Il rito del caffè

caffèEdo, come al solito, entrò in cucina quasi con gli occhi chiusi. L’età avanzata lo portava a svegliarsi sempre più presto al mattino ma non per questo in modo meno penoso. Anzi.
La moglie lo aveva sentito armeggiare ed era andato a fargli compagnia, come sempre. Si salutarono agitando la mano a mezz’altezza senza profferire parola. Era il loro modo di riappropriarsi degli spazi condivisi e della reciproca compagnia.
Poi lui, sempre in silenzio, si fece il caffè, versò lo zucchero di canna nella tazzina e girò con il cucchiaino.
Gli venne da sorridere.
«Che c’è? Perché sorridi?» gli chiese.
«È da un po’ di tempo che il suono del cucchiaio contro le pareti della tazzina…»
La moglie fece un’espressione del viso per incoraggiarlo a terminare la frase.
«…mi sembrano delle parole…»
«Oh Madonna Edo…» fece lei battendo per aria le mani una contro l’altra. «Lo sapevo che andando in pensione ti saresti prima o poi rimbambito!»
«Non è gentile da parte tua… dire questo» rimbrottò lui rabbuiandosi.
La donna fece finta di mettere in ordine davanti a sé le cose sul tavolo, ma invece stava solo spostando gli oggetti da un punto a un altro del pianale, senza un ordine preciso. Stava pensando.
Passò qualche secondo.
«Ma non la senti?» insistette il marito che appoggiò finalmente il cucchiaino sul bordo del piattino.
«Cosa dovrei sentire, su dimmelo…»
«’Come stai? come stai?’» disse facendo una vocina in falsetto.
«Non ci posso credere, mi stai diventando matto…» borbottò lei uscendo dalla cucina.
«Ma dove vai?»
«Vado a messaggiare a tua figlia e a dirle come ti sei ridotto…»
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«Davvero senti la tazzina parlare?» gli chiese la figlia il giorno dopo nella comodità rassicurante della sala. La ragazza stava tenendo la mano al padre come si poteva fare con un malato nel letto di un ospedale.
«Ma no, ma cosa ti ha messo in testa tua madre? Non mi sono mica rincretinito del tutto. Non mi trattate così» fece lui contrariato ritirando di scatto la mano.
«E allora di cosa si tratta?» chiese calma e suadente la figlia.
«Ma niente! Sembra piuttosto che lo sbattere del cucchiaino contro le pareti della tazzina assomigli a… a delle parole… Tutto qui. Cosa c’è di strano?»
«E questa mattina cosa ti ha detto la tazzina?» domandò la ragazza pazientemente.
«Adesso mi vuoi davvero prendere in giro… non è bello… sono tuo padre dopotutto…»
«Ti ho chiesto, papà, che cosa ti ha detto oggi la tazzina?» insistette lei facendo la faccia seria.
L’uomo sbuffò.
«Dai…»
«E va bene… mi ha detto, o meglio mi è sembrato che dicesse: ‘Buona giornata a te’».
La figlia si girò verso la madre che si era tappata la bocca per scongiurare un urlo. Il suo sguardo era quello di chi si era appena accorta, dopo trent’anni di matrimonio, che il marito aveva in realtà tre teste.
«Bisogna farlo vedere da qualcuno…» sentenziò la figlia.
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Così Edoardo, suo malgrado, dovette sottoporsi a diverse sedute di psicoterapia. Non era stato sufficiente che avesse cercato di chiarire che aveva voluto solo fare uno scherzo. Erano stati irremovibili. La moglie, la figlia, le zie, il cugino, gli amici, persino gli ex colleghi e poi chissà chi altri: ‘queste cose bisogna prenderle per tempo’ era il succo dei loro commenti ‘perché poi peggiorano’.
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Erano trascorsi diversi mesi da allora e tutto sembrava rientrato nella normalità.
Al mattino la moglie sorvegliava con attenzione il consorte quando girava il cucchiaino del caffè aspettando che lui dicesse qualcosa. Ma si limitava a sorridere e a scuotere la testa.
Un giorno lei arrivò in ritardo al rito del caffè essendosi trattenuta nel bagno. Edo sciolse con calma lo zucchero mescolandolo con cura. Drizzò bene le orecchie per sentire se la moglie stesse arrivando e quindi sussurrò alla tazzina:
«Sì sì… anch’io.»
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hat_gy

