Centomila caffè

«Un caffè, per favore.»
Oreste, senza neppure dare un cenno di assenso al cliente di là dal bancone, si mise alla macchina. L’uomo era alto, molto distinto, camicia e cravatta regimental, i capelli brizzolati lisciati con cura. Si gustò quel liquido profumatissimo, pagò con calma, cercando gli spiccioli in fondo al portamonete, e se ne andò. Era metà mattinata, e al Bar del Cinghiale, c’era già un discreto andirivieni. Trascorsero cinque minuti, forse meno.
«Un caffè, per favore» disse con un filo di sorriso l’uomo distinto che era rientrato.
Oreste lo guardò un po’ sorpreso, poi impugnò il portafiltro, lo sbatté contro il bordo della scatola dei fondi come faceva meccanicamente ogni volta, e, dopo aver compresso bene la miscela, l’agganciò con una rotazione breve del polso.
L’uomo bevve lentamente, con soddisfazione, estrasse quindi le monetine esatte, una ad una, e se ne uscì.
«Un caffè, per favore.»
Questa frase colse Oreste di spalle, ma, appena vide dal riflesso dello specchio che si trattava del cliente brizzolato, gli fece prontamente:
«Un altro caffè, ne è sicuro?»
«Questo è il primo della mattinata» rispose l’altro meravigliato «non ne potrei bere più di uno, mi fa male allo stomaco. Lei non si preoccupi.»
La scena si ripeté ancora e ancora, come se fosse stato uno sketch mal riuscito; fino a quando non entrò nel bar una donnina tutta rinsecchita, ma energica.
«Ti avevo detto di aspettarmi in macchina» sbottò lei con aria di rimprovero guardando severamente l’uomo.
«Ci conosciamo?» ironizzò lui con garbo.
«Quanti ne ha bevuti, mio marito?» domandò secca la donnina all’oste.
«Otto» rispose Oreste grattandosi la testa.
«E lei gliene ha serviti tutti e otto?» incalzò con un sguardo inceneritore.
«Non sono forse qui per questo?» si scusò Oreste incrociando le braccia.
La donna appariva furibonda. Prese per la manica il marito e lo trascinò fuori dal bar proprio mentre lui le stava dicendo:
«Ma che modi signora, e cos’è poi tutta questa fretta, non sono riuscito neppure a prendere un caffè!»

