Il rinoceronte

L’agente della Polizia stradale andava e veniva dalla macchina accartocciata contro il muro. Ogni tanto si fermava a scarabocchiare qualcosa su di un block notes e poi lentamente, ma a larghe falcate degli stivali lucidi, come un vincitore sul campo di battaglia, riprendeva a camminare.
«Allora, signore…» principiò con voce calma e atona, tintinnando il sottogola del casco «mi dice cosa ricorda dell’incidente? Vedo che ha fatto tutto da solo.»
Chester era seduto su una pietra miliare, seminascosta dall’erba alta, l’aria svagata e assente. Sia lui che la figlia non si erano fatti nulla nel violento impatto, anche se la ragazza avevano preferito portarla all’ospedale per accertamenti.
«Guardi agente, non so come dirglielo…»
«Ci provi…» fece l’altro svogliato, pensando che a quell’ora, di solito, si stava già gustando da Walter il cornetto di metà mattinata.
Chester prese un profondo respiro, quindi disse in un fiato:
«Mi ha tagliato la strada un rinoceronte.»
L’agente lo guardò malissimo; recuperando l’espressione imperturbabile iniziale, lo afferrò per un braccio e lo fece alzare. «Venga, venga con me.» Seguirono i test ematici a tappeto per accertare il tasso alcolemico e quello da eventuale assunzione di sostanze stupefacenti, ma il guidatore risultò sobrio e innocente come un lattante.
«Ieri non mi ha creduto» esordì il giorno dopo, Chester, presentandosi al Comando nell’ufficio dello stesso agente. «Ma ecco qui la prova» agitò, soddisfatto, un cellulare. «Se l’era portato dietro mia figlia quando è andata al pronto soccorso.»
«Ah… allora stava telefonando… lo ammette» sibilò tra i denti l’agente strizzando gli occhi come se volesse penetrargli il cervello.
«Macchè, non stavo affatto telefonando… mia figlia ha ripreso casualmente la scena con il telefonino, proprio quando l’animale attraversava strada.»
«Mi faccia vedere» disse l’altro sganciandosi da dietro la scrivania. Chester fece partire il video. Era un po’ mosso, ma nitido, il sonoro era impressionante tanto che la stanza si riempì delle urla della ragazza. L’agente impallidì e si morse le labbra: «Diomio! Diomio!» balbettò con voce roca e gli occhi sgranati «ma questo non è un rinoceronte… questo è… questo è…»

Lo stato di sopore

Quando si accorse di essersi addormentato un’altra volta davanti al televisore, si arrabbiò con se stesso. Aveva aspettato tutta la settimana per vedere quel telefilm e ora era riuscito a perderselo. Forse quella cura, cui si era sottoposto, era troppo forte per lui, anche se il medico l’aveva rassicurato dicendogli che la sonnolenza sarebbe presto passata con l’assuefazione. ‘Basta imporsi di non dormire o anche di svegliarsi che ti passa subito’ gli aveva suggerito il medico facendo sembrare tutto così semplice ‘è uno stato soporifero artificiale e basta poco per vincerlo. La terapia, invece, è meglio non sospenderla, per ora, per cui devi solo cercare di resistere.’

Gli ricapitò un altro episodio in ufficio, alla riunione del lunedì. Per fortuna il capo non se ne accorse, impegnato com’era a lamentarsi del pessimo lavoro fatto da un suo collega. Nonostante si fosse appisolato per pochi minuti, si era però reso conto, per la prima volta, che effettivamente esisteva un attimo tra l’addormentamento e il sonno profondo in cui sarebbe stato possibile riprendersi. Se, anziché lasciarsi scivolare nel sonno, avesse fatto leva su quel preciso indugio che la mente ha prima di abbandonarsi al sonno, avrebbe potuto superare quel fastidioso torpore salvandosi dal fare prima o poi una brutta figura. Ci pensò a lungo, cercando di fissarsi nella mente la sensazione che gli procurava quel breve passaggio tra la veglia e il sopore, giusto per non farsela sfuggire fosse ricapitata a tiro. E non dovette aspettare molto. Il colpo di sonno lo prese d’un tratto, senza il preavviso del sentirsi le palpebre insopportabilmente pesanti. Lo stato di semincoscienza si srotolò nella sua mente in poche frazioni di secondo, ma quando gli passò davanti la soglia del sonno la riconobbe afferrandola al volo come fosse stata la maniglia di una porta nel volgere di una caduta. Sì, ce l’aveva fatta: era riuscito a svegliarsi e da solo. Il medico aveva avuto ragione, dopotutto.
Ma le ruote dell’auto stavano già mordendo l’aria fresca del mattino; alle sue spalle il guardrail del viadotto si era aperto in due come un fiore maturo, lasciandogli solo il tempo di accorgersi che la vettura stava iniziando la parabola discendente verso gli scogli scuri della costa.