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L’ora legale

L’uomo magro magro, ma dagli occhi vispi da furetto alla ricerca di cibo, entrò nell’Ufficio del Primo Direttore. Aveva bussato così piano che non lo avevano sentito neppure i tarli della porta. Ma il Primo Direttore, dall’orecchio fino e dalle mani lunghe, dott. Ermenegildo Pinnacoli, lo aveva sentito benissimo e volutamente non lo aveva invitato a entrare. L’uomo aveva sfidato lo stesso la sorte ed era rimasto sulla porta dopo averla chiusa diligentemente dietro di sé. La sua carnagione, scura e terrea, creava con il legno massiccio sullo sfondo una curiosa forma di mimetismo.
«Cosa c’è, Quagliarullo?»
«Eccellentissimo Primo Direttore, mi spiace davvero tanto disturbarVi, tuttavia mi sembrava necessario notiziarVi…»
Pinnacoli, sentito che l’uomo si era impuntato, alzò il suo sguardo monumentale e paternalistico dall’enorme Sudoku che utilizzava al mattino per richiamare a raccolta i suoi svagati neuroni ovunque si fossero (da tempo) nascosti.
«Parla, perdio, parla Quagliarullo, non farmi perdere tempo!»
«Sì, scusatemi Primo Direttore, si tratta di Bonocore… è sparito.»
«Sarà nel locale tecnico delle ramazze e detersivi, di solito si nasconde là per fumarsi le sigarette… un giorno o l’altro prenderà fuoco e useremo lui come accendino.»
«No no, Dottore Illustrissimo, la situazione è molto più grave; vedete, il giorno in cui torna l’ora solare abbiamo un rito, noi del piano F: ci raduniamo nella Sala Conferenze e mettiamo indietro, tutti insieme, l’ora. È stata una pensata del nuovo capo Dipartimento, il dott. Santarnicola; dice che crea integrazione, coesione interna e stimola la produttività…»
«Mica male come idea…»
«Sì, come no? È che c’è anche un piccolo rinfresco e le sfogliatelle e i babà sono di Gaetano…»
«Ah…» si limitò a sottolineare in modo secco Pinnacoli facendo vibrare appena appena i vetri.
«Il problema però è quello che Vi dicevo prima» continuò l’uomo magro magro «è cioè che, non appena abbiamo messo indietro le lancette dell’orologio, Bonocore è sparito.»
«Come sparito?»
«Sì, Primo Direttore, confermo: sparito, sotto gli occhi di tutti. Abbiamo cercato anche su Internet e sembra che un caso simile si sia verificato, all’estero, proprio l’anno in cui fu introdotta per la prima volta l’ora legale in Europa.»
«E a quel tempo che successe? Lo ritrovarono?»
«No.»
«E tu cosa vuoi da me, Quagliarullo?»
«L’idea che ci è venuta in mente è che se si introducesse nuovamente, anche solo per pochi minuti, l’ora legale, siamo sicuri che Bonocore ricomparirebbe; è rimasto lì, in mezzo… in quell’ora di meno; lui rimane sempre in mezzo a qualcosa, Primo Direttore: porte di ascensori, serrande, le bocce abbondanti della stagista Amelia…; basterebbe insomma una Vostra autorevole telefonata al Ministro e il gioco è fatto.»
«Ma che scherzi, Quagliarullo? E io dovrei interessare il Ministro per far reintrodurre in tutta Italia, anche solo per poco, l’ora legale? Ma che figura ci faremmo? Come lo potremmo giustificare? E poi per chi? Bonocore è uno emerito sfaticato, un pessimo esempio per tutti e ruba letteralmente lo stipendio che gli elargisco con tanta generosità… Non se ne accorgerà nessuno che non c’è, credimi.»
Quagliarullo si era azzittito e aveva assunto la posa del basset hound incompreso.
«Ho finito Quagliarullo, puoi andare…» gli disse in modo sbrigativo Pinnacoli.
«Vedete Direttore, la questione è, come dire, ancora più delicata di quello che sembra: Bonocore tiene una zia che tiene un’amica che conosce un tale che ha un parente in marina che… beh, per farla breve, è lui che ci procura quella miscela con cui facciamo al mattino il caffè per tutti, compreso quello che bevete Voi più volte al giorno, soprattutto quanto siete nervoso, con rispetto parlando. Non ci ha mai detto né dove va a prendere la miscela, né tantomeno dove nasconde qui in Ufficio il sacco dei chicchi che macina a mano di volta in volta…»
Pinnacoli fece la stessa espressione che avrebbe fatto un guidatore che, lanciato con la macchina a 150 km/h in autostrada, avesse visto, appena dentro alla galleria, un grufolante branco di cinghiali.
Si fece silenzio.
Poi dopo aver fatto una leggera torsione del busto, cui rispose un sommesso scricchiolio della sua sedia da interior designer, il Primo Direttore afferrò il telefono.
«Mo’ vedo se riesco a trovare a quest’ora il Ministro…»
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A spasso per casa