Bar del fantasma errante

“Come mai quella lampada è sempre spenta?” chiesi ad Oreste che stava asciugando un bicchiere.
“Non dirmi niente. Mi fa impazzire. Sono sempre lì a cambiare la lampadina. Una giorno, è mezza svitata, un’altra volta, addirittura fulminata. Ho cercato di ripararla in tutti i modi, ho sostituito il filo, il portalampada, l’interruttore… ho chiamato persino l’elettricista a controllare tutto l’impianto. Niente! Funziona tutto a meraviglia tranne la lampada. Comincio a pensare che mi faccia i dispetti. Al suo posto devo tener sempre acceso quel faretto lì che consuma però molto di più: senza luce, del resto, non vedo neppure dove metto le mani.”
“Non sarà che, a forza di parlare in questo bar di spiritelli e forze del paranormale, è rimasto intrappolato qui qualche fantasmino?”
Oreste non mi rispose, si girò per posare il bicchiere oramai asciutto, ma dallo specchio vidi che si ‘toccava’ per scaramanzia.
“Potresti cambiare il nome del locale: anziché Bar del Cinghiale, lo potresti chiamare bar del Fantasma errante! Suona anche bene” insistetti.
“Già, così non entrerebbe più nessuno!” esclamò lui che non aveva capito che lo stavo prendendo in giro. “E poi questo locale, che prima si chiamava bar della Piazza, con la sua insegna ricorda un fatto realmente accaduto dieci anni fa…”
“Perché cos’è successo?”
“Adesso ti racconto. Era un periodo di sovrappopolazione di daini, ma soprattutto di cinghiali, tanto che tutti i contadini se ne lamentavano per i danni che procuravano agli orti ed ai campi coltivati. E un cinghiale, appunto, probabilmente spinto dalla fame – era infatti già inverno e c’era la neve alta nei boschi – è entrato sbuffando e caracollando in questo bar.”
“Ma dài…”
“Davvero! Ha sfondato la porta a vetri e si è piazzato minaccioso in mezzo al locale. Sarà stato più di un quintale.”
“E voi cosa avete fatto?”
“Gli avventori sono scappati chi nel bagno e chi nella saletta del biliardo. Io mi son buttato dietro al bancone da dove ne sono uscito armato di una grossa padella. Nel frattempo il cinghiale ha cominciato a sfasciare ogni cosa ribaltando tavolini e sedie. Ha finanche buttato giù la rastrelliera dei vini e il frigo dei gelati. Ha fatto un vero disastro…”
“Eri armato di una padella?”
“Già, ho preso la prima cosa che ho trovato: una padella che uso per le castagne. Non so perché l’ho fatto, ma mi è venuto istintivo. Solo che Marò, prima di scappare nella saletta, vedendomi con quell’aggeggio in mano, con la sua solita grazia, m’ha detto ‘Porca di quella maiala di tua moglie, guarda che prima di cuocerlo, lo devi scuoiare questo bestione!”
“Immagino…” gli dissi io assumendo l’espressione di chi comprendeva il problema.
“Poi, la bestiaccia si è messa a mangiare le noccioline tostate buttate a terra coi tavolini e, sbattendo all’aria quel che c’era ancora di sano, se n’è uscito anziché dalla porta, dalla vetrina che, fino a quel momento, era rimasta miracolosamente intera. Insomma, dopo che il cinghiale se n’è andato, sembrava che qui dentro ci avessero buttato una bomba!”
“Beh… speriamo che non ricapiti…” sospirai io.
E Oreste, che gi àsi era girato facendo finta di posare lo strofinaccio, si ‘toccò’ di nuovo. Poi, rivolgendosi a me:
“Beh, senti, se stai qui un attimo, scendo in cantina a prendere un cestello di coca-cola che l’ho finita!”
“Sì, sì vai pure.”
Oreste fece il giro del bancone e sparì dietro all’angolo della macchina per il caffè. Lo sentii aprire la porta della cantina; i passi sulle scale rimbombarono nel vuoto del sotterraneo.
In quel preciso istante, la lampada ‘fantasmina’ si accese. Mandava un bellissimo chiarore aranciato, creando un’atmosfera calda e accogliente. Mi guardai attorno per vedere se qualcuno avesse notato la cosa. Ma il gruppetto di amici che giocava a briscola non si era neppure accorto della mia presenza. Poi sentii la porta della cantina che si riapriva. Oreste stava tornando. La lampada, come se fosse stata dotata di un pensiero suo proprio, si spense.
“E’ successo qualcosa?” mi domandò Oreste posando il cestello sul bancone.
“No, assolutamente nulla, tutto normale” fu la mia risposta.

