Il clochard

Stava aspettando ormai sul marciapiede da dieci minuti. L’amico gli aveva detto per telefono che sarebbe passato a prenderlo, ma evidentemente il traffico, a quell’ora, era anche peggiore di come sembrava.
Abhablé, abhablé” continuava a sentir dire da dietro le spalle come un mantra: era un clochard, accovacciato in modo innaturale alla spalliera del ponte, un sacco sporco trascinato dal vento. La sua carnagione era bruna, denti radi e scuri in bocca, il corpo dondolante in avanti e indietro quasi fosse un metronomo. “Abhablé, abhablé, abhablé” biascicava.
Dante, che già era infastidito dal dover perdere tutto quel tempo, si girò sbottando verso il barbone:
«Si può sapere cosa sta dicendo?» e avvicinandosi un poco. «Sono web marketing top manager di una startup company internazionale che fattura milioni di euro all’anno. Non lo capisce che è tutto sbagliato, quello che fa?» per un attimo l’uomo accovacciato per terra si arrestò dall’eseguire il suo movimento ossessivo poi alzò la mano nella direzione del passante per chiedergli l’elemosina. «Innanzitutto non si capisce il messaggio che lei sta inviando. Cos’è ‘sto “amamé, acatè“… cosa vuol dire? Lei veicola una richiesta equivoca e non congrua che le disorienta il target. Se allunga il palmo della mano in quel modo potrebbe solo chiedere aiuto o indicare qualcosa o, per quel che ne so io, dar pure da mangiare ai piccioni. E poi questo cappello floscio qui davanti a lei, cosa mi rappresenta? Sembra che le sia appena caduto dalla testa: deve assolvere invece al precipuo scopo di costituire in modo chiaro e preciso una slot di scambio tra utenza e committenza: deve poter stare dritto, aperto, essere invitante come un abbraccio liberatorio. Lei così mi azzera il tasso di conversione.» Si cavò il suo cappello, rigido e capiente, ci buttò dentro dieci euro e lo buttò davanti al clochard, assestando un calcio all’altro, ancora vuoto. «Ecco, questo è quello che fa per lei. E ci devono sempre essere dentro dei soldi: la gente deve capire a cosa serve questo contenitore, deve poterlo vedere il danaro e sentirsi in colpa per non volerglielo dare, perché altri, come loro, lo hanno fatto. E poi via questo aspetto sorridente, di riconoscenza, di commiserevole rinuncia. Lei è un disastro! Lei è un barbone, per dio, cosa avrà mai da ridere! Non sta aspettando che la facciano santo, deve mangiare… Deve sembrare macilento, sofferente, martirizzato dalla sfortuna e dalla cattiva salute. Guardi, faccia così, stia zitto, per favore…» e fece un passo verso il vicino cassonetto della spazzatura da dietro il quale sfilò una scatola di cartone da cui staccò il fondo; con un pennarello rosso, sfilato dalla tasca, scrisse: “Sono pazzo di vita, ma non posso urlarlo perché sono muto” e glielo mise davanti. «Sicuramente con questo decuplicherà gli introiti a parità di budget nell’unità di tempo data. Basti che taccia, però, per cortesia.»
In quel mentre un colpo di clacson richiamò l’attenzione di Dante sulla strada. Era il suo amico. L’uomo mise il tappino al pennarello e lo ripose in tasca; allontanandosi dal clochard gli disse: «Mi raccomando, tenga ben in vista il cartello e assuma un’espressione contrita, meglio se dolente… e soprattutto resti muto, che mi spaventa la clientela!!!» e salì su una Mercedes sotto lo sguardo stralunato dell’uomo. Una signora, nel frattempo, si era appena chinata verso il cappello, a terra, facendovi scivolare cinque euro. Il barbone la ringraziò sorridendo e poi, riprendendo a muoversi come un metronomo, biascicò: “Abhablé, abhablé”.

12 pensieri su “Il clochard

  1. Quanta cattiveria gratuita in quest’uomo che nemmeno davanti alla povertà e davanti ad un sorriso di ringraziamento, perde per un attimo il suo fare da automa… si perché direi che uno che si comporta così è un automa, non un essere umano..

    Sempre molto coinvolgenti i racconti, complimenti

    Ciao, Patrizia

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