footstepsLe notizie sul giornale erano meno interessanti del solito. Posò il quotidiano sul tavolino del bar chiedendosi perché si ostinasse a comprarlo. Alcune briciole della brioche, per un colpo di vento, uscirono dal piattino.
E fu quello il momento in cui vide davanti a sé Ovidio, pallido, come un fantasma infarinato. Era davanti a lui, immobile, lo sguardo perso. Pareva fosse arrivato sin lì da sonnambulo tanto aveva l’aria assente.
«Ciao, Ovidio» gli disse Carlo, cercando di essere gentile. «Prendi qualcosa?»
«Eh?» rispose lui come se si fosse accorto solo in quell’attimo che non si trovava nel letto a dormire.
«Ti ho chiesto se vuoi qualcosa da bere…»
Ovidio, senza rispondere, si sedette di scatto passandosi nervosamente più volte la mano sul ciuffo spostandolo ogni volta di lato non appena tornava al suo posto.
«Si può sapere cos’hai?» lo incalzò Carlo.
«Mi sta succedendo una cosa terribile. Sapessi!» Effettivamente non l’aveva mai visto così. Il viso sembrava gonfio ma al tempo stesso smunto, gli occhi infossati, le labbra cascanti. «Sono giorni che non dormo» seguitò.
Carlo, lentamente, piegò il giornale in modo ordinato: tanto aveva capito che non sarebbe riuscito a finire la colazione in pace. Cercò di ricordarsi come si faceva un sorriso di circostanza che paresse sincero, quindi prestò all’amico la dovuta attenzione.
«Le prime notti sentivo qualcuno passeggiare sopra alla testa…» continuò Ovidio indicando con l’indice ossuto una nuvola di passaggio. «Rumori forti, pesanti… rumori di scarponi, insomma. Nel cuore della notte, capisci?»
«Sì sì, capisco. Che problema c’è? Non fai altro che andare dal tuo vicino e gli dici cortesemente di smetterla!» Ovidio guardò l’amico senza aver la forza di replicare. «Ah, già è vero. Abiti in un attico…» si riprese subito Carlo arrossendo «…oddio e chi può essere, allora?»
«Appunto, non ho che piccioni sopra alla testa e non mi risulta che indossino scarpe con il carrarmato. E questo è niente. Due notti fa, il rumore si è fatto ancora più presente. Sembrava provenire sì dal soffitto ma, come dire…, anche dall’interno della casa.»
«E com’è possibile?»
«Erano le tre di notte e mi sono svegliato per il baccano. Ho alzato lo sguardo e ho visto.»
«Visto cosa?»
«C’erano impronte di scarponi sporche di fango.»
Carlo rimase senza parole. «Sul soffitto!?!»
«Già, sul soffitto! Ieri notte è successa la stessa cosa, solo che vedevo le orme formarsi mentre venivano impresse, come se qualcuno stesse camminando in quell’istante, davanti a me, a testa in giù. Mi sono spaventato, e ho preso persino una scopa, menando botte a destra e a manca, caso mai ci fosse stato qualcuno. Ma niente!» Ovidio non riuscì a terminare la frase perché si era messo a piangere a dirotto. Doveva avere i nervi a pezzi. Carlo si guardò in giro, imbarazzato, non sapeva che fare. Poi si fece coraggio e gli pose una mano sul braccio per mostrargli tutta la sua comprensione. Ovidio, per tutta risposta, si levò di colpo dalla sedia. «Scusa, scusa» farfugliò guardando per terra e allontanandosi.
Qualche settimana più tardi, Carlo incontrò di nuovo l’amico al supermercato. Lo vide rilassato, sereno, persino allegro. Ne fu sollevato.
«Com’è andata, poi?» gli chiese curioso.
«Com’è andata, cosa?» domandò Ovidio sorpreso.
«Come cosa? Il tizio… quello che camminava a testa in giù a casa tua…»
«Ah, quello! Beh… ho cercato di reagire. Pensa che in quei giorni ero così disperato che sono andato a chiedere aiuto persino a un esorcista.»
«Addirittura!»
«Sì, è venuto a casa mia e, appena ha visto le orme degli scarponi, se n’è andato scocciato. Mi ha detto che il diavolo non fa l’alpinista, né l’acrobata…»
«E quindi?»
«E quindi qualcosa deve essere però successo perché da quel giorno la ‘presenza’ si è tolta gli scarponi. Passeggia sempre a testa in giù, però almeno non fa rumore» disse Ovidio facendo spallucce.
«E ti va bene lo stesso? Non ti dà fastidio, voglio dire, avere un tizio che passeggia di notte, in questo modo, a casa tua?»
«Dalle orme che lascia del piede nudo, come se fosse appena uscito dalla piscina, il tizio in questione, in realtà… è una tizia… Ha un piedino piccolo, aggraziato, leggero: un amore. E poi, sai, io sono single e ho sempre desiderato avere una donna per casa.»