Le utopie del vivere…

Era una giornata tiepida, di intimorita primavera, e Oreste, l’oste del Bar del Cinghiale, a Lughi, ne aveva già approfittato per sistemare i tavolini sulla piazza. E l’uomo era lì, seduto proprio ad un tavolino poco distante dal mio: era impettito, rigido, con due baffi sottili e lunghi. Sembrava uscito da un quadro risorgimentale per quella sua faccia fuori moda, antica, segnata dai buoni principi e dalle utopie del vivere. Dalle espressioni del viso e dalla sua gestualità si comprendeva benissimo che stava rimproverando aspramente i due ragazzi che gli sedevano accanto. Spezzettava la brioche con misurata rabbia facendone piccoli bocconi; poi si azzittiva per quell’attimo che gli era sufficiente a consentirgli di accomodarli delicatamente in bocca; quindi riprendeva con durezza e severità il suo rimbrotto che non sembrava avere mai fine. I due ragazzi erano pallidi, ammutoliti, mortificati per quel diluvio di parole. Mi ricordò il mio professore di greco del liceo, tanto che pensai che quelli fossero i suoi studenti anche se il luogo e l’ora rendevano più plausibile fossero piuttosto i suoi figli. Poi, proprio mentre l’uomo si stava portando alle labbra la tazza calda del caffellatte, un piccione intraprendente, partito da lontano, cabrò su quel tavolino per arrestarsi a poco centimetri dal piatto con i resti della brioche. Forse il volatile calcolò male la manovra di atterraggio perché finì con l’assestare un forte colpo d’ala al volto dell’uomo che, spaventatosi, si rovesciò addosso il liquido bollente spostando all’indietro la sedia che cadde rumorosamente. I due ragazzi iniziarono a ridere a crepapelle come se avessero risposto all’unisono a un comando. Sciolsero in quel riso scomposto tutta la tensione accumulata fino a quel momento. L’uomo, invece, se ne rimase in piedi, con la camicia imbrattata di caffè che gli gocciolava sulle scarpe: la sua credibilità si era frantumata in quell’improbabile schiaffo assestatogli dal piccione. Gettò allora con stizza il tovagliolo a terra dando un calcio alla sedia; e senza neppure voltarsi attraversò tutta la piazza sino a sparire.

La lampada

“Come mai quella lampada è sempre spenta?” chiesi ad Oreste che stava asciugando un bicchiere.
“Non dirmi niente. Mi fa impazzire. Sono sempre lì a cambiare la lampadina. Una giorno, è mezza svitata, un’altra volta, addirittura fulminata. Ho cercato di ripararla in tutti i modi, ho sostituito il filo, il portalampada, l’interruttore… ho chiamato persino l’elettricista a controllare tutto l’impianto. Niente! Funziona tutto a meraviglia tranne la lampada. Comincio a pensare che mi faccia i dispetti. Al suo posto devo tener sempre acceso quel faretto lì che consuma però molto di più: senza luce, del resto, non vedo neppure dove metto le mani.”
“Non sarà che, a forza di parlare in questo bar di spiritelli e forze del paranormale, è rimasto intrappolato qui qualche fantasmino?”
Oreste non mi rispose, si girò per posare il bicchiere oramai asciutto, ma dallo specchio vidi che si ‘toccava’ per scaramanzia.
