Il telefono squillò tra le stanze della casa. Sembrava una lama di metallo crudele che attraversava l’aria spessa e la penombra disadorna. L’uomo seduto composto sulla sedia al centro dello studio, non batté ciglio. Solo una leggera piega agli angoli degli occhi tradivano un allentamento della tensione che irrigidiva il suo corpo.
Suonò a lungo, ininterrottamente, per un numero spropositato di volte. Poi tacque.
Nel silenzio, l’ansia che sembrava essersi squarciata in un mare denso di pensieri terribili, si espanse nuovamente a coprire ogni cosa come una polvere sottile e appiccicosa. Dalla sua posizione l’uomo vedeva d’infilata tutto il corridoio, i vani aperti sulle altre stanze e lo sportello del frigo spalancato laggiù nella cucina. Gli oggetti trasudavano abbandono, un’inedia irreversibile, un incubo a cielo aperto.
L’uomo posò lo sguardo sul telefono che si mise a squillare ancora quando sembrava che così non sarebbe più stato. Pareva che il mondo intero si stesse chiedendo perché mai lui non si alzasse a rispondere. Perché mai quasi non respirasse nel suo guscio di carne e di vestiti sdruciti. Chiamava il telefono, chiamava, senza voler dar l’impressione di voler smettere prima o poi. Il suono rovistava come un segugio tra le carte sparse, la tonaca dismessa, le foto dei bambini felici di giocare sul prato levigato a dovere perché il pallone corresse e rimbalzasse.
Da quando don Feliciano aveva subito quel processo per pedofilia, il suo cuore non aveva avuto più sangue da pompare e il suo cervello pensieri da elaborare. Rimaneva lì, per ore, per giorni, su quella vecchia sedia, a rimirare il buco senza fondo della sua esistenza. Certo, era stato assolto da quell’accusa infamante, ma non era bastato. Nessuno lo aveva più cercato. Nessuno voleva più avere a che fare con lui. La sua compagnia non era più gradita. Le sue carezze e i suoi sorrisi erano e sarebbero rimasti equivoci, mal visti, mal interpretati. E così i tanti bambini che avevano colmato la sua ragione di vita erano scomparsi, giocavano in altri prati, sotto altri soli e sotto lo sguardo attento e premuroso di qualcun altro.
E allora non gli era rimasto che quel gesto, quella illusione, quella bugia che a forza di essere ripetuta poteva anche esser vera.
Trasse un sospiro profondo l’uomo; e schiacciò ancora, meccanicamente, il pulsante del cellulare dell’ultima telefonata. Si riformò il numero in automatico a richiamare il proprio apparecchio di casa che si rimise a squillare con un ruggito di rabbia in quella solitudine di ghiaccio.
E una impercettibile ruga prese a diramarsi dall’angolo della sua bocca.
Bello come sai andare al di là delle convinzioni comuni… Se non ti dispiace vorrei aggiungerti ai miei preferiti. ciao da morettina
uh… =(
Grazie della visita 🙂
Annamaria = Quela, non so perchè ma nel commento da me appena scritto non compare l’indirizzo del mio blog: quela.blog.excite.it, spero tornerai ancora a farmi visita :)))
grazie per la visita…..cavolicchio hai un blog davvero bello…vorrei linkarti se mpre se ti fa piacere
Coraggioso.
Bravo. una volta di più. 🙂
questo blog è molto bello, mi piace il tuo modo di scrivere, molti tuoi post ripercorrono esattamente la stessa strada dei miei pensieri.
A presto, Annamaria.
questa tristezza di fondo, che non scompare mai ……….
Sembra proprio una storia vera…lo è?
Che triste! Davvero! Bisogna stare attenti alle accuse infamanti… grazie per la tua visita! Buona serata, Capello