Intese

handsApparve nella luce della porta come un ologramma. Si sforzava di sorridere ma il sonno gli intorpidiva ancora il cervello, adagiato com’era su una nuvola di ovatta arruffata. Lei, dopo trent’anni di matrimonio, sapeva quanto fosse difficoltoso quell’approccio con il mondo dei vivi, e si limitò a rispondere agitando la mano destra in senso di saluto. Poi lui, ciabattando, andò ad accendere il bollitore dell’acqua e, appena entrò in dispensa per prendere la busta del caffè, lei si alzò e attaccò la spina del bollitore; lui rientrò per cercare sul lavello la tazza che gli serviva e lei, nel frattempo, sgattaiolò nella dispensa per sostituire la busta del cioccolato, presa per sbaglio, con quello del caffè; giusto in tempo per dargli in mano la tazzina che aveva di fronte al naso e non vedeva. Succedeva così ogni mattina. Tanto che si era sempre chiesta cosa accadeva veramente quelle volte in cui lei usciva di casa prima.
Dopo una decina di minuti di silenzio, venato dai soliti suoni soffusi del risveglio, lei provò:
«E allora per quella cosa lì, cosa hai pensato di fare?»
Lui la guardò con ostilità. Cercò di ricordarsi come si faceva ad articolare le parole chiedendosi se doveva necessariamente rispondere o poteva far finta di non esserci. Poi pensò che la seconda alternativa non era più praticabile. Si arrese.
«Vado e gli dico quel che devo dire…» fece lui in un solo sbuffo mangiandosi con i canestrelli alcune consonanti non necessarie.
«E per quell’altra faccenda là…?» insistette lei, implacabile, visto il successo del primo tentativo.
«Vedremo!» rispose sbrigativo. Poi, pentendosi di essere stato troppo brusco: «Parlerò con… con Coso…»
«E se ti dice…»
«Allora a quell’altro non dico niente, così magari non se ne ricorda…» disse meravigliandosi di sentire la sua voce più chiara e sonora. Nel frattempo lei gli aveva messo accanto i tre barattoli di formato e colore diverso delle tre medicine che doveva prendere.
«Tu che dici…?» fece lui guardando la tazza del caffè come fosse ancora un oggetto misterioso «e se vado in quel posto che sai e incontro quell’altro lì…?»
«Ti riferisci a quel Tizio dell’altra volta?»
«No non quello lì, ma quello dell’altra volta ancora, che ha detto quella cosa che poi tu…»
«Ah quello!»
«Esatto, quello…»
«Gli dici che hai parlato con… con Birillo, come caspita si chiama,… e che sei pronto per cosare… anche a costo di…»
«E se lui…?»
«E se lui… allora gli dici così e cosà…»
Lui assentì con gravità. «Va bene» concluse spostando indietro rumorosamente la sedia. «Mi vado allora a vestire.»
«E se passi dalla farmacia ricordati di comprarmi…»
«Sì, certo, spero solo di ricordarmene… e ti prendo, visto che ci sono, anche…?»
«No no, per ora ne ho abbastanza…»
«D’accordo.»
«Ti ho preparato sul letto il vestito buono.»
«Come il vestito buono? Non ti sembra esagerato? Pensavo di andarci come vado di solito…»
«Con i jeans luridi?»
«Non sono luridi… lo sai bene.»
Poi, prima di uscire dalla stanza, lui si voltò e, scuotendo la testa, disse: «Io e te proprio non ci capiamo più.»

