Sul bus

La mia jeeppotta aveva pensato bene di spirare durante la notte, così, senza dare neppure un’avvisaglia del gran gesto. Era per questo che me ne stavo tornando in autobus aggrappato ad una maniglia mal sicura.
«Le dispiace timbrarmi lei il biglietto?» chiesi a un signore sulla settantina, ben vestito, con la barba bianca, ma rasa, davanti alla obliteratrice. Il bus era pieno di gente e non sarei riuscito a fare da solo.
L’uomo, si scostò all’insù la tesa del cappello tipo borsalino; raccolse dalle mie dita il cartoncino sgualcito restituendomelo subito dopo con la sua bella stampigliatura di traverso.
Passarono alcuni secondi, poi lo stesso signore, senza guardarmi, disse:
«Pensi che quando ero bambino, osservando mio padre, ero convinto che vivere fosse una cosa maledettamente complicata, estenuante e a tratti insostenibile. Pensavo che essere adulti fosse una responsabilità enorme, che i problemi fossero pressoché irrisolvibili e che lamentarsi e sbraitare fosse l’unico modo per sfogare la propria rabbia contro le avversità dell’esistenza. Ho trascorso la mia adolescenza nel terrore che non sarei mai stato pronto per essere grande e che la mia inettitudine mi avrebbe schiacciato inesorabilmente al mio primo tentativo. Poi ho scoperto che il mare non è sempre in burrasca e che la bonaccia è una condizione dello spirito. Ho capito che, a qualunque età, il giorno inizia sempre con l’alba, quando il cuore è gonfio di promesse e ricco di aspettative; che non è vero che sia sempre notte se non nel fondo di un pozzo. Inoltre c’è l’amore, la solidarietà, l’amicizia, la voglia di fare, di ricominciare, di non aver paura di stringere a sé chi si ama. No…» mi fece sorridendo di un sorriso aperto ma stanco «vivere non è terribile, né una maledizione, né un dovere da assolvere nel migliore dei modi. Tutto questo mio padre, però, non l’ha mai capito o se l’ha capito non me l’ha mai detto.»
Il bus ebbe uno scossone. Era arrivato alla fermata dell’Indicatore, proprio alle pendici di Poggiobrusco.
«Io scendo qui» mi sussurrò come fosse un segreto. Mi fissò dritto negli occhi come se volesse aggiungere dell’altro, ma si limitò ad alzare di qualche centimetro il cappello in segno di saluto: «Le auguro una buona serata.»
E sparì dalla mia vista.

11 pensieri su “Sul bus

  1. Eì bello, ogni tanto, lasciar cadere qualche parola sincera e spiazzante. è bello perchè quando ti capita di sentirtele dire, come in questo racconto, la sensazione è di piacevole stupore.
    Il Mullah

  2. Generazioni….forse io comincio a non essere compreso dai miei figli….come non ho compreso a volte mio padre….e lui il suo. Adattarsi…e non e’ solo questione di come si affronta la vita…ma di come questa cambi mentre percorriamo la strada che ha disegnato per noi. Complimenti….molto bello ed intenso. Ciao Andrea

  3. Bellissima l’immagine del personaggio, altrettanto belle e molto vere le cose che dice..
    PS:Scusa ma tu, che linea prendi? ..Sulla mia non mi avrebbero neanche vidimato il biglietto eheheheheh ^___^ ciao, kiss

  4. E’ proprio vero c’è gente che spreca il proprio tempo per lamentarsi e sbraitare, non pensando che potrebbe essere l’ultimo attimo e che sarebbe meglio sorridere per nonsciuparlo.ciao cico

  5. C’è una doppia dolcezza : l’aver recuperato se stesso al di là delle rabbie”ereditate”,l’esser andato oltre…oltre quel se stesso recuperato…sino lì…alle pendici di Poggiobrusco…sino a qule capolinea…al dono di se stesso,di un sorriso stanco in un incontro fortuito…ultimo dono o…forse il primo…chissà…
    un sassolino lanciato nell’acqua produce cerchi che si allargano quasi a voler riempire il mare…così è l’inconscio!
    [:-)))))))))))))))
    Dadi il clown

Lasciami un tuo pensiero