai detto ‘grazie’ per un qualcosa che le sarebbe spettato comunque.
Pioveva da giorni e l’asfalto luccicava di lustrini quasi avesse messo il vestito da sera, ribaltando le insegne colorate dei bar e dei negozi semivuoti; e ora, d’un tratto, nel cielo gonfio di ombre piene di malumore si era fatta strada una lingua di sole che volgeva al tramonto; caramellava di luce le cime dei tetti e i piani della case più alte che parevano ora finanche più alte per godersi quei tiepidi raggi obliqui, sparati in ogni direzione da un fuoco divampato senza controllo. La città era divisa in due. Sotto, il grigiore confuso dell’andirivieni distratto di gente indaffarata sulla via di casa e, in alto, sopra la riga di luce tracciata con il compasso, una città eterea, dipinta di giallo e d’arancione, come una promessa strappata a un cuore indifferente, abitata da semidei dai sogni intessuti di fili d’oro e di rugiada.
Accanto a lui, le persone continuavano a salire e scendere dal bus come per recitare il copione quotidiano di una città qualunque; occhi, visi, espressioni tutte eguali, ripetute all’infinito in un’eco di solitudine senza pace; gli stessi gesti, le stesse parole, gli stessi oggetti tra le mani.
Poi il bus abbandonò la piazza e si scapicollò per la discesa a senso unico deciso ad arrivare. Il respiro della stazione ormai era a pochi passi; si poteva sentire l’odore dei treni, dell’elettricità tra i binari, si poteva ascoltare con il vento buono l’altoparlante logorroico a tentar di mettere ordine nel caos di chi parte e di chi arriva.
Lui alzò per un attimo lo sguardo verso il cielo attraverso il finestrino ricamato di gocce di pioggia: un arcobaleno imponente stava sgomitando tra i palazzi troppo stretti per lui. I suoi colori erano così nitidi da poterli contare a uno a uno ed erano tanto compatti da poterli attraversare come un ponte proteso tra le facciate stupefatte, se solo chi l’avesse visto dalla propria finestra vi si fosse affidato a piedi nudi e a cuore puro. Lui rimase a bocca aperta. Non ne aveva mai visto uno così grande, così vicino e all’interno della città. Si girò verso una signora che teneva stretta a sé una bambina e le disse: “guardi, un arcobaleno!” ma le sue parole furono masticate dal motore su di giri del bus mentre la donna lo guardò con sufficienza avendo creduto volesse solo attaccare discorso. Allora lui si rivolse alla bambina: “guarda che arcobaleno c’è là fuori” e lo indicò per un attimo sfidando il suo equilibrio già precario. Ma la piccola lo squadrò sospettosa come solo i bambini sanno fare quando vedono qualcosa e non la comprendono. Nessuno si era accorto di quella meraviglia. Nessuno. Vicino a lui solo volti vuoti, abbozzati da un disegnatore sbrigativo e senza talento, manichini indecifrabili prima del crash test finale.
Il bus svoltò un’ultima volta andando a nascondersi sbuffando sotto la pensilina della stazione. L’arcobaleno era nel frattempo sparito, riassorbito dalla notte trionfante, mentre il cielo si era fatto solo un po’ più buio e un po’ più triste.