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Mai abbastanza

autunno«È come quando da bambino, in vacanza in montagna, prendevo l’autobus per tornare alla baita. Il conducente veniva giù in discesa come un matto, sfiorando il precipizio da una parte e i contadini dall’altra, il tutto sollevando un polverone denso e compatto che si sarebbe potuto tagliare con l’accetta…»
Una chiazza di sole illuminava la macchina dopo il temporale del mattino, una specie di occhio di bue volto a evidenziare solerte quel microcosmo qualunque sulla via di casa. L’uomo al volante, dopo il silenzio in cui la sua frase era franata, si girò verso di lei come se la sollecitasse a commentare. Ma invece sorrideva.
«Che c’è? Perché ridi?»
«Niente, niente…»
La vettura passò accanto a un anziano in attesa di attraversare la strada per recarsi nel terreno di fronte. In mano aveva una forbice da pota e un rastrello. I due uomini, per un istante, si guardarono negli occhi con la stessa intensità che si sarebbe potuta riservare alla presenza di un gatto.
«No, davvero, perché ridi?» insistette lui.
La moglie lo squadrò e poi rivolse di nuovo gli occhi alla strada come se a guidare fosse lei.
«È che questo episodio me lo hai raccontato chissà quante altre volte. Più o meno ogni volta che la strada si fa a tornanti.»
Lui ci rimase male, come sempre, quando lei lo riprendeva. Non solo perché si era perso il senso e la dolcezza del ricordo, ma perché capiva di essere stato in qualche modo anche fastidioso.
«È che nonostante mi sforzi di ricordarmi le cose che dico» sbuffò lui scuotendo la testa «c’è sempre qualche racconto che mi sfugge e che mi sembra inedito. Ma almeno quello che mi consola e che questo problema ce l’avevo fin da ragazzino, sicché non è un segno di ‘rincipollimento’ da vecchiaia…»
«Anche questo me lo dici ogni volta che ti faccio notare che ti ripeti…» rincarò lei senza pietà.
Il SUV svoltò da una curva a gomito e improvvisamente la valle si aprì ai loro occhi. La luce si era fatta pulita, tagliente, sottile. In lontananza, da una fila di nuvole in processione che risaliva la valle, sembrò se ne fosse staccata una e si fosse rotta cadendo a terra su un casolare abbandonato, che una cornice di zolle enormi color del caffè faceva galleggiare lievemente nell’aria come un fantasma.
Si voltò verso lei che ancora stava gongolando.
«E che ti amo tanto te lo avevo già detto?» le disse dolcemente.
Lei posò la mano sopra la sua rimasta sul pomello del cambio, con un gesto che voleva essere di rassicurazione.
«Mai abbastanza, caro, mai abbastanza».

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