“Potresti cambiare il nome del locale: anziché Bar del Cinghiale, lo potresti chiamare bar del Fantasma errante! Suona anche bene” insistetti.
“Già, così non entrerebbe più nessuno!” esclamò lui che non aveva capito che lo stavo prendendo in giro. “E poi questo locale, che prima si chiamava bar della Piazza, con la sua insegna ricorda un fatto realmente accaduto dieci anni fa…”
“Perché cos’è successo?”
“Adesso ti racconto. Era un periodo di sovrappopolazione di daini, ma soprattutto di cinghiali, tanto che tutti i contadini se ne lamentavano per i danni che procuravano agli orti ed ai campi coltivati. E un cinghiale, appunto, probabilmente spinto dalla fame – era infatti già inverno e c’era la neve alta nei boschi – è entrato sbuffando e caracollando in questo bar.”
“Ma dài…”
“Davvero! Ha sfondato la porta a vetri e si è piazzato minaccioso in mezzo al locale. Sarà stato più di un quintale.”
“E voi cosa avete fatto?”
“Gli avventori sono scappati chi nel bagno e chi nella saletta del biliardo. Io mi son buttato dietro al bancone da dove ne sono uscito armato di una grossa padella. Nel frattempo il cinghiale ha cominciato a sfasciare ogni cosa ribaltando tavolini e sedie. Ha finanche buttato giù la rastrelliera dei vini e il frigo dei gelati. Ha fatto un vero disastro…”
“Eri armato di una padella?”
“Già, ho preso la prima cosa che ho trovato: una padella che uso per le castagne. Non so perché l’ho fatto, ma mi è venuto istintivo. Solo che Marò, prima di scappare nella saletta, vedendomi con quell’aggeggio in mano, con la sua solita grazia, m’ha detto ‘Porca di quella maiala di tua moglie, guarda che prima di cuocerlo, lo devi scuoiare questo bestione!”
“Immagino…” gli dissi io assumendo l’espressione di chi comprendeva il problema.
“Poi, la bestiaccia si è messa a mangiare le noccioline tostate buttate a terra coi tavolini e, sbattendo all’aria quel che c’era ancora di sano, se n’è uscito anziché dalla porta, dalla vetrina che, fino a quel momento, era rimasta miracolosamente intera. Insomma, dopo che il cinghiale se n’è andato, sembrava che qui dentro ci avessero buttato una bomba!”
“Beh… speriamo che non ricapiti…” sospirai io.
E Oreste, che gi àsi era girato facendo finta di posare lo strofinaccio, si ‘toccò’ di nuovo. Poi, rivolgendosi a me:
“Beh, senti, se stai qui un attimo, scendo in cantina a prendere un cestello di coca-cola che l’ho finita!”
“Sì, sì vai pure.”
Oreste fece il giro del bancone e sparì dietro all’angolo della macchina per il caffè. Lo sentii aprire la porta della cantina; i passi sulle scale rimbombarono nel vuoto del sotterraneo.
In quel preciso istante, la lampada ‘fantasmina’ si accese. Mandava un bellissimo chiarore aranciato, creando un’atmosfera calda e accogliente. Mi guardai attorno per vedere se qualcuno avesse notato la cosa. Ma il gruppetto di amici che giocava a briscola non si era neppure accorto della mia presenza. Poi sentii la porta della cantina che si riapriva. Oreste stava tornando. La lampada, come se fosse stata dotata di un pensiero suo proprio, si spense.
“E’ successo qualcosa?” mi domandò Oreste posando il cestello sul bancone.
“No, assolutamente nulla, tutto normale” fu la mia risposta.