Vienimi a trovare

Stavo facendo rientro a Poggiobrusco, in macchina, ma, all’ultimo semaforo in uscita da Lughi, trovai la coda. Non era l’ora di punta, ma la fila dei veicoli, in entrambe le direzioni, era bloccata. Di lì a poco sentii la sirena dell’autoambulanza; la udii all’improvviso, come fosse stata azionata a tradimento alle mie spalle. Ci spostammo diligentemente tutti da un lato per farla passare: viaggiava di conserva con la vettura della polizia che pareva chiederle strada. Non si vedeva niente dalla mia posizione se non alcune persone che venivano in su, a passo svelto, risalendo le macchine ferme. Vi era concitazione nell’aria e una frenesia mal sopita. Vidi, tra le altre, una signora attempata, bassa di statura che, nonostante la stazza tracagnotta, sfilava veloce verso di me; tirai giù il finestrino e le chiesi al volo:
«Mi scusi, ma cosa è successo?»
La donna si coprì il volto con le mani e sospirò:
«Dio mio, Dio mio» e sparì.
Un ragazzino sbucò poco dopo da dietro il furgone che mi precedeva nella coda e, scartando all’ultimo momento la mia macchina, passò lungo la fiancata destra per mettersi poi a correre come fosse stato inseguito. Quindi fu la volta di una donna sulla quarantina, alta, che procedeva lentamente guardando fisso davanti a sé come in trance.
«Lei che viene dall’incrocio, mi può dire cosa sta accadendo, per cortesia?» insistetti io sporgendomi un poco.
«Ehi ciao!» mi disse lei abbassandosi all’altezza del finestrino.
Non l’avevo riconosciuta: era molto cambiata. Ci eravamo frequentati tanto tempo prima, sì in quel senso, ma non aveva funzionato.
«Mi avevi promesso che saresti venuto a trovarmi e che mi avresti richiamata…» mi rimbrottò facendo la faccia scura.
«Hai ragione» feci io imbarazzato «… ma sai per caso il perché dell’ambulanza e di tutto il resto?» gli domandai io cercando di cambiare discorso.
«C’è stato un incidente» mi svelò con un sorriso triste. E, nel voltarsi in direzione dell’incrocio, mi accorsi che le mancava parte della calotta cranica tanto da poter vedere il cervello sottostante e un lembo consistente di materia grigia che le ciondolava fuori. «Avevo una maledetta fretta quest’oggi e… ho finito per bruciare il rosso con il motorino. Una jeep mi ha preso in pieno e sono volata sul cordolo del marciapiede. Cosa vuoi che ti dica?» sospirò lei alzando le spalle «è andata così.» Poi, guardandomi teneramente negli occhi, continuò:
«Senti… ora devo proprio andare. Non so esattamente dove mi seppelliranno… forse a Castelmoreno, sulla collina. Però, almeno lì, mi verrai a trovare, vero?»

Festa della Repubblica

«Guarda che hai sbagliato strada!»
Il tono della donna era acido e sottintendeva un ‘sei sempre il solito’.
«È che al buio, cara, non mi oriento.»
La macchina procedeva nella notte come un animale impaurito che si era perso nel bosco.
«Cosa stai andando avanti a fare? Torna indietro!» ringhiò la moglie che si stava visibilmente spazientendo tanto da aver preso ad agitarsi sul sedile.
«Non posso girare in questa strada così buia, cara, sto cercando una piazzola» rispose lui con l’aria di volersi scusare.
Di lì a poco, per fortuna, apparve sulla destra una stazione di servizio: era tutto spento, ma sarebbe andata benissimo per l’inversione. La macchina vi si infilò con una qualche esitazione.
«Accidenti c’è la catena» fece lui con disappunto vedendosi sbarrata la strada dopo essersi inoltrato nell’ampia area.
«Fai retromarcia!» ribatté lei trattenendo a stento la stizza.
Il marito eseguì la manovra come un bravo soldatino, ma subito dopo udì un tonfo cupo.
«Cosa è stato?» si chiese la donna scossa.
Lasciati i fari di retromarcia accesi, i due scesero.
«Non vedo nulla, cara, e tu?» domandò l’uomo incerto.
«Hai urtato quella tanica laggiù, che qualcuno ti ha lasciato tra le ruote proprio perché tu la centrassi» sentenziò lei, aspra, tornando alla macchina. Ma, salendo, la luce di cortesia dell’abitacolo illuminò una donna seduta sul sedile posteriore che teneva la testa reclinata all’indietro colando sangue sui sedili. La moglie lanciò un urlo lancinante di terrore. L’uomo rimase a bocca aperta, incapace di dire alcunché. La donna ferita era oltretutto vestita come fosse la classica rappresentazione dell’Italia: aveva la corona turrita in testa, la tunica bianca e, in mano, una ramoscello d’ulivo spezzatosi in due per l’urto. Trascorse un tempo che sembrò lunghissimo. La moglie teneva il volto nascosto tra le mani per non vedere, il marito, invece, era rimasto immobile, seduto di tre quarti, squadrando quell’improbabile figura che perdeva copiosamente sangue dal capo e da un braccio. Poi la donna investita, con un fil di voce, mormorò:
«Almeno portatemi all’ospedale.»