La solitudine della pizza

C’è una pizzeria a Castelmoreno, dove si mangia bene. Ci andammo la prima volta qualche anno fa perché ci attirò il nome un po’ particolare: “Appena un filo d’olio”. E’ un posto perfetto per quando è inverno. E’ infatti raccolto, c’è un bel calduccio, il camino sempre acceso. Ci sono tornato l’altro giorno, con i soliti amici, anche se la magia, per l’incipiente primavera, un po’ è svanita. Ma avevamo voglia di starcene un po’ tranquilli, lassù, e di assaggiare la grappa alle pere della signora Lucia.
Quando entrammo, c’era già un po’ di gente e un signore occupava il ‘nostro’ tavolo grosso, anche se era solo. Appena ci vide ci regalò un sorriso sincero e un “buona sera” sonoro e simpatico cui non si poteva non rispondere.
Decidemmo di sederci al tavolo accanto, anche se era un po’ piccolino per noi quattro. Con un cenno del capo il pizzaiolo mi fece capire che bisognava avere pazienza e che probabilmente quella persona se ne sarebbe andata via presto. Ma lo rassicurammo subito, perché per noi non aveva nessuna importanza, andava bene anche così.
L’uomo, a guardarlo meglio, era dimesso, la mani sporche, la barba e i capelli incolti, una giaccotta stinta e sdrucita. Una persona, insomma, che non ti aspetti di vedere seduta ad un tavolo. Mangiava tuttavia di buona lena una pizza ‘reale’ (cioè doppia), come la chiama Gennaro, e se la stava gustando. Ogni tanto si rivolgeva al pizzaiolo dicendo qualcosa, forse qualche considerazione sul tempo, forse sulla musica di sottofondo o su quanto fosse buona quella pizza. Insomma si vedeva che aveva voglia di chiacchierare.
Mi misi a parlare con Tonio, ‘Gi e Bastiano. Tonio era in forma quella sera ed era un torrente in piena con tutti quegli aneddoti sui suoi pazienti.
Ogni tanto lo sguardo mi ricadeva però sul tizio che era davanti a me. Notavo che, man mano che mangiava, faceva bocconi sempre più piccoli, come per prender tempo, non dimenticando di salutare tutti quelli che entravano e uscivano cercando di attaccar discorso. Ma, nonostante il locale fosse pieno, la gente rimaneva in piedi, fuori, ad attendere, piuttosto che sedersi accanto al barbone anche se il tavolo era il più grande.
Cominciai a provare tristezza per quell’uomo. Era quello che si dice ‘un diverso’, uno che, bene o male, era condannato a rimanere sempre solo, isolato, scartato da tutti, a condurre una esistenza che, per mancanza di danaro, di affetti e di punti di riferimento, era tutta in salita. Forse aveva dato fondo a tutti i risparmi per qualcosa di caldo o forse, più semplicemente, aveva avuto un attacco di solitudine insostenibile, di quella che quando picchia, picchia duro, e ti fa star male facendoti sentire alla deriva di te stesso.
Poi al nostro tavolo si avvicinò Tanzi. Un commerciante di Bigialli. Un arruffone antipatico a tutti, pieno di boria, che merita francamente la mia completa disistima. Sfoggiò tronfio il suo loden appena comprato in Austria, costato, secondo lui, una esagerazione. Noi lo si prese in giro, come al solito, Tonio anche pesantemente, poi lui ci salutò, pagò e se ne andò via.
Il clochard, invece, era ancora lì al tavolo grande. Con la gente fuori che aspettava.
Mise in bocca l’ultimo pezzo, piccolissimo, continuando a masticare a lungo, guardandosi attorno come se si trovasse in un ristorante sciccoso sulla Fifth Avenue. Quando non ebbe più nulla nel piatto, asciugatasi la bocca sulla manica, si alzò e fece per andare a pagare.
“Tutto a posto” disse Gennaro “senza neppure sollevare lo sguardo dalla pizza che stava preparando.
“Come tutto a posto, che cosa significa?” – fece l’altro.
“Vuol dire che hanno già pagato per lei…”
“Come, chi ha pagato?”
“Un tizio, non si preoccupi!”
“No, voglio saperlo, se è ancora in questo locale, lo voglio ringraziare.”
“No, è appena andato via: era un signore, con il loden verde.”

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