La macchia

Oggi al bar del Cinghiale la discussione verteva sul paranormale, su fantasmi e spiritelli vari. Io mi assaporavo il mio ‘cucciolo’ divertendomi a sentire le battute e gli aneddoti più o meno incredibili o strani. Il vociare che si stava facendo era quasi assordante, segno questo che l’argomento appassionava molto.
“Spero che a voi non capiti mai quel che è successo a me!”
La voce, grave e pacata, che si era imposta sulle altre, era quella di Palmiro, quello del prosciuttificio Longhi & C. Queste parole destarono subito l’attenzione di tutti, perché Palmiro è uno che parla poco e malvolentieri.
“Orsù non farci stare in ansia!” disse il marchese (decaduto) Porzio Li Mondi Crespi facendo volteggiare buffamente la mano “dicci!”
Seguì un lungo silenzio. Poi Palmiro ingollò con un rapido movimento della testa un chiaretto profumato della zona.
“Come sapete, ho comprato tre anni fa, una casetta appena fuori Lughi… Ebbene, è successo che a luglio di quel primo anno, il 21 per l’esattezza, sul muro a ovest della casa, proprio davanti all’ex fienile, una bella mattina è comparsa una larga chiazza di venti centimetri di diametro a circa un metro da terra. Chiamai subito l’idraulico perché in quel punto passano i tubi del termosifone. L’idraulico, dopo alcune verifiche, mi disse però che non poteva essere il riscaldamento perché l’impianto era vuoto non essendo stata ancora messa in funzione la caldaia. E poi, mi precisò, non poteva neppure essere acqua quella, perché la macchia sul muro di tufo era troppo scura. Pensai allora al tubo del gasolio. Forse il quel punto passava la condotta che portava il gasolio dalla cisterna alla caldaia.”
Palmiro fece un’altra pausa. Il silenzio era totale, quasi solido, tanto che si sentivano alcuni bambini che vociavano al di là della piazza.
“Chiamai allora il caldaista che tuttavia mi assicurò quasi subito che non poteva essere neppure il gasolio. Il tubo passava sì a quell’altezza, ma era molto più interno. E poi, mi chiarì, non poteva essere carburante in quanto non ne aveva l’odore. Io subito ci rimasi male, come deluso, poi cominciai a preoccuparmi visto che la gora si stava pure allargando. Nel pomeriggio, sono andato quindi a riprendere il mio cane. Gli avevo fatto fare la toilette completa, rasatura, bagno, trattamento antipulci… il solito insomma che faccio fare ogni tanto alla mia Lolly. Portata a casa, lei ha gironzolato per un po’ attorno alla casa e poi si è fermata di colpo davanti alla macchia. Da quel momento ha cominciato a emettere una sorta di ululato lamentoso che le si strozzava in gola, poverina. Roba da far accapponare la pelle.”
Seguì la terza pausa; il marchese, forse spazientito per quelle continue interruzioni, ordinò a Oreste dell’altro chiaretto per Palmiro che sembrava quasi in difficoltà nel proseguire il racconto.
“Mi venne allora in mente di guardare nelle carte del rogito della casa per poter risalire al progettista. Lasciai il mio cane che guaiva accucciato sotto la macchia in uno stato che avrei detto di prostrazione e andai a parlare con l’architetto. Mi accolse cordialmente, anche se era domenica. Sembrava finanche mi aspettasse. Tanto che andò dritto al punto riferendomi, che durante la costruzione della villa, un operaio, tale Achille Sori, il 21 luglio di tre anni prima, era rimasto schiacciato da una pala meccanica contro il muto ovest della casa. Dopo l’incidente si scoprì che il Sori, una persona gioviale e generosa, non aveva famiglia, né parenti o amici, sicché fu per lui fatto una funerale a spese del Comune. Insomma un uomo vissuto solo per tutta la vita e morto senza uno straccio di affetto. Ringraziai l’architetto. Se anche sapevo quel che era successo, l’esser venuto a conoscenza dell’incidente non risolveva il mio problema. Decisi allora di parlare con don Remo, il parroco qui di Lughi. Gli spiegai che sul muro di casa mia c’era una macchia, probabilmente di sangue, che si estendeva ogni ora di più. Pensavo francamente che non mi avrebbe creduto e che mi avrebbe trattato in malo modo dal momento che è noto che io non ci mangio assieme ai preti; invece è stato molto gentile, tanto che mi disse che, a volte, le anime del Purgatorio hanno strani modi per attirare l’attenzione dei vivi. Magari hanno solo bisogno che si preghi per loro o che ci si ricordi della loro anima.”
“E poi che è successo?” dissero quasi all’unisono i gemelli Pani.
“E’ successo” disse Palmiro con una voce oramai fioca “che mi son fatto indicare dove Achille Sori era stato sepolto. Ho portato dei fiori e ho fatto ripulire la tomba che si trovava in completo stato d’abbandono. E ho anche pregato.”
“E la macchia?”
“La macchia al mio ritorno dal cimitero era già sparita e il mio cane aveva ripreso a scodinzolare con l’allegria di sempre.”
Palmiro si versò dell’altro chiaretto la cui trasparenza mandava riflessi rosa e verde chiaro.
“Da quel giorno mi son preso l’impegno di far tener pulita la tomba dell’operaio in modo che un fiore fresco non manchi mai. E il 21 luglio di ogni anno, vado a trovarlo. Ora mi occupo io di lui. Non è più solo.”